Rimonta Raonic, il bombardiere sgambetta il Re. "Grazie McEnroe". Federer si rialza subito, "Mi rivedrete ancora qui (Crivelli). Federer spreca e regala Raonic al killer Murray (Marcotti). Raonic, in finale c'è un po' d'Italia (Azzolini). Federer si inchina alla gioventù e ai missili di Raonic (Piccardi). Serena, due tedesche per un solo match (Crivelli)

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Rimonta Raonic, il bombardiere sgambetta il Re. “Grazie McEnroe”. Federer si rialza subito, “Mi rivedrete ancora qui (Crivelli). Federer spreca e regala Raonic al killer Murray (Marcotti). Raonic, in finale c’è un po’ d’Italia (Azzolini). Federer si inchina alla gioventù e ai missili di Raonic (Piccardi). Serena, due tedesche per un solo match (Crivelli)

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Rimonta Raonic, il bombardiere sgambetta il Re. “Grazie McEnroe” (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Lo scherzo del Bambino. Un sogno interrotto, la finale più attesa che rimane sospesa a mezz’aria senza mai mettere radici sul Centrale perché Baby Face Raonic si inventa finalmente il pomeriggio perfetto, il capolavoro erbivoro che stronca l’erbivoro più grande di sempre, Sua Maestà Federer. A Church Road forse finisce una favola, quella del Divino, ma probabilmente ne nasce un’altra, anche se il lieto fine dei 15.000 che si sono spellati le mani per una semifinale a tratti non bella ma sicuramente appassionante prevedeva un epilogo tra l’enfant du pays Murray e Roger, un incrocio che avrebbe infiammato i prati più celebri del tennis e i cuori di tutto il mondo. Eppure la storia si diverte a riscrivere pagine dal sapore antico: la sfida tra Muzza e Milos è anche quella tra Lendl e McEnroe, non più da fenomeni con la racchetta in mano bensì da coach ascoltati e vincenti. QUANTA STRADA Intanto, non c’era mai stato fin qui un finalista Slam nato negli anni 90, e Raonic colma finalmente una lacuna che appariva imbarazzante per la tanto strombazzata Next Generation. Non è mai troppo tardi, e riuscirci contro un’icona dà ancora più gusto. Milos, il ragazzino nato a Podgorica e arrivato in Canada a tre anni che non poteva permettersi di pagare i campi e così si allenava alle sei del mattino, il golosone di hamburger che adesso conosce le qualità di ogni alimento che gli finisce nel piatto, il tennista gentile con la passione per l’arte contemporanea e Andy Wharol, ne ha fatta di strada da quella semifinale di due anni fa in cui prese tre volte 6-4 da Roger senza mai impensierirlo. Non è più solo servizio, nonostante le saette a 231 km orari, record per il torneo, ma anche maggior tenuta da fondo, soprattutto con il dritto, o ancora il rovescio slice, oppure la voleé, marchio di fabbrica appreso da The Genius. Soprattutto, è finalmente carattere, espresso in due battaglie vinte in rimonta dopo cinque set (questa e gli ottavi con Goffin, addirittura da 0-2) quando mai ne aveva giocati in carriera a Wimbledon. E sublimato nel momento in cui, di fronte a un Federer pronto a stringergli le mani attorno al collo nel quarto set, gli annulla tre break point con due prime e un dritto vincente e poi sfrutta il regalo del break che vale il parziale nel dodicesimo gioco (Fed era sopra 40-0) per esibirsi in un quinto set muscolare e dominato. DIFIFICOLTA’ Insomma, il Bambino è cresciuto: «E’ vero, nel quarto set Federer ha avuto più occasioni, ma io verso la fine ho cominciato a rispondere meglio, sono stato più aggressivo, magari sbagliavo ma solo perché cercavo io di comandare lo scambio. Quando giochi contro Roger, devi uscire subito dall’idea che stai affrontando un mito e concentrarti sul fatto che la sfida è al tennista di oggi, non a quello del passato. Due anni fa, di fronte alle difficoltà, non fui in grado di trovare soluzioni, adesso conosco la via». Una risposta tecnica a chi si era sorpreso di vederlo allenato da tre coach: «Piatti è l’uomo che mi ha formato, mi ha dato le basi; Moya è il motivatore, quello che dopo la delusione di Parigi mi ha restituito convinzione; McEnroe ha cambiato il mio approccio, mi ha spiegato come liberare le energie in campo, come tirare fuori la rabbia». E poco importa che Big Mac, più che dall’angolo, possa vederlo solo dal monitor su cui commenta le partite per la Bbc: «Ma non è un problema, l’importante è l’influenza positiva che mi trasmette quando mi parla». John, dopo il successo dell’allievo, è estasiato: «La partita più intensa che abbia mai fatto, nel quarto set ha trovato un’extra motivazione e sul 4-4 ha giocato la voleé di dritto più bella di tutto il torneo. Milos è un ragazzo intelligente, usa il campo come un geometra». PRECEDENTE Contro Murray avrà contro una nazione intera, ma sei hai attraversato il deserto contro Federer non temi più nulla. Muzza, dal canto suo si sbarazza di Berdych in tre set senza storia, raggiunge la finale per la terza volta (11 negli Slam) ed è pronto alla battaglia: «E’ sempre emozionante, soprattutto perché si diventa vecchi e le occasioni diminuiscono. lo ho imparato molto dalle sconfitte, sono pronto a vincere». Si ripete la finale del Queen’s, e non accadeva dal 1988 con Edberg e Becker. Ma la storia, adesso, è di Andy e del Bambino

 

Federer si rialza subito, “Mi rivedrete ancora qui” (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

La caduta degli dei. Federer finisce con la faccia sull’erba, e non solo metaforicamente. Quando Raonic si procura una delicata e preziosissima palla break nel quarto game del quinto set, Roger scivola sull’erba del Centrale, che gli è sempre stata amica, per allungarsi invano a contrastare il passante di dritto del canadese. Un tonfo pesante, ma certo non più grave e clamoroso di quello che si consumerà di lì a qualche minuto, con una sconfitta maturata proprio quando il re sembrava tornato al comando. Il Divino non aveva mai perso in semifinale a Wimbledon nelle 10 occasioni precedenti, la prima volta è amara, triste e porta con sé l’ombra del dubbio: «Dopo quella caduta, non sono stato più lo stesso. Non dico che se fossi stato fresco come una margherita sarei riuscito a recuperare il break, lui ha continuato a servire a più di 200 all’ora, però adesso non conosco se l’infortunio (si è fatto massaggiare il ginocchio sinistro, ndr) richiederà un giorno di riposo, tre o qualcuno di più. Quando mi alzerò dal letto, capirò. E in ogni caso le mie occasioni le ho perse prima». INSPIEGABILE Una verità indiscussa, seppur dolorosa. Se con Cilic aveva rovesciato di carattere, voglia e agonismo una partita già persa, contro Milos accade il contrario, in una sorta di nemesi che si trasforma quasi in un film degli orrori (un break subito da 30-0, uno addirittura da 40-0, le tre palle break non sfruttate nel quarto set), all’apparenza senza motivazioni: «E’ stata dura perdere un quarto set in cui ero stato indubbiamente il miglior giocatore in campo, ma qualcosa non ha funzionato. Quando ho perso il servizio sul 6-5, ho commesso due doppi falli e ancora non posso crederci, è qualcosa di inspiegabile. Sono molto triste e molto arrabbiato, alla fine lui ha meritato il successo, ma sono stato io a tenerlo in vita». Così, per la quarta volta consecutiva in uno Slam, il Divino perde un match immediatamente dopo averne vinto uno in cinque set, aprendo una volta di più il dibattito se alla soglia dei 35 anni, con una stagione martoriata da un’operazione al ginocchio e da una schiena scricchiolante, il suo fisico eroico possa ancora reggere lo stress del tennis moderno. Una questione, tuttavia, che Roger non considera: «Non la metterei in questi termini, ho giocato 10 set in due giorni e quando sono arrivato qui, prima del torneo, sinceramente non me lo sarei aspettato, per come mi sentivo. Dunque il mio corpo mi ha dato risposte importanti, per i prossimi mesi e per il resto della carriera». FUTURO La declinazione al futuro tranquillizza, anche se il sogno dell’ottavo Wimbledon, per staccare Sampras e Renshaw, e del 18 Slam, viene ancora rimandato, forse a mai e proprio sui prati dove sembrava meno ostico inseguirlo: «Ogni volta che metto piede in campo qui, è ovvio che nella mia testa c’è la speranza di vincerlo. Ma Wimbledon non è l’unica ragione per cui gioco a tennis, altrimenti adesso tornerei a casa, mi farei mettere nel congelatore e tornerei l’anno prossimo. Viaggio per il mondo e disputo 60 partite all’anno anche per altro, ci sono tante cose che vorrei ottenere oltre ad un’altra vittoria ai Championship. Ora conta che ero arrivato con molte incertezze e riparto più convinto, nonostante quella scivolata. State certi che mi rivederete ancora sul Centrale». E a sentirlo promettere, è il mondo che sospira sollevato

 

Federer spreca e regala Raonic al killer Murray (Gabriele Marcotti, Il Corriere dello Sport)

In campo, a contendersi il trofeo, scenderanno i loro allievi. Ma la sfida nella sfida, per la gioia di telecamere e paparazzi, sarà sugli spalti. Meglio nei box dei due sfidanti. Perché sulla finale dei Championships, che domani vedrà opposti Andy Murray e Milos Raonic, aleggia una rivalità che risale addirittura agli anni ’80. Quella tra Ivan Lendl e John McEnroe, più nemici che avversari, e oggi coach dei due finalisti. Una prima volta per Milos Raonic, che non era mai riuscito ad arrivare ad una finale Slam. In cinque set il canadese favorito n.6 ha sconfitto Roger Federer, che mai aveva perso una semifinale delle undici giocate sull’erba londinese. OCCASIONE MANCATA. Dopo i cinque set contro Marin Cilic nei quarti di finale, ieri la quinta frazione gli è stata fatale. Un match che ha lasciato più di un rimpianto al campione svizzero. «Adesso voglio solo dimenticare», le sue prime parole dopo il match. Aveva l’incontro in pugno, se l’è lasciato scappare via. Cruciali i due sciagurati doppi falli consecutivi nel dodicesimo game della quarta frazione: avanti 40-0, lo svizzero cede il servizio, consentendo a Raonic di trascinare il match al quinto set. Al cambio di campo Federer si fa massaggiare un po’ le gambe dal fisioterapista, e quando nel quarto game, nel tentativo di intercettare un passante del canadese, cade pesantemente sul ginocchio sinistro (quello operato al menisco lo scorso febbraio), l’epilogo pare scritto. Federer smarrisce il servizio, e il match «Non so cosa mi sono fatto, e non lo voglio sapere. Sento qualcosa ma nulla toglie ai meriti di Milos. Resta la delusone perché non avrei dovuto perderlo il quarto set. Non so davvero cosa mi sia successo», l’incredulità di Federer. Che si specchia con la soddisfazione di Raonic, che cercava una vittoria come questa per lanciare la sua candidatura come stella del futuro. «Nel terzo e quarto set lui stava giocando veramente bene, ma ho visto un piccolo spiraglio e mi ci sono infilato – il commento di Raonic, il primo canadese a raggiungere una finale Slam maschile (tra le donne ci era riuscita Eugenie Bouchard due anni fa) -. Mi sono dato la possibilità di vincere un grande torneo: ora mi ci vorrà un pisolino per smaltire questa grande emozione». Un ringraziamento speciale va a McEnroe, suo coach da poche settimane. «Mi ha detto: Vai, vivi la partita, sii positivo’. Oggi mi ha aiutato tantissimo come del resto anche Carlos Moya. Adesso cercherò di calmarmi, di vivere bene il momento e concentrarmi sull’obiettivo». GO MURRAY. Per conquistare il primo Slam di carriera dovrà battere l’idolo di casa, lo scozzese Murray, numero due del seeding, che in meno di due ore ha liquidato il ceco Tomas Berdych, meritandosi la terza finale a Wimbledon, l’11° in uno Slam. «Sono ovviamente molto contento – le parole dello scozzese -. Arrivare in finale a Wimbledon è già un’impresa e più si invecchia più aumentano le incertezze. Ma aumenta anche l’esperienza, determinante per gestire certe fasi del match». Sono nove i precedenti tra i due, con Murray – in netto vantaggio (6-3) – che si è aggiudicato gli ultimi cinque match, compresa la finale del Queen’s di giugno «Al Queens è stato un incontro molto equilibrato e difficile – l’analisi di Murray -. Ero sotto di un set e di un break nel secondo. Milos sta giocando il suo miglior tennis sull’erba. So che dovrò disputare una grande partita per vincere». Nessun cambiamento però in vista dell’epilogo: «Seguirò la solita routine che ho avuto per tutto il torneo. Cercherò di allenarmi un po’, ma soprattutto di riposare. Mi auguro domenica di riuscire a dare il massimo». Una speranza ovviamente condivisa dal suo avversario: «Aver battuto Federer qui a Wimbledon mi trasmette ancor più fiducia, l’augurio è di ripetermi contro Andy e ottenere un risultato migliore del Queen’s».

 

Raonic, in finale c’è un po’ d’Italia (Daniele Azzolini, Tuttosport)

«Sono un esperto d’arte moderna». Bambolo Raonic si presenta così, e dato che è un ragazzo di spirito rifinisce la frase con una battuta: «Per questo ho preso con me McEnroe». Capello alla Ken e una fidanzata che è molto ma molto meglio della Barbie (Danielle Hudson, oggi modella, domani attrice), Bambolo agguanta la prima finale Slam della carriera dopo aver costruito intorno alle sue ancora ridotte certezze una sorta di università, con tanti professori quante sono le materie che dovranno alla fine confluire nella sospirata laurea. Piatti per l’impostazione generale, Moya per la terra rossa, McEnroe per l’erba, Dalibor Simla per la preparazione fisica, Zimaglia per la parte fisioterapica, gli ingegneri Dusan e Vesna, mamma e papà, con giovani Jelena e Momir, i fratelli, per gli afferri familiari. Tutti assieme, un gruppone di animosi celebranti del venticinquenne di Podgorica trasferitosi da bimbo in Canada. Scuote la testa, Roger Federer. Lo ha fatto dalla fine del quarto set e ha continuato a farlo in conferenza stampa. «Non credo che i coach di un mese possano cambiare un giocatore. Milos ha giocato gli stessi colpi che gli avevo visto fare a Brisbane, in finale». Lo aveva battuto lì, e l’ha battuto anche qui, sull’erba. Ma fra quello – che era il primo torneo della stagione – e questo, sono successe tante cose a Federer che la metà sarebbe bastata. Menisco, influenze varie, schiena a pezzi. E invece sono continuate a succedere, anche durante un match che Roger aveva costruito con grande accortezza, muovendosi su uno schema diverso da quello che gli aveva permesso di sopravvivere a Cilic. Li, nei quarti, aveva prevalso la voglia di resistere. Qui, in semifinale, la scelta è stata quella di raccogliere tutte le occasioni non sfruttate da Raonic e trasformarle in punti sonanti. Una raccolta condotta con grande dedizione, perché di opportunità Il canadese ne ha lasciate giusto una mandata, in un match dominato da pallottole di servizio a 225 chilometri orari. Eppure, Federer vi era riuscito, ed era convinto di avere il match in mano. Lo dice, infatti: «Una sconfitta che fa male, perché stavo dettando i tempi dell’incontro». E invece, sul 6-5 Raonic del quarto set, 40-0 Federer, un indurimento muscolare lo ha mal disposto. Due doppi falli consecutivi, figurarsi, e addio quarto set. E di lì a poco, addio anche al quinto, per una caduta in cui ha messo male il ginocchio operato e che ha finito per allontanare concentrazione e lucidità. Il tributo alla buona sorte avuta con Clic, Roger l’ha pagato tutto in una volta. «Di buono c’è che sono venuto a Wimbledon senza una sola speranza, solo per giocare. E sono arrivato quasi in fondo». Finale Murray-Raonic. Come dire, Lendl contro McEnroe. Curioso, gli inglesi non hanno mai tifato Lendl. Lo faranno questa volta McEnroe capirà. Forse.

 

Federer eroe stanco, Raonic si prende la finale con Murray (Gianni Clerici, La Repubblica)

Ieri sera, mentre il Presidente di Wimbledon mi regalava una cravatta del Club, per essere felicemente sopravvissuto a 60 edizioni del torneo, mi è venuto in mente, come in molti mi chiedevano, se Federer potesse ancora vincere. Ritornato al mio tavolo ho dato un’occhiata alle pagine gialle, partendo dal 1968, anno in cui è corretto far iniziare l’attuale storia del tennis, quello professionistico. Guarda e guarda, non ho trovato nessuno che avesse vinto a 35 anni, che Federer compirà in agosto. C’era, sì, il mio amico Ken Rosewall, che in finale era arrivato a 39 anni e mezzo, nel 1970, dopo 11 edizioni non disputate causa le leggi che definirei raziali, con i professionisti fuori dai cancelli. Ci era arrivato, ma non aveva vinto, perdendo contro il Signor John Newcombe, che ancora me lo ricordava, dirigendosi verso la cabina televisiva. Durante quelle tipiche chiacchiere da bar con whiskey e birra mi ero detto come non sia facile sfuggire alla storia, ma come certi fenomeni, nati forse per la reincarnazione di un genio, forse per caso in paesino svizzero sconosciuto, potessero sfuggire a un destino comune a noi uomini qualunque. L’inizio della partita era stato però tale da mettere in dubbio la banalità delle mie convinzioni. Il match, che in molti avevano scambiato per una vicenda tra il personaggio di un battitore di due metri e un raffinatissimo ribattitore, stava sfuggendo a simili cliché. Dopo la cura Piatti, Raonic si stava confermando molto diverso da un bestione tutto stupore e ferocia. Batteva, si, una media di due prime su cinque, ma attaccava anche grazie a un diritto molto lungo e a un rovescetto a una mano tagliatissimo e spesso, a sua volta aggredito sulla sinistra, se la cavava con un rovescio bimane molto vicino alla riga. Simile struttura gli avrebbe consentito un break nel quarto game del primo, doppio fallo di Roger adiuvante, e sicuramente un viatico ad un morale, mi dicono, diverso da quello di superuomo, nonostante la sua faccia possa far immaginare il contrario. Federer pareva comunque, se non l’elegantissimo Roger, capace di trasformare l’eleganza in superiorità, piuttosto a suo agio, e l’aiutava certo l’atteggiamento adorante di gran parte del pubblico, peraltro corretto nella sua predilezione. Un secondo set estremamente equilibrato rischiava la fine anticipata per 3 set point offerti da Raonic sul 4-5, ma si risolveva non diversamente al tiebreak, con un 7 a 3 per lo svizzero. Dopo un’ora e venti minuti di partita non si poteva certo affermare che Federer fosse già stanco, ma il suo avversario pareva uscito da un ipotetico warming up. Ad un livello che faceva sì che certi presunti aces venissero rimessi in gioco, Federer continuava a palleggiare con disinvoltura maggiore del suo pur sorprendente avversario, e un momentaneo cedimento di Milos gli offriva il game che l’avrebbe ammesso in vantaggio al quarto set. La partita era tale da rimanere sempre aperta, e un poco di stanchezza iniziava a rendere meno brillanti le conclusioni del Fenomeno, che tuttavia non tratteneva mai il suo braccio, apparentemente sicure di se stesso. Simile atteggiamento non pareva tuttavia affliggere Raonic, quasi la disinvoltura dell’avversario l’avesse contagiato. Mentre sembrava ovvio immaginare una soluzione con un nuovo tiebreak, un improvviso offuscamento di Federer, che aveva commesso in tutto il torneo soltanto due doppi errori ma cadeva in cinque battute out consecutive, causava un break a Roger, e l’emozione del set decisivo a noi spettatori. Un quarto gioco in cui Federer scivolava, abbottandosi anche il ginocchio sinistro, si sarebbe concluso con uno scambio cinematografico di 12 punti, e con un break che il fenomeno, stanco per quasi tre ore e mezzo di partita, non sarebbe più riuscito a recuperare. Nello scusarmi per questa sorta di telecronaca, ahimè priva di immagini, risparmio agli aficionados una analoga storia dell’altra semifinale, tra Murray e Berdych che mi pare per sempre definito quale primo dei secondi. Bisognerà ora che Raonic non passi 48 ore a pensare alla per lui nuova ed emozionante finale. Riuscisse ad affrontarla come un turno normale di un normale torneo, non sarebbe già battuto.

 

Federer si inchina alla gioventù e ai missili di Raonic (Gaia Piccardi)

Piovono pietre, piccoli meteoriti di feltro giallo che scendono a 231,7 km all’ora (record a Wimbledon) da un’altezza siderale di 195 cm. Sotto il diluvio (23 ace, 83% di punti vinti sulla prima palla), senza ombrello, Roger Federer è un ballerino che corre tra le gocce cercando di non bagnarsi. Missione impossibile, anche per lui. In finale a Wimbledon ci va Milos Raonic, il cucciolo di corazziere cresciuto sotto l ’ala protettiva di un bravo coach italiano, Riccardo Piatti; nato a Podgorica, allevato in Canada, svezzato sull’erba dai consigli di John McEnroe («Dai tutto, lascia uscire le emozioni e scendi a rete ogni volta che puoi»): 100 mila dollari al guru per cinque settimane di lavoro, spesi bene. Il destino di questo torneo, dopo l’incredibile rimonta con Cilic nei quarti, sembrava disposto ad accoccolarsi ai piedi del più grande, facendo le fusa. Solo la violenza di Raonic (non priva di tocco), poteva far deragliare la storia. La verità è che la semifinale interrupta e senza ritmo, salvo rari guizzi, la perde Federer proprio quando ce l’ha in pugno. Avanti due set a uno (3-6, 7-6, 6-4) grazie a certe ingenuità del canadese e alla sua difficoltà nel piegarsi come una giraffa per raccogliere dal prato gli squisiti back di rovescio, nel quarto il maestro non sfrutta tre palle break, orrore, brutalizzato dal servizio del rivale. Sul 6-5 per Raonic, poi, Federer si fa rimontare d a 40-0 con due doppi falli («Inspiegabile» commenterà, amaro), finendo trafitto da un fatale passante di dritto di Milos (7-5) diventato, in questo corso d’aggiornamento rapido nel giardino di Wimbledon, un promettente erbivoro. Potenza e controllo , insomma. Sotto lo sguardo languido di Bjorn Borg, uscito dal letargo, Raonic dimostra mano felice nei rovesci strettissimi, ad angolo acuto, e nelle volée, mentre il vecchio panda spolvera l’argenteria (il serve and volley, gli attacchi in controtempo), che si rivelerà inadeguata per questo videogioco moderno, la terapia d’urto cui domani il canadese cercherà di sottoporre Andy Murray, l’enfant du pays che insegue il bis in casa (Berdych si conferma top-10 inutile e lezioso). È la gioventù, 25 anni contro quasi 35, a scavare il solco nel quinto set; uno scivolone costringe Roger ad assaggiare l’erba e a rialzarsi massaggiandosi il ginocchio («Spero di non essermi infortunato, dopo gli esami ne saprò di più»), il break sul 2-1 chiude le ostilità (6-3) perché Federer ormai è in riserva, stanco, triste e, speriamo, non final. Ci rassicura, cupo ma non torvo: «Ho avuto le mie occasioni, non le ho sfruttate. Sono deluso e arrabbiato, ci sono punti di questa semifinale che vorrei dimenticare però non considero quello contro Raonic il mio ultimo match sul centrale. Da questo Wimbledon esco più forte fisicamente, rassicurato sulla mia salute». È un arrivederci, non è finzione. Ma che speranze potrà avere, contro la nuova generazione dei giganti armati (Raonic, Kyrgios, Zverev), un antenato con uno strepitoso avvenire alle spalle? In finale Murray (6-3 nei precedenti) difenderà se stesso e la memoria di Federer. Con McEnroe che gli grida nelle orecchie, Raonic viaggia leggero, portatore sano di colpi definitivi (ieri 75 vincenti), gioventù, futuro. E ha una fretta del diavolo.

 

Serena, due tedesche per un solo match (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

In barba alle difficoltà. Torben Beltz, l’allenatore della Kerber, non abbandona mai il rito propiziatorio di non radersi fino a quando la sua pupilla perde. A Parigi, ha dovuto affidarsi alle cure del barbiere fin dal primo turno, quando sembrava che Angelique non potesse sopportare la pressione dell’incredibile trionfo in Australia. E invece eccola qui di nuovo, a sottrarre il rasoio al coach almeno fino a questo pomeriggio, e a concedere la rivincita a Serena Williams sul terreno più congeniale alla nemica e, così pareva, meno avvezzo alle sue doti. SENZA PAURA Nella storia, solo sette giocatrici hanno battuto le sorelle Williams nello stesso torneo. E solo le Williams, del resto, hanno vinto Wimbledon dopo essere state eliminate al primo turno a Parigi, come successo alla tedesca di Polonia: Venus nel 2001 (Schett) e Serena nel 2012 (Razzano). Insomma, servirà un’impresa nell’impresa, oltre alla sempiterna ispirazione della Graf, ultima tedesca ad imporsi su questi prati vent’anni fa e sempre nel mirino della Williams minore con i suoi 22 Slam, uno in più di Serena: «Dovrò essere aggressiva, non potrò aspettare i suoi errori — analizza la Kerber — e cercare di imporre il mio gioco. Ma la cosa più importante sarà dormire bene e trovare un buon ristorante per la cena». Certo, la numero uno ha statistiche impressionanti (28 finali Slam, 7 negli ultimi 8, 6 vittorie a Wimbledon) e fin qui è stata assai convincente, migliorando a ogni partita e con un atteggiamento sempre positivo. Soprattutto, ferita dalla sconfitta di Melbourne, saprà sicuramente apprendere da quella lezione e sfoderare gli artigli: «Di quella partita ricordo che Angelique entrò in campo senza paura, negli occhi si intuiva la sua voglia di vincere. Stavolta toccherà a me farle capire che non ho nessuna intenzione di fare un passo indietro». Aprite le gabbie

 

 

 

 

 

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