È ricominciato l'infinito viaggio dei tennisti, chissà se ne varrà davvero la pena

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È ricominciato l’infinito viaggio dei tennisti, chissà se ne varrà davvero la pena

Domenica è ripartito il grande circo del tennis mondiale. Un altro anno in giro per il mondo, un altro anno tra le luci, il denaro, che solo il tennis può regalare. Ma ai tennisti piace davvero questa vita?

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Alla fine siamo di nuovo all’inizio. Via le abbuffate natalizie per noi spettatori, a posto i pesi e i tapis roulant per i tennisti, che avranno anche assaporato una parvenza di vacanza, prima di riprendere la preparazione in vista della nuova annata. Chi ha scelto i dollari qatarioti, chi invece l’introspettiva India, e chi ancora ha preferito ricominciare già in Australia, sulla costa Est, a Brisbane.

Qualcuno, non esattamente un atleta, invece si ritrovava a Firenze, in occasione dell’Ubiday, fermo a piazza della Signoria. C’era un’ora da far passare prima del treno che riportasse a Partenope, e la pioggia non permetteva altro che rifugiarsi con le spalle vicine alle stufe da esterno che riempivano il gazebo di un elegante bar con tavolini in legno. Di fronte, le statue in marmo o bronzo della Loggia dei Lanzi, tra le quali risalta la copia del David di Michelangelo, il cui originale è custodito nella Galleria dell’Accademia; stupendo anche il Perseo del Cellini. Finito il cappuccino c’era una bellissima passeggiata da fare, prima per raggiungere il maestoso Duomo, poi percorrendo via Cerretani (che diventa via de’ Panzani) fino alla stazione; Italo, e si rientra.

Ecco, ad un tennista che riprende racchetta e borsone per arrivare sul luogo del primo torneo dell’anno, sia esso Challenger o maggiore, passa per la testa tutto questo? Ci si gode l’aria di un luogo mai visitato prima, o il comfort dell’albergo che ti ospita da anni? Chi vi scrive ha avuto la fortuna di poter seguire l’ultimo torneo di Amburgo per Ubitennis, quello in cui Fognini accusava zio Toni di rompere los huevos in finale. Due giorni prima, Andreas Seppi aveva preso una discreta legnata forse dal miglior Nadal della stagione, ma si era comunque concesso per l’intervista; appena uscito dall’Area Giocatori, con un sorrisone inaspettato e un po’ inebetito (forse ancora per le bordate che Rafa gli aveva rifilato con un ritrovato dritto a rientrare), le sue prime parole sono state: “Facciamo rapidi per favore, ho il volo per Kitzbuhel a breve”. E il porto di Amburgo non lo vedi? E le kartoffel, i bockwurst?

L’anno può tranquillamente iniziare con una sconfitta inopinata (leggasi Ferrer a Doha solo ieri) o addirittura un matchpoint sprecato (sempre Doha, Ramos Vinolas-Mathieu). E di nuovo tuta e aereo, verso un nuovo albergo che proporrà ogni tipo di servizio (se puoi permettertelo, chiaramente), ma chissà se poi i due spagnoli ci faranno caso. I nostri idoli avranno il passaporto rigonfio di timbri e francobolli delle dogane, ma avranno mai davvero goduto del piacere del viaggio, dell’esperienza, della novità? Lo avranno mai preso l’hot dog a un dollaro a New York all’angolo di qualsiasi block, o pensano solo a come mettere i piedi per un recupero in allungo? Si saranno mai fermati in una tea room su Brompton Road a Londra, alle cinque del pomeriggio? O l’unica preoccupazione è pianificare il serve&volley sull’erba?

Decine di paesi diversi ogni anno. Sorrideranno, i tennisti, quando il jet-lag li costringe a guardare qualche replica di sit-com alle cinque del mattino? Riusciranno mai a godersi anche il ritardo di un aereo, che li obbliga a guardarsi intorno per comprendere l’umanità che li (e ci) circonda? L’aeroporto di Dubai, come tutti sanno, è forse lo snodo più importante per le tratte intercontinentali tra Europa e Asia; il McDonald’s dell’aeroporto è gremito di gente a qualsiasi ora (letteralmente qualsiasi ora. Alle otto del mattino i Big Mac con patatine grandi fioccano). Avranno mai provato, i tennisti, il piacere di essere in mezzo a migliaia di persone con altrettante storie diverse, seduti al tavolino di un fast food? O è sempre e soltanto una questione di corde, impugnatura, traiettorie?

I guadagni se si arriva al top sono quanto mai gratificanti per tutti i sacrifici fatti in carriera, ma davvero si è disposti a scambiare il sapore della vita vissuta con quello dei titoli di giornali e trofei? Per noi spettatori vale senz’altro la pena, ma per loro? Adam Darke è un giornalista e produttore televisivo che ha messo sul mercato un documentario da lui prodotto: “Cornered”, che seguiva la vita di Johnny Greaves. Chi? Greaves è un pugile che, resosi conto di non poter diventare campione del mondo o simili, ha accettato di fare il journeyman; viene quindi invitato a prendere parte a regolari incontri di boxe, contro atleti ben più giovani o quotati di lui. Incassa colpi e denaro, sostenta così la sua famiglia. Sempre in viaggio, appena tre vittorie in più di cento incontri da professionista. Ne vale la pena? Greaves risponde di sì, sempre, perché la passione non si discute mai, si asseconda quando possibile, la si soffre. E allora sarà così anche per i journeymen del circuito tennistico: saranno anche loro contenti di doversi sobbarcare decolli e atterraggi continui, di sperare in un exploit isolato che possa permettere loro di dire “ce l’ho fatta”. Di rifarsi il borsone ogni settimana, di giocare molto e vincere poco. Di essere soddisfatti di condividere il centrale di Flushing Meadows con Nadal o Djokovic, e a chi importa se il risultato sarà una batosta.

Ci sarà sempre un fast food in qualche aeroporto, per sedersi e pensare a quanto ne valga la pena. No?

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