La solitudine dei tennisti: quando a Federer, Djokovic e Nadal non bastano i trofei

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La solitudine dei tennisti: quando a Federer, Djokovic e Nadal non bastano i trofei

Circondati da migliaia di tifosi, forti di un team consolidato come Federer e Djokovic. Oppure in viaggio senza accompagnatori, in tornei lontani da casa e senza una spalla su cui poggiarsi. Le vittorie e i trofei potranno mai sostituire il calore di uno sguardo amico?

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Si è da soli, e questo è l’aspetto positivo: non ci saranno compagni di squadra che in una giornata storta potranno condizionare l’esito della partita, non ci saranno beghe di spogliatoio o dissidi con i pari ruolo per decidere la tattica o giocarsi il posto in campo. Si è da soli, e ci si può affidare solo a se stessi: una racchetta in frantumi sarà come uno sfogo a muso duro, le imprecazioni verso il proprio box saranno litigi con il proprio allenatore. Ma alla fine della giornata, si potrà andare a dormire pensando che da soli si è vinto, senza aver avuto bisogno di nessun altro.

Si è da soli, e questo è l’aspetto negativo: non ci sarà nessuno a spendere una parola di conforto dopo un errore, nessuno che possa bilanciare una propria prestazione negativa per ottenere comunque un buon risultato. Non ci saranno pacche sulle spalle, sguardi d’intesa, abbracci celebrativi. Si è da soli e ci si può affidare solo a se stessi: le lacrime saranno coperte da asciugamani e non troveranno soluzione in un “non preoccuparti”, né qualsiasi errore potrà essere frutto di scelte altrui. E alla fine della giornata, si potrebbe andare a dormire pensando che da soli si è perso, perché c’era bisogno di qualcun altro.

Certo, c’è chi si crea un team di ferro che diventa una famiglia, o che una famiglia lo è davvero. Roger Federer ha costruito una squadra storica, forte anche dell’apporto manageriale che gli fornisce la moglie Mirka. L’ambiente è lo stesso da anni: l’agente Tony Godsick (con cui ha fondato nel 2013 la Team8, società di sports management), Severin Luthi come allenatore (??) e confidente, e il preparatore Pierre Paganini.  Novak Djokovic ha fatto lo stesso con il magnifico duo Vajda-Artaldi, tra i quali fa spesso capolino la bellissima bocconiana Jelena.
Per non parlare di Rafa Nadal, stretto tra le ali protettive dello zio Toni e dell’intero nucleo che lo segue durante gli incontri più importanti, con padre, sorella e fidanzata di sempre, Francisca. Anche Murray avrà cambiato allenatori e mentori, ma resta sempre sotto lo sguardo accorto di mamma Judy.
Si tratta però del top, di macchine perfette, realtà che andrebbero evidentemente in pezzi per il minimo granello di polvere tra i loro ingranaggi. E sopratutto di atleti che possono permettersi un entourage, ora a prescindere dal fatto che ci vogliano esultare dopo una vittoria, o disperarsi dopo una batosta. Un tennista che non sia nel gotha, già qualcuno fuori dai primo 70, che la squadra non può permettersela, con chi discuterà durante i mille voli della stagione? A chi chiederà conforto se farà fatica a vincere un turno, a chi si rivolgerà quando incapperà in un momento no? E se è vero che una gioia, per essere tale, va condivisa, con chi griderà in esultanza dopo un magnifico punto, o una vittoria sofferta? Quando si verificherà quel nastro assassino che simboleggia un destino, secondo Woody Allen, o quando Hawk-Eye rovescerà le sorti di uno scambio fondamentale, a chi ci si potrà rivolgere? E al contrario, chi sarà la prima persona da abbracciare quando si realizzerà di aver inciso il proprio nome nell’albo d’oro di uno Slam, o al momento del ritiro?

Durante la settimana delle Finals di Londra, lo scorso novembre, Technifibre omaggiò Denis Kudla (attuale numero 57 ATP) per i suoi progressi sia in campo che sui social. Il premio era un assegno da 50.000 dollari: durante la conferenza stampa, Kudla ringraziò dicendo “spero che questo denaro possa aiutarmi ad avere meno pensieri, magari riuscire ad avere un coach a tempo pieno ed un fisioterapista”. Vuol dire che centinaia di giocatori viaggiano per i paradossali quattro angoli del globo senza neanche un allenatore, una voce amica. E per lo più in tornei Challenger o ancora minori, dove la realtà è ben distante da lusso e dalla hospitality dei grandi eventi del tour maggiore. Neanche un viso conosciuto verso cui girarsi per gridare c’mon, a migliaia di chilometri da casa.

E quanto solo si sente in realtà un tennista, anche quando è circondato da migliaia di spettatori? Quando a fine campionato Gonzalo Higuain si è avvitato in una rovesciata da figurine Panini, per siglare il 4-0 con cui il Napoli ha travolto il Frosinone, l’aria che si respirava al San Paolo era sensibilmente anormale. Il pallone colpito dal Pipita non ha soltanto gonfiato la rete sotto la leggendaria Curva B, ma ha centrato e mandato in pezzi un record che resisteva addirittura da sessantasei anni: nessuno aveva infatti mai segnato 36 reti in una sola stagione di serie A (il primato era di Gunnar Nordhal, 35 nel 1950). Nell’atmosfera da tregenda creata da un fortunale primaverile, definita “biblica” da Daniele Adani di SKY (forse il talent più preparato della piattaforma di Murdoch, e per quanto Francesca Schiavone abbia regalato emozioni inimmaginabili con la racchetta, con il microfono c’è ancora tanta strada da fare), Higuain ha riscritto la storia.

Ma non è tanto il dato numerico in sé ad aver lasciato straniti gli appassionati, specialmente se non napoletani, ancor di più se troppo giovani per poter ricordare l’era di Maradona. Quello che emoziona, che resta sotto la pelle, che dal mattino dopo con il proprio odore pervade ogni vicolo partenopeo, dai Quartieri Spagnoli a Posillipo, è la passione viscerale, che trascina, che affanna, che a volte avvilisce, con cui il popolo napoletano ha seguito l’intera cavalcata della squadra e di Higuain stesso. Ogni domenica è stata vissuta come un’Odissea di novanta minuti, ogni gol subito è stato un doloroso pizzico sulla guancia, ogni rete realizzata un bacio ricevuto dalla donna dei propri sogni. La storia è stata riscritta da un singolo, ma la città che attraverso la squadra spesso vede l’unico spiraglio di rivalsa sociale, l’urlo di Fuorigrotta a scandire il cognome di chi segna, le note di “Un giorno all’improvviso” dopo ogni fischio finale, hanno aggiunto quel tocco di epicità al risultato già di suo da annali. Il contorno, l’empatia e la passione di chi ha seguito le gesta di Higuain, hanno quasi aumentato il peso specifico del record, lo hanno sottolineato. E a sua volta, il record ha alimentato la partecipazione di chi ogni settimana sperava in un altro passo verso il primato.

È ovvio che la diatriba “sport singolo-sport di squadra” trascini come corollario anche magari quella della fede e del tifo, che nel secondo è molto più accentuata in quanto ogni compagine rappresenta città o gruppi ben definiti. Ma un tennista, che per definizione gioca una disciplina in cui raramente il pubblico è un fattore determinante, vivrà mai l’emozione di essere valvola di sfogo, punto di riferimento, per milioni di persone? Tutti quei “ringrazio gli spettatori, siete fantastici” alla fine di ogni torneo, smetteranno mai di sembrare solo frasi fatte? Così i record del Djokovic piglia-tutto sembrano quasi passare inosservati, il trionfo di Murray a Roma non così eccezionale, e l’eventuale rientro al top di Nadal una formalità. La partecipazione, la condivisione, rende un risultato ancor più grande di quanto non sia, e chissà che gli eroi della racchetta non si sentano a volte non così invincibili, proprio perché soli. Fieri, orgogliosi dei propri traguardi, ma con un briciolo di vuoto che soltanto il calore di qualcuno che goda del tuo bene può riempire. Perché un conto è lo stadio pieno che freme per vedere il proprio idolo tennistico, un altro sono le tribune che grondano passione, sempre e comunque. I tennisti, insomma, sanno cosa vuol dire soffrire e far soffrire i propri tifosi, quelli veri?

Nessuno è così bisognoso da dover sempre dipendere da qualcun altro, né così forte da farcela sempre da solo.

 

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