Nadal si risveglia dall’incubo sull’erba: “Ora sono in forma” (Crivelli). Nadal, attenzione all’anatema di Mister 700 (Semeraro). Scalpers, non era giorno; stavolta Federer e Nadal partono col piede giusto (Clerici). Nel biglietto per i match di Fabio è compreso il bonus sceneggiata (Giua)

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Nadal si risveglia dall’incubo sull’erba: “Ora sono in forma” (Crivelli). Nadal, attenzione all’anatema di Mister 700 (Semeraro). Scalpers, non era giorno; stavolta Federer e Nadal partono col piede giusto (Clerici). Nel biglietto per i match di Fabio è compreso il bonus sceneggiata (Giua)

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Nadal si risveglia dall’incubo sull’erba: “Ora sono in forma” (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)

Se il rosso è il colore dei trionfi, il verde d’improvviso s’era trasformato nella sfumatura del dubbio. Trionfatore nel 2008 e nel 2010 sui prati più leggendari del mondo, sopra quell’erba che per molti era destinato a respingerlo per sempre, lui che è il re della terra, Nadal negli ultimi due anni a Wimbledon si era ritrovato turista suo malgrado. Prima il crac contro Rosol al secondo turno e la lunga pausa per il ginocchio dolorante, poi dodici mesi fa lo stop contro l’ignoto Darcis dopo sei mesi da favola. E’ pur vero che si trattava di un Rafa dimezzato, come lui stesso tiene a ricordare: «Non stavo bene fisicamente, tutte e due le volte non mi ero presentato al cento per cento e questa superficie invece richiede molti sforzi alle ginocchia». Ma quando lo slovacco Klizan, mancino di Bratislava numero 51 del mondo, con quel servizio slice che incide come un rasoio e il dritto a uncino che per 50 minuti pare il gemello dell’arma letale del maiorchino, gli fa il break nel nono game del primo set e poi si prende il parziale 6-4, una volta di più si materializzano nel silenzio del Centrale gli incubi di un’altra giornata tossica. Anche perché Martin sicuro non trema e addirittura ha la palla break del 2-1 e servizio ad inizio secondo set dopo uno splendido passante di rovescio correndo in avanti.

Ma ci sono maledizioni che non possono durare a lungo, almeno non stavolta, con Nadal ammantato dell’aura mitologica del nono titolo al Roland Garros. E così il numero uno del mondo, se non al gioco, ricorre almeno ad un’altra qualità della casa: «A quel punto, sapevo che dovevo combattere, dovevo essere capace di trovare altre soluzioni. Posso fare di meglio, certo, ma la confidenza con l’erba si acquista solo facendo partite su partite». Klizan ha il merito di rimanere sempre nel match, Rafa concede qualche gratuito di troppo (25 alla fine) però è solido al servizio e, in due occasioni, ottiene il punto con il passante dopo essersi rialzato da terra, sintomo di una condizione atletica di spessore: «Mi sento in forma, anche se è difficile trovare subito gli automatismi sull’erba». I pugni alzati tornano a farsi minacciosi, anche perché il prossimo turno gli riserverà la rivincita con Rosol: «Non mi interessa ciò che è successo due anni fa — confessa Nadal —. So soltanto che è un giocatore forte e che se non darò il massimo non arriverò al terzo turno».

Eppure, pare una piccola bugia, come quando ammette di accontentarsi: «Il mio sogno era di vincere questo torneo, ci sono riuscito due volte, mi basta così». Parole che suonano incredibili, un po’ come le scarpe di Marion Bartoli sul Centrale nell’omaggio alla vincitrice 2013 ormai ritiratasi. Applausi, ma da ogni anfratto dell’All England Club si respira il desiderio di un quarto che sarebbe la replica della finale di dieci anni fa, Maria contro Serena (…)

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Nadal, attenzione all’anatema di Mister 700 (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

Lo Slam è un labirinto di destini intrecciati, Wimbledon un vecchio giardino fatto di sentieri che si incrociano, ma guai tagliare la strada a Rafael Nadal. Il Niño ieri contro lo slovacco Klizan (4-6 6-3 6-3 6-3) ha festeggiato la sua 700 vittoria in carriera, la prima sull’erba da quella strappata a Thomaz Bellucci proprio a Wimbledon nel primo tino del 2012, prima di inciampare contro Rosol al secondo. L’anno scorso toccò a Steve Darcis fargli un clamoroso sgambetto già all’esordio, ma quella vittoria non ha portato affatto bene al belga Da allora Darcis, come colpito da una maledizione, non ha più rimesso piede nel tabellone principale di un torneo Atp, e quest’anno a Wimbledon è entrato nelle qualificazioni, dove ha perso al secondo turno, solo grazie ad una wild card. «Dopo quel match ho provato cinque minuti di intensa felicità – ha spiegato amaramente Darcis, ex n.44, oggi scivolato al n.363 – poi sono stati solo dolori. Colpa di una spalla scucita, che dopo mesi di infiltrazioni lo ha costretto a una complicata operazione chirurgica nella quale un tendine gli è stato prima accorciato di un centimetro, poi di nuovo “stirato”. «Ma anche dopo i dolori sono stati tremendi: per due mesi ho dovuto dormire sul divano, non riuscivo a prendere in braccio mio figlio e nemmeno ad alzare una bottiglia d’acqua». Il belga non è il primo che dopo uno “sgarbo” al numero 1 del mondo in uno Slam finisce travolto degli infortuni. Basta pensare a Robin Soderling, l’unico uomo capace di battere Nadal al Roland Garros (negli ottavi del 2009). Lo svedese, n.5 del mondo nel 2011, ormai da tre anni è fuori dal circuito, vittima di una mononucleosi che gli impedisce persino di allenarsi. Trattasi evidentemente di coincidenze, ma Lukas Rosol, il ceco che due anni fa seccò Nadal sul Centre Court e che domani se lo ritroverà davanti, è avvertito.

CLUB ESCLUSIVO. Rafa nel frattempo ha celebrato con sobrietà l’ingresso in un club, quello dei tennisti con almeno 700 vittorie in carriera, che conta solo undici membri nell’era Open. Il primo, inarrivabile a quota 1253, è Jimmy Connors, poi vengono Lendl (1071), Federer (958), Vilas (929), McEnroe (875), Agassi (870), Edberg (801), Nastase (779), Sampras (762) e Becker (713). Dei quattro “Fab Four” lo spagnolo fra l’altro è quello che ha la miglior percentuale di titoli conquistati nei grandi tornei, cioé nei quattro Slam, nei Masters 1000, nelle Finali Atp e alle Olimpiadi: 65,6% contro il 63,6 di Djokovic, il 56,4 di Federer e il 42,9 di Murray. E sull’erba di Wimbledon, una superficie sicuramente meno adatta della terra al suo tennis, ha già trionfato due volte e raggiunto cinque finali. «Vincere una partita a Wimbledon, sul Centre Court, è sempre un’emozione., ha ammesso ieri il Niño. «E poi non voglio raccontare bugie nessuno: se in un torneo perdi un anno al secondo turno e quello dopo al primo, qualcosa ti resta in testa. Ma solo fino a quando entri in campo. Dopo, l’unica cosa a cui pensi è come trovare un modo di vincere ancora. Il passato è passato». In passato, peraltro, vincere nello stesso anno Roland Garros e Wimbledon era un’impresa. L’ultimo a riuscirci prima di Nadal (nel 2008) era stato l’immenso Borg nel giurassico 1980 (…)

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Scalpers, non era giorno; stavolta Federer e Nadal partono col piede giusto (Gianni Clerici, La Repubblica)

NELLA mia vita di tennista fallito, prima che la commissione dell’esame di maturità si stufisse di vedermi, e mi ammettesse a Lettere, ho avuto il privilegio di giocare contro quattro vincitori di Wimbledon. Li elenco, perché qui a Wimbledon solo un vecchissimo steward li ricordava. Drobny, Sedgman, Falkenburg, Cooper. I risultati fanno tuttora vergogna non solo a me, ma alle mie nipotine. Anche per questo, nelle prime giornate di Wimbledon, io vago inquieto da un campo all’altro, nell’attesa che, per interposta persona, un Clerici d’oggi giorno riesca miracolosamente a sgambettare uno di quei ricconi di partite vinte, di quegli eroi dei nostri tempi che, in fondo, dice la psichiatra Marcone, invidio. L’anno passato, dunque, ebbi grandi vendette, all’avvio, da tale Stakhovsky, ucraino, pensate voi, che estromise Federer arrivando ben tre volte per primo al settimo decisivo game: segno di indubbia superiorità mentale, oltre che tecnica.

Non da meno, anzi, da più, fu un belga mai visto (sarà stato in miniera?), tale Darcis, ora qualcosa come n. 363, che era riuscito, non so come, a battere addirittura Nadal e attribuiva ora la sua scomparsa – non quella umana, ma tennistica – a una spalla scassatissima. Oggi dunque mi sono messo sulle tracce di quelli c he gli americani chiamavano scalpers, e cioè scotennatori, e ho iniziato da Federer, del quale sono un devoto, e come tale preferirei ormai ricordare nelle mie preghiere. Casualmente, il suo avversario era un italiano, uno di livello Clerici, tipo che ha casualmente interrotto un lignaggio familiare di medici, chissà se a ragione. Sul campo Numero Uno, il buon Lorenzi ha fatto sì che i meno preparati tra gli spettatori continuassero a credere nelle possibilità attuali del presunto ‘Più Grande di Tutti i tempi’.

Ha giocato il suo onesto tennis, Lorenzi, concedendo a Federer il tempo, in frazioni di secondi, per i suoi nobili gesti, che tempi più veloci rendono infrequenti. Rivistomi dunque nella mia modestia degli Anni Cinquanta, mi sono trasferito sul Center, dove tale Martin Klizan era atteso quale preda di Rafa Nadal. Lo stesso Rafa che, tra tanti miracoli positivi, è riuscito nel fallimento di due consecutivi Wimbledon, contro semi sconosciuti quali Rosol e il già menzionato Darcis. Il gregario toccatogli in sorte oggi era tale Klizan, n. 51, ex cecoslovacco, e quantomeno, quindi, di buona scuola. Tale Klizan, che ricorda nel viso ossuto un suo predecessore, Kodes, famoso vincitore del Wimbledon dello sciopero 1973, ha non solo il vantaggio comune a tutti i mancini, di tirare col sinistro, ma anche quello della esplosività. Ha iniziato a far esplodere proiettili ancor più deflagranti di Nadal, è andato in testa un set ma, alla prima stretta, ha iniziato a scivolare sull’erbetta quasi fosse ghiaccio verde. Qualcuno ha dato allora la colpa alle suole, qualcun altro al baricentro, ma i più preparati si sono accorti che il principale responsabile doveva essere Rafa (…)

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Nel biglietto per i match di Fabio è compreso il bonus sceneggiata (Claudio Giua, repubblica.it)

Avevo osservato a lungo le espressioni di Corrado Barazzutti e Sergio Palmieri, approdati per tempo con le migliori intenzioni sul campo numero 18 di Wimbledon. Placidi e sorridenti, volevano gustarsi in santa pace l’annunciato successo pieno di Fabio Fognini contro il numero 144 al mondo. Macché, poveracci. All’inizio avevo visto stupore: com’era possibile, si chiedevano, che il meno dotato dei Kuznetsov – Alex, nessuna parentela con Svetlana o Andrey, nato a Kiev nel 1987, immigrato negli USA con i genitori nel 1990, cresciuto a Philadelphia, svezzato tennisticamente in Florida, un “Kuznetsov who?” persino oltreatlantico – potesse mettere in serissime difficoltà il nostro numero 1? Dopo il 2-6 subito in 23 minuti, avevo visto salire l’indignazione sui volti del commissario azzurro e del direttore degli Internazionali: il ragazzo di Arma di Taggia stava fornendo una performance indegna, inferiore per qualità tecnica e atteggiamento in campo persino a quelle, insensate, della seconda parte della stagione sulla terra. Soprattutto a Roma e Parigi. Per l’umiliante 1-6 del secondo set, comprensivo di un’intemerata punita con un warning, erano bastati 25 minuti di non-gioco. Avevo temuto che i due esperti tecnici azzurri traslocassero sul campo 16, dove Sara Errani stava per affrontare la ostica giovane francese Caroline Garcia.

Avrebbero fatto bene. Dopo aver finalmente trovato un po’ di serenità e recuperato senza sforzo lo svantaggio di due set (6-4 6-1 in 69 minuti complessivi), sul 2 pari nel quinto Fabio s’era esibito nel suo numero migliore, che nessuno del circuito esegue meglio di lui: la prolungata discussione con arbitri e, indirettamente, con il pubblico. Di cosa, è assolutamente irrilevante. M’immagino che all’inizio di ogni torneo l’ATP e i responsabili delle gare organizzino una riunione simil-massonica dedicata al tema “Come reagire quando Fognini inscenerà una delle sue sceneggiate autolesionistiche?”, nel corso della quale succede sempre che qualcuno proponga la cacciata dal campo. Forse sbaglio e romanzo troppo prassi di routine. Comunque, Palmieri custodisce bene questi segreti.

Nulla di nuovo a Wimbledon, se non che rispetto a recenti situazioni analoghe che vanno facendosi più frequenti, stavolta Fabio aveva di fronte un onesto lavoratore della racchetta, dotato di un buon servizio e di un discreto diritto, che s’era conquistato un posticino nel tabellone principale solo grazie a tre favorevoli turni di qualificazione. Mica un potente ex top ten come Jo-Wilfried Tsonga o un solido macinatore di gioco come Lukas Rosol. Nonostante ogni irragionevole sforzo di buttare in Tamigi il proprio talento, alla fine Fabio ce l’aveva fatta (9-7 in 72 minuti). Spero solo che, a cena, Flavia Pennetta gli dica quattro parole: perché, caro, fai così?

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