In America fanno notare – argomento pro parità dei montepremi nel tennis – che il calcio femminile è più seguito di quella maschile, ma anche che le calciatrici non guadagnano di più. Chi ha preso la palla al balzo, giocando d’anticipo, è stato il n.1 del mondo e… del parlar chiaro a costo di scandalizzare i benpensanti. Novak Djokovic guadagna ormai talmente tanto che non credo sostenga quel che sostiene (“Noi uomini dovremmo guadagnare più delle donne”) perché pensa a se stesso o perché è esageratamente avido e venale. Semplicemente la pensa così e lo dice. Va detto che a frequentare i tornei e a parlare con i tennisti, e non solo con Gilles Simon o i più estroversi, ho potuto constatare che tutti i tennisti la pensano così. Anche quelli che non lo dicono. Anche chiunque lavora per l’ATP. Lo pensano perché il tennis maschile – e lo hanno ammesso anche alcune delle nostre ragazze, Flavia Pennetta in testa – è estremamente più competitivo. È oggettivamente molto più difficile emergere, arrivare fra i primi 100 del mondo. Non ricordo più in questo momento quale giocatrice un anno o due anni fa, perse 4 Slam al primo turno senza fare nemmeno un set, ma pochissimi games (in uno mi pare addirittura un 6-0 6-0) e ciononostante portò a casa più di 100.000 dollari soltanto con quei quattro primi turni tutti durati meno di un’ora.
Ecco, quando accadono cose del genere, in effetti penso anch’io che Djokovic abbia ragione. Così come ha ragione chi ha scritto che non deve essere una questione di discriminazione sessuale retribuire maggiormente un uomo o una donna a seconda della professione che fa: chi merita di più deve essere pagato di più. Se una donna scienziato medico o avvocato (penso a Rita Levi Montalcini, alla Bernardini De Pace, alla Buongiorno) è più brava di un uomo scienziato medico o avvocato, secondo me deve guadagnare di più. Se lo merita. Ma anche viceversa. Aggiungo per prevenire l’obiezione che si debbano salvaguardare i principi più che le leggi di mercato. Non è solo o sempre una questione di mercato, di più biglietti venduti, di durata degli incontri. Andrebbero tenute in conto tante cose, come ad esempio proprio il discorso già accennato della maggior competitività e concorrenza fatto poco sopra. E magari la somma di tanti fattori congiunti. Diceva il celebre giurista Calamandrei – reminiscenze di antichi studi – che “non c’è peggior disuguaglianza del trattare in maniera uguale situazioni disuguali”. Voglio accennare un’argomentazione anche pro-pari montepremi (per sottolineare come non sia mai semplice prendere una posizione netta): spesso le tenniste, arrivate sui 30 anni (o anche prima come Kim Clijsters) o poco dopo (come Flavia Pennetta, Li Na, Justine Henin ed altre) si ritirano per diventare mamme, per mettere su famiglia. Gli uomini non hanno questo problema: Roger Federer ha quattro gemelli ma continua a giocare come se nulla fosse. Insomma… una mini-protezione economica per maternità… sarebbe giusto che ci fosse, come in tutti i lavori nei Paesi civili.
Che non si dovrebbe farne sempre soltanto una questione di mercato, come potrebbe sostenere chi dice che il tennis maschile deve guadagnare di più soltanto perché esso “vende” e “tira” di più, lo sottolineo con un’ altra mia idea (forse non condivisibile come pure le altre) e chiaramente in contrasto e contraddizione con la logica di mercato secondo cui “i premi debbano andare a chi fa più cassetta”. Secondo me infatti il tennis dovrebbe distribuire diversamente i propri montepremi anche se i biglietti li fanno vendere i soliti top 10 uomini, le solite top5 o 10 donne che fanno audience anche televisiva. Per me la priorità dovrebbe essere sempre quella di salvare lo sport, i tornei. E se gli appassionati dovessero assistere anziché a tornei di 128, 64, 32 giocatori, a continui quadrangolari fra i 4 tennisti/tenniste più forti del mondo, sono certo che il tennis morirebbe. Le esibizioni sopravvivono perché esistono i tornei che sono una cosa del tutto diversa. Gli organismi preposti, dovrebbero preoccuparsi di salvaguardare al massimo e al meglio la profondità della partecipazione collettiva. La sopravvivenza dei tornei. Per centrare l’obiettivo vanno aiutati i giovani che si avvicinano a questo sport, che competono all’età di 12 anni per migliorarsi e affermarsi. Ma se li costringiamo ad esagerare con sacrifici alienanti, la battaglia è persa. Non si devono allontanare tutti quei giovani che, pur talentuosi, non possono permettersi di andare avanti a lungo, per cinque, dieci, quindici anni, quanti cioè ce ne vogliono per affermarsi al punto da potersi mantenere. Se stessi, gli allenatori, chi sta loro attorno… perché oggi sui campi da tennis, sport individuale, scendono in realtà veri team, equipe.
Allora anche se sono i Federer, i Nadal, i Djokovic, le Serena Williams e Maria Sharapova, a “trainare” il Barnum del tennis, ITF, WTA e ATP, dovrebbero far di tutto per ridimensionare i premi spettanti ai top-player (che potranno sempre arrotondare in mille modi proficui le loro entrate, fra sponsor ed esibizioni) e favorire invece i guadagni di coloro che, dal trecentesimo posto in su, costituiscono la linfa di questo sport, il percorso attraverso il quale anche i campioni del futuro dovranno passare venendone agevolati. E questa non è una questione di sesso, di disparità, di discriminazioni, e neppure di mercato: ma di buon senso. Quello che a Ray Moore è mancato, perché certe cose non si possono dire se si hanno certe responsabilità. Ma che Djokovic, se le pensa come le pensa la maggior parte dei tennisti, invece fa benissimo a dire anche se qualche altro campione sarebbe stato più attento (più ipocrita? O soltanto più politically correct?) a non farsi sfuggire.
