Juan Giner, la bestia nera di Rafael Nadal

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Juan Giner, la bestia nera di Rafael Nadal

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TENNIS PERSONAGGI – Storia di Juan Giner, valenciano tutto cuore e determinazione che si allenava con Safin e dava la paga a Nadal. Non ha retto i ritmi imposti dal tennis professionistico. Adesso insegna tennis per la Federazione spagnola e per regalare un sogno ai suoi ragazzi, per poter dire un giorno: “Anch’io ho vinto contro il numero uno del mondo”.

“Ci sono due forze che ci aiutano a vivere: l’oblio e la speranza” scriveva Blasco Ibañez. Lo sa bene un altro valenciano, Juan Giner, che sin da piccolo ha solcato i campi da tennis cercando di uscire dall’anonimato che un piccolo paese può condannarti. A Cullera piove sole e il fiume Júcar trova riposo nel mare azzurro nel Mediterraneo. A 8 anni incomincia a partecipare ai primi tornei regionali, mettendosi subito in mostra. Continua a giocare, aiutato e spinto dal padre Juan e dalla madre Maria Dolores. Gli allenamenti e la scuola, la vita di tutti giorni.

Non poteva che destare attenzione e all’età di 14 anni la federazione spagnola lo convinse a fare la spola tra Barcellona e Valencia per cercare di entrare nel mondo del professionismo. Si allenava ogni tanto con Marat Safin che si era trasferito in Spagna per migliorare il suo gioco. Insieme al suo allenatore Jose Luis Aparisi nel 1996 tenta la fortuna negli Stati Uniti giocando per l’unica volta all’Orange Bowl dove arriva solo ai quarti di finale. Ma la determinazione e la tenacia sono le sue caratteristiche principali e due anni dopo arrivano le prime soddisfazioni. Vince il futures di categoria F5 contro Pedro Rico e nel 1999 raggiunge la semifinale nel challenger di Biella fermato da Oleg Ogodorv chiudendo la stagione al 279esimo posto in classifica.

 

Per Giner la sua superficie di predilezione è la terra e con un buon dritto gioca alla pari con Ferrer, Verdasco e Moya. Intanto un ragazzo proveniente da Manacor suscita l’interesse generale in Spagna. Tutti parlano di lui, è evidente l’alto potenziale. Sebbene fosse un giocatore classificato solo alla 990esima posizione, nel 2001 in un torneo di esibizione Nadal batte l’ex campione di Wimbledon Pat Cash. E’ proprio Juan Giner a spegnere momentaneamente i sogni di gloria al giovane maiorchino.

Nell’edizioni dei futures di categoria 7 dello stesso anno, il valenciano diventa la bestia nera di Nadal e sarà l’unico ancora oggi a poter vantare 2 vittorie su 2 incontri. Il primo scontro è nei quarti e Giner con il punteggio netto di 6-0, 6-4 ferma il futuro nove volte campione del Roland Garros. Pochi mesi dopo, si rincontrano al secondo turno ed è un’altra partita senza storia, con i parziali di 6-3, 6-2. I due giocatori prendono dopo due strade diverse e come spesso capita il destino fa fuoco con la legna che c’è.

Mentre negli anni successivi Nadal intraprende quella iperbole ascendente ben nota, anche Juan Giner continua imperterrito nel circuito maggiore raggiungendo la posizione 169 dell’ATP, la più alta in carriera. Nel suo palmares segnerà in totale tre tornei satellite, poca cosa rispetto al suo connazionale. “La verità è che quando si gioca a livello professionistico, il ritmo è molto alto e faticoso. Viaggiavo 42 settimane l’anno” dichiara in una intervista. E’ l’eccessivo stress che spinge Giner a fare una svolta alla sua vita.

La proposta viene proprio da dove si è allenato da bambino che gli propone di diventare allenatore e insegnare il tennis ai ragazzi. E’ una occasione allettante e può ritornare così a casa. Ci si dedica anima e cuore per dare al Cullera Tennis Club una scuola, che lui non ha mai avuto, all’altezza per i futuri giocatori professionisti. Trova le condizioni e le persone ideali e il progetto ha successo diventando oggi un club rinomato in Spagna dove a volte si può vedere David Ferrer o Anabel Medina Garrigues prepararsi per la stagione sulla terra.

Il tennis spagnolo, che vive il suo momento d’oro, non riesce a trovare la continuità nelle giovani leve. Nadal di recente ha parlato di Juame Munar ma è ancora troppo presto per fare un bilancio. Certo che la RFET (Real Federación Española de Tenis ) deve fronteggiare molti problemi e il movimento “Reimagina el Tenis”, fondato nel Settembre del 2013 da Toni Colo, ha denunciato le difficili condizioni economiche che avversa il tennis giovanile proponendo una serie di misure per ridurre i costi, legati ai viaggi, alberghi e allenatori, e aumentare contemporaneamente l’entrate ai giocatori dei futures.

Dare la speranza ai giovani è il compito che tutte le federazioni devono prefissarsi per evitare di perdere per sempre talenti. Solo l’aiuto economico dei genitori garantisce ai propri figli un minino di continuità ma una situazione che non rende alla fine buoni risultati. Le strutture inadeguate e i mezzi economici insufficienti possono offuscare i sogni dando spazio alla disillusione. Nel piccolo si deve ringraziare Juan Giner, la bestia nera di Nadal, che con il suo lavoro e la sua passione cerca di insegnare il tennis ai ragazzi per poter raccontare un giorno “Anch’io ho vinto contro il numero uno al mondo”.

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ATP

Il team di Sinner si racconta: “Ognuno svolge il suo compito con estrema serietà. Il più competitivo? Jannik senza dubbi”

In un video-intervista all’ATP il team del tennista altoatesino si racconta a tutto tondo, da come svolgono il proprio lavoro al rapporto tra i membri della squadra, per finire con un ritratto di Sinner atleta ma anche persona

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Jannik Sinner - US Open 2023 (foto Twitter @usopen)

Il tennis, espressione massima della solitudine nel proprio palcoscenico, è ormai da molti anni descritto dalla totalità dei giocatori del circuito ATP e WTA come uno sport certamente individuale, ma nel quale il team è la colonna portante dell’intera struttura. Dal coach al super coach, dal fisioterapista al mental coach, dal preparatore atletico al manager. Tutti ingredienti fondamentali dietro le quinte – o meglio, nel famoso ‘box’ a bordo campo molto inquadrato dalle telecamere e osservato, chi più chi meno, dai giocatori in campo – che possono rendere un tennista il tennista, capace grazie alla propria forza di volontà e a tutti questi tasselli nel background di raggiungere, o meno, il successo e i propri obiettivi. La storia del tennis è colma di coach che hanno fatto la differenza: da Toni Nadal mentore di suo nipote Rafa, da Patrick Mouratoglou allenatore per un decennio di Serena Williams, per poi arrivare ai colori azzurri con Andreas Seppi e Massimo Sartori, Lorenzo Sonego e Gipo Arbino, Lorenzo Musetti e Simone Tartarini, per concludere con Jannik Sinner e…

Questo è un capitolo bello corposo da trattare: il team del n.1 italiano. Chi c’è dietro quella folta chioma rossa? Certamente i primi che vengono in mente sono Simone Vagnozzi e Darren Cahill – entrambi ex giocatori –, che per Jannik svolgono rispettivamente il ruolo di coach e supercoach. Un’intervista molto approfondita dell’ATP analizza ai raggi X la squadra del tennista altoatesino, che numerosa è dir poco. “Sono persone buone e felici; ognuno sa molto bene di cosa si deve occupare. Mi sento fortunato ad avere un team così”, le prime parole di Sinner sul proprio team, che come dirà poco dopo è come una famiglia. Vedo più spesso loro che i miei genitori”. Si capisce sin sa subito quello che il n.7 ATP cerca tra i propri membri della squadra: competenza e affinità. Infatti, “per me ognuno è fondamentale. Quando qualcuno entra a far parte del gruppo non è importante solamente che sia uno dei migliori nel suo lavoro, ma è essenziale anche come io mi senta con questa persona. Devo essere a mio agio e sapere che posso parlare di qualunque cosa che mi passi per la testa con tutti quanti”.

Successivamente la palla passa agli allenatori di Sinner, Vagnozzi e Cahill. La collaborazione con il primo inizia a febbraio 2022, come ricorda anche il 40enne di Ascoli Piceno, mentre la più fresca entrata – a giugno 2022 – è quella dell’ex semifinalista allo US Open Darren Cahill, coach in passato di personaggi come Andre Agassi, Lleyton Hewitt, Andy Murray e Simona Halep. Il mio ruolo è più quello di trasmettergli la mia esperienzaci informa l’australiano, “sono stati dei primi mesi di collaborazione molto buoni e produttivi”. Si sapeva già l’attitudine di Jannik in campo, ma il tennista italiano ci tiene comunque a farlo sapere chiaro e tondo: Sono il più competitivo, odio perdere, e sia Vagnozzi che Cahill dicono all’unisono che Jannik vuole vincere dappertutto, in ogni cosa che fa”.

 

L’ex allenatore australiano di Coppa Davis tira in ballo anche il preparatore atletico di Sinner, Umberto Ferrara, definendolo come il più serio. Nel tennis il corpo deve essere il tuo tempio, di conseguenza probabilmente lui ha il lavoro più importante di tutti. A cena dice sempre a Jannik quello che sarebbe meglio mangiare e ciò che si deve evitare”. E conferma anche Umberto che, mettendo le mani avanti, informa subito che quando lavoriamo siamo tutti seri. Quando è terminato l’allenamento, invece, si può scherzare tutti insieme. Ma non mancano nel team Sinner momenti di svago conviviali, rigorosamente nella maggior parte dei casi con le carte da gioco. Il ‘Burraco’ è quello che va per la maggiore ed è stato Giacomo Naldi, fisioterapista dell’altoatesino, a introdurlo a tutta la squadra. Jannik vuole giocare tutti i giornifa sapere Giacomo, che spiega questa ‘tradizione’ del 22enne di San Candido chiarendo che “la prima volta che abbiamo giocato insieme Jannik ha vinto il torneo a cui stava partecipando; quindi è per questo che vuole sempre giocare secondo me”.

Passando alla routine, invece, tutti i membri del team intervengono dicendo la propria, precisando che Sinner innanzitutto svolge qualche esercizio di mobilità e prevenzione, soprattutto alcuni specifici movimenti che lo proteggono da infortuni avuti in passato, come ad esempio quelli alla caviglia”. Poi arriva il turno di Naldi prima e dopo l’allenamento. Quest’ultimo è di un’ora e mezza, in cui il campione azzurro viene seguito da Vagnozzi, Cahill e consiste in palleggi di ritmo con uno sparring partner, per finire con qualche punto. Nel pomeriggio, invece, un’ora di tecnica in cui ci si concentra sul servizio, sulle volée, sullo slice…”, mentre la maggior parte del lavoro di Giacomo Naldi, come lui stesso afferma, avviene dopo: “Faccio qualche massaggio, qualche ulteriore esercizio di mobilità, lavoro con i suoi muscoli e cerco di far sì che il suo corpo possa recuperare al meglio”.

Come dice anche Sinner, non è un rapporto unilaterale quello tra coach e giocatore, infatti loro mi spingono a dare il meglio di me, ma anche io li sollecito parecchio. Ogni giorno è una sfida, ed è fondamentale non solo che loro siano miei amici, ma che sappiano anche essere onesti con me”. Cahill, poi, interviene facendo sapere un aspetto molto importante della persona-tennista che è Jannik Sinner: Non c’è molta differenza tra lo Jannik che si vede in campo e quello che si osserva al di fuori di esso. Lo si può vedere nei suoi occhi da volpe, che al momento giusto possono diventare quelli di una tigre”. Vagnozzi, invece, si sofferma sul fatto che Sinner quando entra in campo vuole sempre migliorare, è costantemente col sorriso, quindi per un coach è più semplice svolgere il suo lavoro”. Mettendo sul piatto della bilancia i risultati di quest’anno “Jannik è soddisfatto, ha più fiducia dopo la semifinale a Wimbledon e il titolo a Toronto. Questi erano suoi obiettivi”.

Un team solido, unito, familiare, dove ognuno ha un preciso compito e allo stesso tempo è un pezzo fondamentale del puzzle finale. Jannik ha solamente ventidue anni, ha già conquistato vette importanti del ranking, ha vinto tornei 250, 500 e 1000, è stato semifinalista Slam e, cosa più importante, è seguito da persone che credono nei suoi mezzi e lo stimolano al meglio. Dopo la parentesi US Open seguita da quella – mancata – di Coppa Davis, per Sinner ora è il momento di tuffarsi nell’ultimo periodo della stagione, con gli ultimi due tornei 500, due tornei 1000 e le Finals di fine anno dove non è ancora qualificato ufficialmente, ma gli mancano pochissimi punti per raggiungere la quota sufficiente per parteciparvi. Sappiamo che dopo New York Jannik si è dedicato al puro allenamento in vista dei prossimi appuntamenti. Il team ora lo conosciamo, sappiamo come lavorano, quindi non ci resta che metterci comodi e osservare le gesta del nostro n.1. Cinture allacciate, direzione Pechino!

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ATP

Il numero uno indiano, Sumit Nagal: “Ho solo 900 euro nel mio conto bancario”

Il campione del challenger di Roma Sumit Nagal commenta in maniera critica il prize money dei tornei minori

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Sumit Nagal - US Open 2019 (foto via Twitter, @usopen)

Sicuramente una stagione positiva a livello challenger quella che il numero uno indiano Sumit Nagal sta vivendo. Il 26enne ha sicuramente messo in mostra il suo miglior tennis sui campi di Roma e Tampere (in cui ha portato a casa il titolo) ed è reduce dalla finale persa contro Kopriva a Tulln, in Austria. Il conto bancario del tennista non coincide però, suo malgrado, con il livello del suo tennis. Nagal ha espresso il suo parere in maniera critica all’agenzia di stampa Press Trust of India: “Ho solo 900 euro nel mio conto bancario. Non sto vivendo un’ottima vita” . Ne aveva parlato anche Djokovic in un’intervista, dichiarandosi davvero fortunato.

Il montepremi dei tornei Challenger e ITF non è abbastanza alto per poter permettere ai giocatori di vivere di tennis. L’indiano è già supportato da alcuni sponsor tra cui Yonex e Asics che gli forniscono racchette e scarpe, ed ha avuto un ulteriore aiuto per poter sostenere le spese di iscrizione e soggiorno ai tornei: “Guardando il mio bilancio economico, oggi ho quanto avevo all’inizio dell’anno. 900 euro. Ho ricevuto un piccolo aiuto. Prashant Sutar mi sta aiutando con la fondazione tennis MAHA e sto avendo anche un salario mensile dalla Indian Oil Corporation”.

Il tennista è amareggiato dalla mancanza di sponsor importanti dopo il suo infortunio: “Sento come se nessuno credesse più in me da quando il mio ranking è sceso a causa dell’infortunio. Nessuno pensa che io possa tornare a quei livelli. Onestamente, non so cosa fare, ci ho rinunciato”.

 

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evidenza

Fallire Meglio: Marco Speronello come esperienza filosofica: “Anche creare qualcosa di bello è un obiettivo”

Il tatuaggio di Stan Wawrinka. Intervista con il tennista di Montebelluna: 15 anni fa batteva Goffin, oggi domina i tornei FITP. Come far vanto dell’accettazione dei propri limiti

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Marco Speronello

Parte I – Sliding doors

Era il 1983 quando Samuel Beckett, il celebre scrittore e drammaturgo irlandese, componeva la sua penultima opera, una novella parodistica intitolata “Worstward Ho!”. All’epoca non destò troppa attenzione ma negli ultimi anni, con l’avvento dei memi su internet, soprattutto quelli motivazionali, un passaggio è divenuto celebre. Recita, in lingua originale, così:

Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.

Sempre provato. Sempre fallito. Non importa. Riprova. Fallisci di nuovo. Fallire meglio.

 

In realtà il poema nel complesso è tutt’altro che motivazionale, analizza in chiave sarcastica e nichilistica l’assurdità di perseguire obiettivi per poi trovarsi, come unica ricompensa, a “Fallire meglio”.

Ma poco importa: il pubblico del web ha deciso di estrapolare un segmento da un contesto più ampio per fargli significare una cosa bella, positiva, moderna, e chi sono esegeti, o Beckett stesso, per dire altrimenti? Il concetto del “Fail Better” nasce e si sviluppa così nella cultura generale all’inizio dello scorso decennio.

Con conseguenze anche nel mondo del tennis. In un giorno ben preciso, il 28 marzo 2013, seguendo i paradigmi del Butterfly effect, un neo 28enne svizzero decide di tatuarsi questa frase sull’avambraccio come regalo di compleanno. Non è propriamente un fallito, ma una persona di successo. Un tennista che ha un gran bel curriculum all’attivo: una finale di un Masters 1000 persa a Roma nel 2008 da Djokovic, due quarti di finale negli Slam e, soprattutto, un oro Olimpico vinto in doppio con il suo amico e connazionale Roger Federer.

Il ventottenne Stanislas Wawrinka però sente di aver in qualche modo fallito nella carriera: sa di valere molto di più dei risultati che ha ottenuto, dei soli tre tornei 250 in bacheca (Umago, Rabat, Chennai). Ha appena giocato una partita storica agli Australian Open, cedendo al quinto set negli ottavi, nuovamente da Djokovic, che ha contribuito a rafforzare la sua nomea di “perdente di lusso”. La top ten, accarezzata nel 2008 a soli 23 anni, si è allontanata e la sua carriera, ormai al giro di boa se non oltre, si è stabilizzata su un continuo di risultati ottimi ma non eccezionali. Difficile immaginare che nella seconda parte di carriera, Stan possa portare a casa più di quanto fatto nella prima.

Eppure quel tatuaggio cambia tutto: lo svizzero si ritrova quella frase davanti agli occhi ogni volta che prende una pallina in mano, lo motiva, e fra il 2014 e il 2016 dà origine al più incredibile cambio di passo visto in tutta la storia del tennis. L’uomo che sentiva la tensione dei grandi appuntamenti, che ci andava “sempre vicino”, vince 11 finali consecutive, tra cui tre titoli Slam e un Masters 1000, oltre a una Coppa Davis, stabilendosi al terzo posto del Ranking mondiale. Diviene per tutti “Stan the man”, “L’uomo tempia”, un supereroe capace di non dubitare mai nei momenti che contano.

Il tutto per un tatuaggio.

Un tatuaggio che Marco Speronello non si è mai fatto.

Parte II – La grande occasione

Non sarà magari colpa del tatuaggio, ma Marco il potenziale per sedersi al tavolo dei top100 lo avrebbe anche avuto. Certo, di Wannabe nel campo dello sport è pieno il mondo, alzi la mano chi non conosce un amico o un parente che se non fosse successo X, oggi sarebbe portiere titolare almeno in Serie B. Per il nostro (anti)eroe però parlano i fatti: a 16 anni era uno dei prospetti più promettenti per il tennis italiano, sotto stretta osservazione e cura della FIT (all’epoca senza “P”). Non ha mai incrociato la racchetta con Wawrinka, del quale è qualche anno più giovane, ma essendo classe ’91 ha giocato con i maggiori talenti della “generazione perduta”, battendoli spesso e volentieri.

La carriera di Marco si divide in due parti: fino al 2007 è costellata di successi e di prestazioni promettenti. Figlio di un proprietario di un piccolo circolo del trevigiano, a 12 anni gioca il suo primo torneo di una certa importanza, l’Open under12 di Auray in Bretagna. Per risparmiare la famiglia prenota in anticipo il volo di rientro per il sabato. Dovranno rinviarlo al lunedì, perché Marco vince il torneo che fu, qualche anno prima, di Rafa Nadal e poi di Andy Murray. Nel 2005, a quattordici anni, si ritrova a Tarbes per uno dei più importanti tornei al mondo in quella fascia d’età; sopra 6-2 5-3 40-15 contro un coetaneo bulgaro, tale Grigor Dimitrov, spreca molteplici matchpoint e perde 7-5 al terzo. Per la prima volta sente una frase che lo perseguiterà tennisticamente per quasi tutta la carriera: “Hai perso una grande occasione”.

Marco Speronello

Parte III – Noi falliti siamo il 99%

La formazione dell’adolescente Marco procede comunque bene. D’altro canto, proprio in quel torneo qualche anno prima Nadal perse un match tirato contro Gasquet, e guarda adesso che sono Pro come si sono ribaltate le gerarchie. Per altri due anni tutto fila secondo agenda: Marco Speronello decide (o altri per lui) di non partecipare agli Slam junior, un po’ come le sorelle Williams. Procede con disciplina infilando qualche vittoria importante qua e là. In un torneo ETA in Repubblica Ceca incrocia per la prima volta un belga mingherlino, David Goffin, e lo sconfigge con un perentorio 6-2 6-2.

Quando c’è da fare l’ultimo salto, quello più difficile, qualcosa però si inceppa. Distrazioni, propensione al sacrificio, disciplina, chissà cos’è che non funziona più come prima: la carriera improvvisamente prende la piega del 99% dei tennisti: ovvero quelli che non riescono a infilarsi per la stretta porta che conduce al professionismo. Marco vede gli amici e compagni di formazione Giannessi e Cecchinato infilare risultati importanti mentre lui fatica a saltare l’ultimo ostacolo. Per tre anni girovaga per Futures senza acuti, le finanze cominciano a diventare un problema, le “occasioni perse” sono sempre di più, fino a fondersi come un mostro in un’unica, grande Occasione Persa: il salto al professionismo.

Il giorno del suo ventesimo compleanno, invece di festeggiare come i suoi coetanei, è triste in una stanza di un albergo in Florida dopo l’ennesima sconfitta contro un americano un po’ smargiasso che lo insulta per tutto il match, si chiama Jack Sock e si impone 7-5 7-6. E non può neanche bersi una birra perché non ha l’età per l’alcool negli States.

Ormai il treno è passato: manca l’entusiasmo, il divertimento che è essenziale al tennis spumeggiante e pirotecnico di Marco. Seguono tre anni senza reali speranze, barcamenandosi in risultati inferiori a talento e aspettative come un Wawrinka pre 2014. E proprio in quell’anno, mentre il suo alter ego distopico raccoglie trionfi in giro per il mondo, Marco decide che la rincorsa senza fine al professionismo non fa più per lui. Il primo settembre 2014 gioca e perde, con un doppio 6-4, il suo ultimo match a livello Futures, a Trieste, contro un giovane torinese: Lorenzo Sonego.

Parte IV – La fine è il mio inizio

Per tutti questi motivi, se oggi gli altri nomi citati in questo articolo rilasciano interviste in sale stampa gremite in giro per il Mondo, Marco Speronello invece ci raggiunge volentieri per una chiacchierata nel suo amato Veneto, vicino a Montebelluna dove è nato e cresciuto e ancora oggi risiede. Ha 31 anni e ha una mentalità e una filosofia, sportiva e di vita, diversa. Distante dallo stress e dalle ansie di prestazione del circuito maggiore, si diverte lavorando come istruttore di tennis tre giorni a settimana. Negli altri, gioca tornei FITP in zona. Li vince quasi tutti, anzi: li vince come nessun’altro. 111 titoli (and counting…) da quando ha cominciato la seconda parte della sua carriera, quella amatoriale. Un record che probabilmente non verrà superato per molto tempo.

In molti tendono a descrivere la mia carriera dicendo che sul più bello, quando dovevo cominciare, ho smesso. Ma io la vedo all’esatto opposto: ho iniziato davvero quando ho finito“.

In mezzo alla narrativa usuale che premia come storie di successo chi ha saputo sconfiggere avversari e avversità, chi (come ad esempio Agassi) ha sentito la missione di dover sfruttare il suo talento come un dovere più che un piacere, l’attitudine di accettazione dei propri limiti di Marco Speronello è una novità: anche se i suoi corrispettivi ad alti livelli, leggasi Kyrgios e Bublik, non mancano. Gente che avesse preso il tennis più sul serio, probabilmente avrebbe raccolto di più. Ma che proprio in questo limbo han trovato la loro dimensione.

Uno dei momenti che più lo hanno fatto riflettere e lo hanno instradato verso la seconda parte della sua carriera è stato assistere, a 19 anni, a una partita di Roberto Palpacelli, probabilmente il più noto esempio di talento sprecato in Italia. Sul “Palpa”, che come Marco aveva un futuro promettente da adolescente, sono stati scritti articoli e biografie a non finire, incentrati soprattutto sulla sua discesa agli inferi della tossicodipendenza, i guai con la legge e la riabilitazione.

Lo vidi giocare all’Open di Fano quando avevo 19 anni e fu per me un’esperienza mistica. Come una mostra d’arte, vidi un tipo di tennis raro e mi riconciliò con il concetto che il risultato non era tutto, anche il semplice creare qualcosa di bello poteva essere un obiettivo. D’altro canto, da ragazzino mi innamorai del tennis grazie a Ivanisevic, un altro che era genio e sregolatezza. La finale di Wimbledon del 2001 contro Rafter resta per me il più bel match della storia del tennis”.

Non spericolato negli eccessi autodistruttivi come Palpacelli, né disciplinato alla ricerca di un obiettivo come gran parte dei professionisti.

Ma qualche eccesso l’ho avuto anch’io: cinque finali giocate (e tutte vinte) dopo aver dormito in macchina fuori dal circolo al termine di una serata di festa. E una volta ruppi tutte le racchette, l’ultima sul 6-5 per il mio avversario al terzo set. Me ne feci prestare una dal pubblico con la quale tenni il servizio e poi vinsi il tie-break finale. Non contento mi ricapitò una cosa simile l’anno seguente, a Verona: stavolta però l’ultima racchetta non la spezzai di proposito, si ruppero le corde. Quella volta non si trovò nessuno che me ne prestasse un’altra e dovetti concedere l’incontro”.

Oggi Marco si è costruito un seguito di affezionati, un pubblico che affolla i campi dove gioca nella speranza di vedere qualche magia del “Bublik Italiano”.

Mi hanno spesso definito così, e forse è vero. Ho un tennis creativo, il mio colpo migliore è il back di rovescio, ma ciò che mi rende noto nell’ambiente sono le mie palle corte in risposta. Il mio preferito però è Djokovic. Fra i giocatori di club, di solito come preferenze vanno per la maggiore personaggi come Federer, Bublik e Kyrgios; i tennisti amatoriali li apprezzano perché vorrebbero imitare le cose che fanno loro. Io, al contrario, ho una buona manualità con la racchetta, ma ciò che mi è mancato in carriera è la disciplina, l’inclinazione a migliorarmi passo per passo. E di conseguenza ho grande ammirazione per chi persegue questa “Volontà di Potenza”.

Che Speronello sia divenuto un’istituzione nel mondo dei tornei FITP lo dimostra anche l’aver attirato l’attenzione di uno sponsor, evento inusuale a questi livelli

Qualche tempo fa, al termine di un torneo a Desenzano, durante una serata al pub dopo la finale, ho incontrato la titolare di un frantoio sul lago di Garda, appassionata di tennis. Da lì è sorta una collaborazione: mi sostengono non solo economicamente ma anche con qualche consiglio sulla dieta, e ne ho beneficiato. Non devo più preoccuparmi delle mie riserve di olio per molti anni adesso. Io dal mio canto gli ho introdotto Alessandro Giannessi, e si sta formando un piccolo team”.

Parte V – Questione di palle

A luglio di quest’anno “Spero” ha fatto un’eccezione ed è tornato a giocare, grazie a una wild card, un match in ambiente Challenger, alle qualificazioni di Verona. Ha perso in tre set dal giovane promettente Vincent Ruggeri. Un’altra “occasione persa”, come le sei volte in cui ha vinto le pre-qualificazioni per il Masters di Roma senza mai riuscire ad accedere al tabellone principale.

Il mio problema quando torno a giocare match in ambiente ITF e ATP non è tanto il livello, grossomodo ho ancora il tennis per fare buona figura. Ma nei tornei cui mi sono dedicato, si gioca un intero match con lo stesso tubo di palline. Quattro palle per tutta la partita. Non sono più abituato alle palle nuove ogni nove game. Sono un giocatore da palle consumate, il cambio palle è aristocrazia, divisione di classe”.

Osservando le cose da un punto di vista dei risultati, è un peccato che un giocatore con le sue potenzialità non abbia mai vinto neanche un titolo ITF. Ma parlando con Marco si ha l’impressione che oggi sia davvero, tennisticamente, nel posto dove vuole stare. Non ci sono rimpianti per quello che poteva essere, ma apprezzamento per la realtà del quotidiano.

A volte mi chiedono perché non mi sia impegnato di più nell’altra strada, quella del professionismo, dato che gioco così bene per il livello in cui mi cimento. Io penso di giocare bene proprio perché ho scelto questa strada. Ho una visione artistica del tennis, e ora posso investigarla a cuor leggero. Negli anni in cui le cose andavano male spendevo anche 40mila euro a stagione, andavo in perdita ed era divenuto un ulteriore peso a livello psicologico”.

Oggi con i tornei Open, guadagno tra i mille e i duemila euro quando vinco, cui vanno tolte le tasse e le spese. Qualificarsi a uno Slam finanziariamente equivale ad oltre un anno di vittorie Open, ma ciò che conta per me è anche avere un ritorno qualitativo del mio tempo: poter giocare vicino a casa, ad esempio. Fin da quando ero ragazzo andare in giro l’ho sempre sentito come un peso”.

Non sono un grande appassionato di tennis. Ancora oggi è il mio lavoro, e lo seguo abbastanza, ma c’è altro nella vita e non lo vedo come la mia occupazione a lungo termine. Per me il tennis deve essere divertimento non solo in campo ma anche fuori. Oggi scelgo i tornei secondo alcuni criteri: la vicinanza da casa, il rapporto con gli organizzatori, ma anche il rinfresco: ho una mia classifica personale di tornei con il miglior servizio catering, e giocarli è una motivazione extra”.

Parte VI – Fallire meglio

Se si dovesse definire la mia carriera, allora è stata onestamente un fallimento: l’obiettivo da ragazzo era entrare in top100 (mentre ha un best ranking da 1028, ndr). Ma anche nel fallimento si può trovare uno stile. Guardandomi indietro, ho fatto tutto ciò che mi piace entro i limiti. Mi sono scostato dal concetto che io debba essere una cosa sola con i risultati che ottengo. Non ho un collegamento identitario con le mie doti: il mio lato espressivo è la cosa che conta di più. Se il circuito maggiore è Eric Clapton, i tornei Open sono gli 883: entrambi possono piacere ed avere i propri pregi”.

Nel 2006 David Foster Wallace, folgorato dal tennis paradisiaco del Maestro svizzero (quello non tatuato), scrisse uno dei suoi saggi più celebri: “Roger Federer come esperienza religiosa”. Marco Speronello non è Roger Federer, ma insegnamenti importanti possono arrivare anche osservando le storie di chi “non ce l’ha fatta”. O meglio, ce l’ha fatta diversamente, apprendendo che la vita è anche zeppa di occasioni perse. Magari la gioia di sapere che a fine torneo ci sarà uno dei migliori rinfreschi del panorama tennistico veneto non è paragonabile a quella di sollevare un trofeo dello Slam. Però è pur sempre gioia.

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