Paolo Lorenzi, il gladiatore buono alla conquista di Rio, si racconta ad Ubitennis

Interviste

Paolo Lorenzi, il gladiatore buono alla conquista di Rio, si racconta ad Ubitennis

Paolo Lorenzi non finisce più di stupire. A 34 anni suonati e piazzato al meritato best ranking si prepara con entusiasmo a vivere l’ennesimo capitolo – quello olimpico – di una lunga carriera. Lo abbiamo intervistato e ci ha parlato di sé, dei suoi obiettivi futuri e di un mondo del tennis in continua evoluzione

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Se sei nato nel 1981 e, con bravura ed abnegazione, del tennis ne hai fatta una fortunata professione non sarà poi così inusuale che qualche appassionato possa decidere di scomodare l’ingombrante paragone con quel perfettino là dalle tue stesse 34 primavere sul groppone che, scevro dal concetto meccanico di fatica, da ormai tre lustri dispensa frustate liquide con la grazia di un étoile della Scala. Se in più, sempre a differenza del fenomeno di Basilea, la tua cifra stilistica è una generosa mescolanza di fisicità, polmoni e gambe e al fioretto preferisci senza batter ciglio sguainare una più rude scimitarra, ecco che la situazione si complica oltremisura, con il proliferare incontrollato di scetticismi e luoghi fin troppo comuni. Anche da parte di chi, per istituzione o per dovere, dovrebbe prendere decisamente le tue parti. “Sono in molti che non credevano potessi diventare il quarantanovesimo giocatore più forte al mondo”, la chiosa per nulla polemica strappata tra un sorriso e l’altro al nostro Paolo Lorenzi, affabile protagonista di una appassionata chiacchierata con noi di Ubitennis.

Già. Ai luoghi comuni questo dottore (per ora) mancato deve proprio averci fatto il callo. Lui che nel corso di un’estenuante carriera, spesa sbuffando come una locomotiva a vapore sui campi da gioco dei cinque continenti, ne avrà sentite davvero di tutti i colori. Quello ha più talento, quell’altro ha un tennis migliore del tuo, quell’altro ancora appassiona di più la gente. Voci di sottofondo raccolte ai margini di quei playground, possibilmente intrisi dell’amato mattone tritato, da sempre polverosi habitat naturali per un gladiatore dalle fluttuanti appendici in carbonio e le gestualità volutamente prive di fronzoli. Vivi e lascia vivere – sarebbe proprio il caso di dire in certi casi – tanto che Paolo, noncurante di ciò, un pezzettino alla volta si è costruito il castello tutto da solo. Gioco, morale, classifica, risultati, soddisfazioni. In uno spot permanente, celebrativo della formica che, zitta zitta, spodesta a calci nel sedere la cicala.

Affidabile come un motore diesel di fabbricazione teutonica, al punto da fornire di sé ogni qualvolta la miglior versione possibile, il brutto anatroccolo, dall’arzigogolata spazzolata di diritto a cui siamo tanto affezionati, stagione dopo stagione si è finalmente fatto cigno. Un cigno operaio, sui generis, con tutte le credenziali al posto giusto per finire di corsa in paradiso. E non fa niente se alla fascetta parasudore un po’ snob che ingentilisce la fronte del più vincente di sempre lui preferisca esibire un verace cappellino da baseball. Portato alla rovescia, per giunta. Perché Paolo, anzi Paolino, è realmente fatto così. Spontaneo, genuino. Con le braghe colorate dal cavallo abbondante e l’immancabile polsino tricolore a testimoniare l’attaccamento ad una nazione tennistica colpevolmente avara di elogi. A noi, questo senese d’adozione dalla loquacità facile e la simpatia contagiosa, piace proprio per questo. Giacché, che si vinca o si perda, un pensiero sincero Paolo non lo nega mai a nessuno, con l’inscalfibile serenità di chi sa bene di aver fatto fino in fondo il proprio dovere.

Lorenzi, tanto per suscitare un minimo di interesse anche nella distratta cerchia dell’Italia pallonara, è uno che sta ai Fab Four di questa florida epoca tennistica come l’insostituibile Angiolino Colombo – per chi lo ricorda, il tuttofare del centrocampo al soldo del buon Arrigo – stava al grande Milan degli olandesi. Il tennis, vivaddio, non è unicamente carezze e amenità, almeno quanto il calcio non si nutre di sole rovesciate e pennellate a foglia morta. Questione di sostanza. Roba alla Lorenzi, appunto.

Corri e tira, Paolo. Non smettere proprio adesso, non ancora. Perché non si diventa il quarantanovesimo giocatore al mondo se non si è speciali. Nel braccio che impugna la racchetta o nel cuore che pulsa forte per ogni quindici da conquistare. Nel colpire con vigore una pallina che schizza impazzita o nella strenue rincorsa pancia a terra a difesa del fortino. Sempre con la medesima incantevole dedizione. A Monte Carlo, nello sfarzo per nulla accomodante del Country Club, o nell’anonimato di Bucaramanga, lontano dall’opulenza e pure ignorato dalle cartine geografiche.

A metà di queso 2016 olimpico è tempo di tirare qualche somma. Di ritorno dalla sfortunata campagna di Parigi – che, per una volta, non val bene una messa – e subito impegnato nel Challenger di Caltanissetta, Paolino in un raro momento di quiete si è dunque concesso in una lunga intervista. Quella che potete leggere nel seguito è il risultato della nostra conversazione. Si parla di tennis, ovviamente, ma non solo.

Ciao Paolo, innanzitutto grazie per la disponibilità. 34 anni, n.3 d’Italia e attuale posizione n.57 del ranking ATP. Complimenti. Che obiettivi ti sei fissato prima di appendere la racchetta al chiodo?
Ancora mi mancano tante cose perché sai, alla fine tanti degli obiettivi che in passato volevo raggiungere li sto conseguendo proprio adesso. Insomma, le cose da fare sono tante. La prima però è quella di migliorare il mio best ranking, ci sono andato vicino altre volte ma non ci sono riuscito. Spero di farlo già nei prossimi mesi.

In questo primo scorcio di 2016 per te subito la vittoria a Canberra e la finale di Bucaramanga nel circuito Challenger. In ATP, invece, grandi risultati a Quito e Buenos Aires prima di un comprensibile calo complice anche qualche sorteggio non molto fortunato. A questo punto della stagione ti ritieni comunque soddisfatto o hai qualche rammarico? Magari legato alle sconfitte di Roma e Parigi?
Sinceramente a Roma e a Parigi speravo di fare meglio così come a inizio stagione non pensavo di fare così bene. A Parigi mi è dispiaciuto per la prestazione ma se mi avessero detto che sarei arrivato dopo il Roland Garros da numero 57 del mondo ci avrei messo la firma. Ora è normale che dopo un inizio di stagione in quel modo si cerchi sempre di fare meglio. Purtroppo ho avuto qualche problemino fisico e poi con l’allergia non mi sono mai riuscito ad esprimere al meglio. Il mio leggero calo è quindi abbastanza normale, mi capita praticamente tutti gli anni. A Parigi sapevo di aver preso un buonissimo giocatore (Carlos Berlocq, ndr) ma tre set a zero non era certo quello che mi aspettavo da quella partita. Giornate storte così però ci stanno. Comunque ci torno l’anno prossimo, bisogna sempre provarci.

Sempre a proposito di questa stagione, il 2016 è anno olimpico. Quanto sarebbe importante per te prendervi parte? Scusa se lo stavo dando per scontato, ci andrai a Rio?
Sicuramente sì, se sono dentro ci vado perché è uno dei miei obiettivi stagionali. Qualcosa che in carriera ancora mi manca. A Londra quattro anni fa ci ero già andato vicino ma purtroppo ero appena fuori con il ranking quindi, insomma, se questa volta entro di diritto è senza dubbio una delle priorità stagionali. Più che i grandi protagonisti in sé sarà per me davvero interessante conoscere un po’ l’ambiente olimpico, vedere ciò che succederà. Il nostro portabandiera? Ci sono tanti atleti che se lo meriterebbero, è quasi impossibile sceglierne uno. Per fortuna non è una decisione che spetta a me (ride).

Nel corso di una lunga carriera hai incrociato le racchette dei più grandi campioni della tua epoca. Chi è a tuo parere il giocatore più forte o comunque quello che ti ha impressionato di più?
Senza dubbio Djokovic. Perché è quello che ha meno punti deboli degli altri. Dove ha ancora bisogno di migliorare un po’, se si può dire, è forse il gioco al volo ma quando va a rete il punto per lui è già quasi fatto. Il Grande Slam? Sì certo, ce la può benissimo fare. Ora bisogna vedere come reggerà la pressione e innanzitutto se riesce a portare a casa Wimbledon. Abbiamo visto cosa è successo a Serena (Williams, ndr) lo scorso anno a New York…

Qual è la differenza principale tra un grande giocatore come puoi essere considerato tu ed il numero uno al mondo?
Intanto il numero uno vince sempre ed il numero cinquanta no (ride). Madrid e Roma hanno però dimostrato che se non è al meglio anche Djokovic è un giocatore battibile. Al top, invece, l’intensità che ci mette ed il livello di gioco che è in grado di raggiungere fanno sì che oggi sia quasi di un altro pianeta. Se gioca così non perde mai.

Veniamo in casa nostra. Non è un momento particolarmente favorevole per il tennis italiano e i risultati di Parigi – lo Slam sulla carta a noi più favorevole – lo confermano. Dopo anni di vacche grasse siamo giunti al momento di un delicato cambio generazionale. Qual è il tuo punto di vista? La Federazione ci ha messo del suo o è solo un momento sfortunato?
Non credo che sia tutto così negativo. I nostri giovani sono buoni. Abbiamo per esempio Cecchinato che è entrato nei primi 100 a 22-23 anni. Poi c’è il gruppo di Napolitano, Donati e Quinzi e tanta altra gente giovane come Sonego, Eremin e Caruso. Tutti possono giocare bene. La situazione non la vedo così grigia come la si vuol descrivere. Diciamo che per una volta le donne hanno qualche problemino più di noi uomini. Ma è anche vero che negli anni precedenti loro hanno vinto tutto quello che c’era da vincere e ovviamente metterei la firma affinché gli uomini possano in futuro fare come loro.

Leggevo da qualche parte dei tuoi trascorsi in medicina. A fine carriera ti vedi più dottore o allenatore?
Ho dato solo sette esami in Università, sono piuttosto indietro. Non so ancora se quando smetterò di giocare a tennis avrò intenzione di continuare o che altro. In questo momento però mi vedo più facilmente nei panni di un allenatore. In futuro si vedrà.

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