John McEnroe, Peter Pan con la racchetta

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John McEnroe, Peter Pan con la racchetta

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Continua la nostra piccola biblioteca sul tennis. Oggi l’autobiografia di McEnroe. Un viaggio psichico dentro la testa di un genio del gioco con una lingua troppo lunga

J. McEnroe – J. Kaplan Non puoi dire sul serio, Edizioni Piemme Milano, 2012 
(Titolo originale: You cannot be serious, Putnam Pub Group, First Printing giugno 2002)

Come l’eroe di J.M. Barrie che si rifiuta di crescere, SuperMac ha avuto in dono dalla racchetta la possibilità di spostare in là i confini dell’adolescenza e anche lui è stato il re indiscusso di un’isola felice ma insidiosa, il circuito professionistico del tennis degli anni ’80. Ma quanto è stato duro arrivare in vetta? Quanto lo è stato discenderne e rientrare nel mondo reale? E’ questo il taglio scelto per l’autobiografia scritta a due con James Kaplan, grande penna della scena intellettuale di New York.  Racchette, palline e avversari rimangono logicamente il tessuto connettivo del libro, ma spesso fanno da sfondo alla più vasta e complessa narrazione di una vita.

Accade così che compriamo il libro per leggere della leggendaria finale di Wimbledon 1980 oppure della spigolosa rivalità con Connors e Lendl e ci troviamo invece incollati alle pagine in cui un giovanotto con le lentiggini piange di rabbia ad ogni sconfitta e sorridiamo quando un padre quarantenne si alza presto e prepara la colazione per sei figli che la divorano senza dire neanche grazie. Verremo coinvolti da un adolescente fragile e ruvido, americano ma nato in Germania, né alto né basso, né brutto né bello che trova la sua strada su un campo da tennis perché sente la palla “come con la mano” e sa già dove andrà a rimbalzare. E sa già anche dove arriverà lui. A quattordici anni dice al padre “Senti papà, non parlarmi di classifiche, mi farò le ossa e arriverò in cima al momento giusto”.

E così sarà.

Nel 1977 sbarca in Europa appena maggiorenne per giocare il Roland Garros e Wimbledon. A Parigi esce in singolo ma vince il misto, a Londra si iscrive alle qualificazioni del torneo principale, le passa e arriva in semifinale dove solo Connors, il grande Connors, lo ferma, in quattro set lottati. Nessuno mai ci era riuscito.

Ed è la rivelazione: mancino, uno stile di gioco unico, la racchetta impugnata a zampa di coniglio, le aperture corte, il naso sempre sulla rete ma, soprattutto il tocco di palla, la capacità di sentirla attraverso il budello delle corde, “il segno infallibile della Reincarnazione” come è stato scritto (G. Clerici, 500 anni di tennis, ediz. 2004 Mondadori).

Da qui in poi ci troveremo inconsciamente a parteggiare per tutti quei poveri Capitan Uncino contro i quali McEnroe ha maramaldeggiato nei suoi anni d’oro, fossero essi avversari irrisi da un tennis geniale che solo lui poteva pensare oppure giudici di campo e semplici spettatori umiliati da una lingua fuori controllo.

Saliamo sulle montagne russe dei suoi quindici anni di professionismo. Le finali a Wimbledon contro Borg e lo Studio 54 di New York , Andy Warhol e la sua stretta di mano moscia, la irreale stagione 1984, ottantadue vinte e tre perse, ma anche le feste a Los Angeles con la prima moglie Tatum O’Neal e Jack Nicholson ubriaco che lo apostrofa “non cambiare mai, Johnny Mac”. La vita di un antipatico intelligente, con momenti di sensibilità inaspettata, quasi inconscia. Nel 1980 gli offrono un milione di dollari per giocare un’esibizione con Borg nel Sudafrica dell’apartheid e il ventunenne Mac rifiuta d’istinto. Questo gli varrà tanti anni dopo la gratitudine di Nelson Mandela.

Nel lungo e conflittuale percorso di maturazione di un ego supersonico, “che faticava a passare dalle porte”, dobbiamo riconoscere alla narrazione un’onestà intellettuale e una sincerità ai limiti dell’autolesionismo. John non mente e non cerca assoluzioni dai comportamenti discutibili che hanno costellato la sua carriera almeno quanto il tocco di Mida che mostrava sul campo. Numerosi eventi narrati possono essere resi pubblici solo da chi ha il coraggio, o l’incoscienza, il dubbio permane, delle proprie debolezze.

John rivive per noi e con noi il modo quasi geometrico col quale le emozioni si affastellavano una sull’altra nella sua testa fino a tracimare incontrollate e incontrollabili, sul campo come nella vita privata. Con un grande rimpianto: quello di non aver mai avuto la capacità di scherzare o divertirsi sul campo perché ha sempre avuto troppa paura di perdere.

E’ un libro a cuore aperto, istinto e passione sovrastano la razionalità, così come accadeva qualche decennio fa sull’erba di Wimbledon o sul cemento degli US Open.

Non troverete molto tennis per come ve lo aspettate. Avrete piuttosto un flusso impressionista, mille incontri importanti scomposti in singoli momenti, visti come non li avete mai visti perché filtrati dalla mente e dalle emozioni di un genio presuntuoso. Ma sempre un genio. Del resto non avrebbe potuto essere altrimenti perché “E’ stato il fuoco che mi brucia dentro a portarmi in cima e anche se lo prendo a pallate da tutta una vita, dentro di me quel fuoco brucia ancora”.

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Raffaello Esposito

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