I figli falliti dei genitori campioni

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I figli falliti dei genitori campioni

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TENNIS – Un ricordo di un match vinto qualche tempo fa stimola una riflessione sul rapporto tra genitori e figli nello sport: quanto controproducenti possono essere le aspettative di un padre troppo pressante nei riguardi del figlio? Di Nicola Nerozzi

 

È una sera d’estate di un caldo Agosto.  Il caldo è al limite della sopportazione e la club house assomiglia più ad una fornace che ad un rifugio fresco di montagna. Arrivo al parcheggio e si affianca a me una bella machina grigia; esco dall’auto, prendo il mio pesante borsone e dalla macchina accanto vedo uscire diverse persone, un cagnolino e un signore che prende dal bagagliaio posteriore un frigo.

Il tabellone del torneo è affollato di gente e dopo le pratiche d’iscrizione, io e il mio avversario ci presentiamo. Entriamo in campo e riconosco che, quel gruppo di persone visto prima, ci segue: mamma, nonna, cagnolino e papà con il frigo, il quale mi accenna due parole: “Veniamo da lontano, abbiamo fatto più di 200 Km”. Gli rispondo: “Complimenti…”.

Le mie fantasie cominciano a volare pindaricamente e, mentre palleggio, si concretizzano in pensieri reali: “Qui se faccio due game è tanto! Mamma che dritto fluido e pesante Alto com’è, avrà un servizio pesantissimo”.

Risultato finale: 61 60 per me, in meno di un’ora.

Questo è un racconto che non ha niente di speciale, se non per il fatto che il ricordo rimane come una traccia indelebile. Le immagini tornano sul quel frigo, sul volto del padre, sul cagnolino ma non ricordo, stranamente, il ragazzo. Non ricordo più nulla di lui. Perché? Semplicemente lui non c’era, non era lì con me.

Ogni punto perso o vinto che fosse, necessitava dello sguardo di chi era fuori dal campo. Il suo sguardo combatteva una partita fuori dal campo con altri 3 paia occhi. Io per lui non esistevo. I miei colpi non gli facevano male, tanto quanto la condizione giudicante fuori dal campo. Dentro la mia metà di campo, c’eravamo tutti: il sottoscritto, mamma, nonna e papà. Lui giocava con 4 persone… la sua battaglia era impari.

A fine partita ci stringiamo le mani, non gli dico niente se non: “Grazie”.

Debbo ringraziare quel ragazzo che, a distanza di tempo, mi ha fatto riflettere non tanto sul ruolo dei genitori, quanto sulla proiezione di questi sui figli. Mancare nel riconoscere che, quello che sarebbe affascinante per i genitori, non lo è per i figli può essere controproducente come pericoloso. La fascinazione rispetto al futuro campione è diversa dalla fantasia, che esiste e non fa male a nessuno.

E mettere in pratica ciò che ci affascina è servirsi di una bacchetta magica che solo i bambini piccoli, ma molto piccoli, credono di avere. Comunque i genitori non si preoccupino più di tanto, il no arriverà presto, quando il ragazzo abbandonerà il tennis. Probabilmente lo riscoprirà in tarda età, giocando liberamente senza che quel frigo gli congeli mente, corpo e anima… e si divertirà nuovamente come un bambino. Il no servirà più ai genitori che ai figli… ma questa è un altra storia.

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