Djokovic è il re, dopo Melbourne pensa allo Slam (Clerici). Murray, Fognini e i black-out del tennis (Martucci). Tanto fisico e poca fantasia. Tennis, la dittatura di Djokovic (Semeraro). Troppo Djokovic per Murray: il re è ancora lui (Nizegorodcev).

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Djokovic è il re, dopo Melbourne pensa allo Slam (Clerici). Murray, Fognini e i black-out del tennis (Martucci). Tanto fisico e poca fantasia. Tennis, la dittatura di Djokovic (Semeraro). Troppo Djokovic per Murray: il re è ancora lui (Nizegorodcev).

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Djokovic è il re, dopo Melbourne pensa allo Slam (Gianni Clerici, La Repubblica).

Novak Djokovic ha vinto l’Australian Open, confermandosi il primo del mondo, davanti al finalista Andy Murray, e agli altri sconfitti del torneo, troppo vecchio Federer, convalescente Nadal, ancor verdi i newcomers. Novak ha battuto 6-0 al 4 set Andy Murray, in 3 ore e 39 minuti e, nell’ammirarlo in tv, mi sono chiesto come mai, anche nella semifinale, avesse finito per battere un altro dei primi, Stan Wawrinka, per 6-0 al 5°. Mi sono risposto, con l’abituale insicurezza, che dopo le tre ore di un gioco ormai simile a un videogame per esseri umani, finisce col prevalere il miglior atleta, non sempre il miglior esecutore gestuale, anche se Nole non è certo inferiore al suo avversario della finale, mentre non è certo superiore al Wawrinka delle due ore iniziali. Nel corso della mie esplorazioni televisive mi è accaduto, vecchio spettatore di teatro, di soffermarmi sui primi piani dei due tennisti. Il viso di Murray era spesso simile ad un individuo sofferente, direi torturato dalla realtà, un viso drammatico che un regista dello Old Vic avrebbe vivamente criticato per overacting, che si potrebbe tradurre come “eccesso di recitazione”. Per contro, le espressioni di Nole mostravano spesso comprensibile e sorridente soddisfazione per i colpi ben riusciti, delusione per qualche colpevole errore, ma anche viva oggettività per quanto stava accadendo. Fossi stato regista, tra i due attori avrei assunto Djokovic. Non ritengo che sia più possibile una autentica cronaca giornalistica, in tempi di super inondazione informatica. Accenno soltanto ad una mini sintesi, per chi abbia trascorso la prima parte della giornata domenicale altrimenti che alla tv. Da un vantaggio per Djoko di 4-1, Murray è risorto 4-3, ribrekkato per i1 5-3, di nuovo risalito seguendo le battute a 4-5, mentre Nole scivolava con l’ultima falange del pollice destro sul fondo in cemento, e aveva la peggio. Come sempre ammirabile nelle piccole sfortune, il serbo avrebbe egualmente ghermito il tie-break per 7 punti a 5. Nel secondo set, partiva con un parziale negativo di 2 punti a 8, ma si ritrovava in vantaggio per 4 games a 2, con un altro efficace parziale di 16 a 4. Mi è difficile alludere a mutamenti tattici, in un gioco simile ad un protratto videogame, cosi come, senza un aspetto diverso da una mutata regolarità, un ottimo Murray riusciva addirittura una rimonta a 5-4, per approdare infine al tie-break e aggiudicarselo dopo palleggi infiniti, tra i quali conteggiavo due scambi di 27 tiri. Per simili due set si erano rese necessarie due ore e mezzo, e mi domandavo se il tennis non fosse ormai diventato simile a una super maratona, che in fondo si limita a 42 km. Nel 3 set, spesso determinante in una partita simile a un assedio medievale, Nole si sarebbe staccato da 3 pari con un parziale di 13 a 5, senza che una trovata tattica – se non qualche smorzata – giungesse a illuminare simile esibizione di mirevoli rimbalzi. Ed eccoci dunque all’ultimo giro dello stadio, ultimati 41 km, con un Djoko che sembrava appena partito e un Murray che già era stecchito. Felice esecutore, come da sempre mi ritrovo, dei vecchi schemi Tommasi, ormai imitati all over the world, non facevo altro che annotare lo scarto di 25 punti in favore del maratoneta sorridente, contro i 13 del povero Murray. Che non sembra aver trovato nella mamma Mauresmo la sostituta del padre putativo Ivan Lendl. Così erano dunque trascorse 3 ore e 39 di ammirata noia e, nella mia antica incompetenza, mi domando cosa mai potrà impedire a Djokovic un Grande Slam, dopo quelli di Budge e Laver, oggi presente alla vicenda. Una giornata storta nei primi turni? Un istante di ritrovata gioventù di Federer? La guarigione e il ritorno in salute di Nadal? Un’improvvisa follia di un nuovo fenomeno? Mi pongo simili ipotesi irrazionali, mentre non riesco a individuare nessuna possibilità di superare Djokovic, per un contemporaneo, in un tennis simile a quello dell’Australian Open.

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Murray, Fognini e i black-out del tennis (Vincenzo Martucci, Gazzetta dello Sport)

Giocare meglio i punti importanti, non darsi mai per vinto, far giocare all’avversario una palla di più, non battersi da solo. Possibile che Andy Murray non conosca le armi distintive dei campioni e si sorprenda dello sprint di Djokovic nella finale degli Australian Open? Possibile che nonostante l’esperienza che lo ha portato a giocare la sua ottava finale Slam (forse questa volta quasi da favorito), possa accusare un tale black-out che gli ha permesso di aggiudicarsi un solo game su tredici? Che cosa diremmo nella stessa circostanza di Fabio Fognini, uno dei giocatori più simili ad Andy nelle fiammate, ma anche nelle reazioni da frustrazione? Certo quelle dell’azzurro sono anche più appariscenti, ma i «vaffa» perenni sulle labbra dell’eroe britannico sono più eclatanti. Non dovrebbe succedere, ma succede. Perché nel tennis è un attimo, in match così equilibrati è forse ancora meno: basta un gesto dell’avversario (quel lamentarsi ora per la bua al pollice ora alla caviglia, quello scuotere la testa verso coach Becker), basta un pensiero negativo, e tutto si sfalda, la concentrazione sfugge, i nervi saltano, i difettucci s’ingigantiscono (il dritto, la seconda di servizio, l’attendismo). E addio. Fognini direbbe “ci metti la faccia”, perché sei solo, non hai una squadra intorno a te. E scompari. Come Murray ieri. Del resto non è un caso se Wawrinka (il campione uscente) e Murray concludono le loro equilibratissime battaglie con Djokovic rimediando un clamoroso ed umiliante 6-0 nell’ultimo set. Sanno bene che Novak dà il meglio proprio quando ha le spalle al muro, l’hanno già sperimentato tutti e due sulla propria pelle, proprio in Australia, eppure non riescono a trovare energie nervose extra per sciogliere l’ultimo nodo. Il più difficile, nel tennis. Da Fognini in su.

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Tanto fisico e poca fantasia. Tennis, la dittatura di Djokovic (Stefano Semeraro, La Stampa)

Parafrasando Gary Lineker – che lo diceva del calcio e della Germania – il tennis è uno sport che si gioca in due e nel quale alla fine vince Novak Djokovic. Della finale di ieri ci rimane l’immagine di un gioco che ha sempre più corpo ma sempre meno anima. L’era di Federer (e di Nadal) si avvia al tramonto e forse iniziamo davvero a comprendere ciò che ha rappresentato: un sogno, una succulenza, un carnevale incantato la cui musica si spegne in lontananza. Il numero 1 del mondo ha vinto il suo quinto Australian Open, stroncando per la terza volta in finale Andy Murray in quattro set (7-6 6-7 6-3 6-0). E l’ottavo Slam per Nole (“Il primo che vinco da marito e padre”, ha aggiunto con orgoglio un po’ commosso), che raggiunge così Jimmy Connors, Ivan Lendl e Ken Rosewall. Tolte le statistiche, difficilmente ci ricorderemo di un match fatto di qualche lampo e di troppi errori. Vissuto sulle collaudate astuzie di Nole e sulle croniche ingenuità di Andy, che – dopo aver abboccato alle smorfie e alle (finte? esagerate?) zoppie del rivale – in conferenza stampa si è tafazzato a dovere: “Spero che Nole non abbia simulato l’infortunio alla caviglia. Comunque in futuro dovrò imparare a concentrarmi solo su quello che accade dalla mia parte della rete”. Già quello sarebbe un buon inizio. Fra quarto e quinto set, indispettito da se stesso, Andy è letteralmente uscito dal campo, perdendo dodici game su tredici. Un po’ come capitava a quella splendida sciupona di Amelie Mauresmo, che oggi gli fa da coach. Murray e Djokovic giocano un tennis simile, più feroce quello di Nole, più pensato quello di Andy. Il problema è che partite così a lungo andare rischiano di annoiare. I corpi dei tennisti sono sempre più allenati ed efficienti. Ricchi di fibre, ma poveri di fantasia. Anche perché inventare, giocando sempre a 300 chilometri all’ora, non è facile per nessuno. Mangiassero qualche dessert in più, come Stan Wawrinka, che ha un filo di panzetta ma anche un rovescio da sollucchero, forse ci divertiremmo un po’ di più tutti. Contano i muscoli, invece. I nervi. Quelli d’acciaio di Djokovic e quelli che vengono – sempre più spesso – agli spettatori.

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Troppo Djokovic per Murray: il re è ancora lui (Alessandro Nizegorodcev, Il Tempo)

Djokovic cala il pokerissimo. Il serbo ha superato Andy Murray 7-6 6-7 6-3 6-0 conquistando il quinto Australian Open della sua carriera. Il match, non particolarmente esaltante sul piano tecnico, è stato in equilibrio per tre set prima dell’allungo decisivo di Djokovic. “È stata una grande battaglia – ha dichiarato Djokovic – con scambi prolungati e temi tattici sempre diversi. I primi due set sono stati davvero duri, poi io sono riuscito ad essere più aggressivo, ho colpito meglio la palla, ho giocato con più attenzione i punti importanti. Ma devo dare merito a Andy di aver disputato una partita straordinaria, almeno per tre set”. A fine match è giunta però la polemica dello scozzese, che ha dichiarato: “Sembrava infortunato, si muoveva male, ma dalla metà del terzo set ha ricominciato a correre e a muoversi in modo impressionante. Non è una tattica che può essere legittimata”. La risposta del campione non si è fatta attendere: “Non voglio fare polemica, non voglio dire cose brutte su una partita del genere. All’improvviso mi sono sentito debole, eravamo in campo da più di due ore e mezza ma non potevo chiamare il timeout perché era semplicemente un problema di stanchezza. È durato 15-20 minuti, poi sono stato decisamente meglio”. La superiorità del serbo nel corso del torneo è stata evidente, così come netto è oggi il divario in classifica con gli inseguitori. Nole, grazie al successo a Melbourne, ha raggiunto Agassi, Connors, Lendl, Perry e Rosewall all’ottavo posto della classifica all-time con 8 Major in carriera. L’impressione è che non abbia alcuna intenzione di fermarsi. Prossima fermata: Roland Garros.

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