Per John McEnroe "la Grande Sfida" è non mollare mai

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Per John McEnroe “la Grande Sfida” è non mollare mai

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TENNIS INTERVISTE – Vincenzo Martucci ha intervistato per Sportweek, il settimanale de “La Gazzetta dello Sport”, John McEnroe, che sarà il 17 ottobre a Genova ed il 18 a Milano in occasione della Grande Sfida insieme ad altri tre grandi campioni del passato: Ivan Lendl, Michael Chang e Goran Ivanisevic

John McEnroe si è ritirato dal professionismo nel 1992. In un mondo che vive di numeri e record, è stato campione Slam e in cima alla classifica mondiale, ma non può sbandierare statistiche imbattibili. Eppure tutt’oggi, a 55 anni, è sempre il numero uno del tennis. Come simbolo del suo sport e dei sogni che ha generato, come telecronista e anche come protagonista del Champions Atp Tour, il circuito dei campioni di ieri che si ripropongono in formissima. Adesso anche in Italia. il 17 ottobre a Genova e il 18 a Milano per la terza edizione della Grande Sfida.

John McEnroe a Milano ha vinto quattro edizioni del torneo, dal ’79 aII’81 e poi nell’85. Che cosa si aspetta?
«Milano era un grande evento del tennis pro, e anche un teatro importante per le esibizioni. Ricordo che nel ’79 ero felice di giocarci: la gente era appassionata, mostrava tanto le emozioni, era simile a me, la sentivo vicinissima e mi trasmetteva molta energia. Speriamo che sia rimasta un po’ di quell’energia dopo tanti anni».

Che cosa ricorda di quelle sfide?
«Certamente quando ho battuto Borg, ricordo che quel torneo apriva la stagione indoor e dava il via un po’ a tutto il tennis dell’anno. Poi il calendario è cambiato, è un po’ triste che non sia più come prima, il gioco si è indirizzato verso un’altra programmazione e altri investimenti, si è spostato nel Middle-east, in Asia. È un peccato, perché vediamo com’è difficile giocare in condizioni particolari».

Nell’85, al primo turno incrociò Boris Becker, e furono scintille.
«Ricordo la sua potenza, ma anche quel primo impatto con lui, divertente. Faceva un po’ il pazzo, mostrava con evidenza le emozioni, gridava, sembravo un po’ io, ma stavolta era lui, un altro, un ragazzo di 17 anni. E così alla fine lo presi da parte e gli dissi: “Ehi, prima di poterti permettere atteggiamenti del genere, cerca di vincere qualcosa”. Quattro mesi dopo vinceva il Queen’s e Wimbledon… A Milano mi aveva dato un avviso, mi aveva fatto capire com’era possibile che uno di 17 anni giocasse come uno di 25: le cose nel tennis stavano cambiando, con le racchette, col servizio, con gente come Curren e poi Sampras. Quella fu una vera svolta, mi toglievano le mie armi all’improvviso, mi spazzavano via dal campo, e non potevo far più niente, col mio tennis di tocco e di timing».

Da telecronista ha visto un altro Borg-McEnroe: quel Nadal-Federer di Wimbledon 2008 fu pazzesco.
«Sì, tennis incredibile e non solo quello, con le interruzioni per la pioggia, il clima della finale, Federer che aveva sempre vinto, Rafa che aveva sempre perso, tutto quell’equilibrio, quei su e giù. Anche in cabina ci siamo schierati ora con l’uno ora con l’altro. E mi ha portato indietro, c’erano tante cose in comune con me e Borg, tanti significati per un solo match, tanta soddisfazione per assistere a un’altra partita indimenticabile».

Il tennis ha avuto storiche rivalità al vertice, lei ne ha vissute tre: con Borg, Connors e Lendl.
«L’unico col quale ho avuto una relazione, e mi trovavo bene dentro e fuori dal campo, era Borg, anche se eravamo come il titolo di quel documentario, II fuoco e il ghiaccio; Connors era un combattente. eravamo come due palle in continua collisione, oggi non andremo a cena insieme ma fra di noi c’è molto rispetto; Lendl era l’Ivan Drago del cinema, ed io ero il buono. O almeno per me lui era il cattivo».

Ora che accade fra McEnroe e Lendl?
«Non passiamo di certo il tempo insieme, ma porto rispetto per quelli come lui che mi hanno fatto diventare migliore come tennista e anche come persona, quelli che mi hanno forzato a cambiare, e io loro. Oggi, guardando indietro, possiamo anche farci una risata, pur rimanendo diversi. Ancora, in campo, succede qualcosa fra di noi, ancora non vogliamo assolutamente perdere l’uno contro l’altro, ma non è folle come prima».

A Milano c’è una formula di biglietto: “Come eravamo, un papa porta i suoi bambini al tennis”. Prima era meglio?
«Tutti e due i tennis sono belli, anche se diversi. E portano nuovi dubbi sul giocatore più forte di tutti i tempi: Federer, Sampras, Rafa o Rod Laver? Laver ha chiuso due volte lo Slam ed era il mio idolo di bambino, era mancino come me, lo adoravo, volevo essere lui. Ma era piccolino e non so se avrebbe potuto reggere il confronto fisico con Sampras a Wimbledon o con Rafa sulla terra.. E poi il talento di Federer, le capacità atletiche di Djokovic… Ora i tennisti sono più veloci, potenti e resistenti, noi giocavamo con le racchette di legno, impossibile dire come ci comporteremmo. Di certo, il nostro è stato un gran momento, se avessi avuto questa tecnologia sarei stato molto più forte, ma non mi sarei divertito tanto; avrei più soldi, ma io ho fatto parte della storia, e ci sembrava che quei soldi fossero incredibili, anche se la proporzione era uno a 10 rispetto a oggi. Per me da metà Anni 70 a metà Anni 80 è stato il momento migliore del tennis».

McEnroe ha vinto pochi Slam in proporzione al suo talento?
«La gente è concentrata solo sugli Slam. io invece ho pensato molto ad altro, alla coppa Davis, per esempio, perché volevo giocare per il mio Paese: nel ’79, a San Francisco, ho giocato la finale contro l’Italia e ho saltato l’Australia. Lì, per i primi 6-7 anni, non ci sono andato, perché ho pensato che sarebbe stato troppo difficile fare anche la Davis, altrimenti me ne sarei avvantaggiato nella corsa ai Majors. Preferisco pensare così: è vero, mi sono mangiato dei match e ho rinunciato a degli Slam, ma se, a 18 anni, mi avessero detto “ne vincerai 7”, ci avrei messo la firma».

Di quale risultato va più fiero?
«Beh, a 21 anni dissi di no a un milione di dollari per giocare in Sud Africa ai tempi dell’apartheid, anni dopo ho conosciuto Mandela e gli ho regalato la racchetta di legno dei miei Wimbledon. Vado fiero del fatto che ho cercato di fare tutto: singolo, doppio, giocare per il mio Paese, fare più grande il mio sport. Qualche volta ho sbagliato, ma ci ho sempre messo molta passione e intensità; per rendere più accessibile il tennis avrei potuto fare meglio. È ancora troppo costoso, ma resta un grande sport».

John McEnroe come definirebbe John McEnroe?
«Un insieme di tante cose, senso dell’umorismo, intensità, intelligenza, passione. Sono uno che cerca di far star bene anche le persone accanto a sé. Qualcuno pensa che sono egoista, io direi di no. E, comunque, mi sembra che il package in generale sia buono».

Vincenzo Martucci, Sportweek

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