Racconti dal XX secolo: von Cramm, senza macchia e senza paura - Pagina 2 di 3

Racconti

Racconti dal XX secolo: von Cramm, senza macchia e senza paura

Fu uno dei grandi a non vincere mai la corona sul Centre Court, ma nel 1937 divenne immortale proprio su quel campo. Oltre la semplice conquista di un trofeo, lasciando una ineguagliata testimonianza di sportività, onore, altruismo e coraggio

Pubblicato

il

 

Quell’anno Froitzheim varca i confini della tenuta di Burgdorf insieme al sovrano del tennis, sua maestà William Tatem Tilden II. Big Bill era ormai oltre la vetta, l’età, un ginocchio malconcio e i moschettieri di Francia l’avevano costretto alla resa ma vincerà altri due slam, i campionati USA a Forest Hills nel 1929 e Wimbledon l’anno seguente. “Tilden is tennis”, si diceva, ed era ancora così. Se le parole entusiastiche dell’amico tedesco l’avevano solo incuriosito, lo stile fluido e naturale di Gottfried, “il più elegante che abbia visto in cinquant’anni” secondo il mago Hopman, lo stregò istantaneamente. Quando poi lo sguardo si posò sulla mano destra mutilata in modo così simile alla sua la folgorazione fu completa. Tilden aveva passato la sua intera vita cercando un erede, allevò e allenò moltissimi tennisti con l’illusione, sempre svanita, di trovare il futuro campione del mondo. Il suo caro nemico George Lott irrideva questa velleità sostenendo che l’attenzione di Bill equivaleva per il povero malcapitato al “kiss of death”, un bacio letale in piena fronte. Ma con Gottfried non fu così.

Il re giocò ogni giorno con von Cramm nel corso di quell’estate. Individuò subito nel debole rovescio il suo limite e per certo raccontò come lui stesso avesse risolto il problema nel lungo inverno del 1919. Gli cambiò l’impugnatura in modo che potesse colpire piatto o in top spin, gli insegnò i vantaggi dell’anticipo, i segreti della tattica e lo rincuorava quando il nuovo colpo spariva oltre la recinzione del campo. Ma per tutta l’estate il giovane credette e si allenò senza risparmio. Quando Bill ripartì il barone continuò a far tesoro dei suoi consigli, ora aveva un nuovo stile di gioco e un nuovo amico. E poco dopo una giovane moglie, degna di lui. La prescelta fu la figlia minore dei von Dobeneck, Elizabeth. Fu per lui sempre Lisa, la ragazzetta con le trecce compagna di mille avventure in adolescenza. Lei lo amava da sempre. Il matrimonio venne celebrato il primo settembre 1930 e la coppia si trasferì a Berlino dove Gottfried avrebbe dovuto completare gli studi in giurisprudenza secondo la volontà paterna.

Solo due settimane dopo il popolo tedesco venne chiamato alle urne per l’ennesima volta e l’oscuro Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi ottenne un successo strabiliante. Pochi se ne accorsero ma la fine era iniziata. Il movimento nazista traeva origine e forza nel malcontento generato dall’esito della Grande Guerra. Cavalcando falsi miti come quello dei “traditori di novembre”, che avrebbero firmato la resa quando l’impero germanico era vicino alla vittoria, oppure la teoria del complotto giudaico contro i tedeschi, si era guadagnato un certo seguito fra nostalgici della passata potenza, reduci di guerra e frange sparse della società. Lo guidava un uomo che molti giudicavano innocuo, forse addirittura divertente mentre pronunciava discorsi-fiume intrisi di odio, un buffo ciuffo appiccicato sulla fronte sudata, i baffetti schizzati di bava nella foga, gli occhi febbricitanti di delirio.

Il crollo di Wall Street del 1929 diede una grossa mano a Hitler. La tempesta devastò le deboli economie della vecchia Europa e travolse in pieno la fragile repubblica di Germania, ridando pieni polmoni al grido di malcontento della gente. Improvvisamente i nazisti, che non avevano mai superato il 5%, divennero il secondo partito del paese conquistando 107 seggi con il 18,3% dei suffragi. Del resto la repubblica di Weimar era nata già morta, oppressa da debiti di guerra e umiliazioni che i francesi avevano deliberatamente inflitto ai “sales boches”, le sporche teste di legno, nella Pace di Versailles. Che fu tale solo di nome. Berlino era lo specchio di tutto, l’inflazione del 1923 aveva ridotto il denaro a carta straccia, i risparmi di una vita a malapena sufficienti per comprare un francobollo alle poste. Nel novembre di quell’anno maledetto un dollaro statunitense valeva quattromiladuecento miliardi di marchi. Insieme ai soldi vennero spazzati via anche i vincoli morali e i tedeschi cominciarono a vivere come se non ci fosse un domani al grido di “je m’en fous”, me ne fotto. Come l’orchestra del Titanic, suonavano mentre sotto di loro si spalancava l’abisso. Quando poi la crisi si arrestò e la moneta venne stabilizzata Berlino divenne per una breve stagione la più viva capitale europea, meta privilegiata dell’intellighenzia e del bel mondo. Era la città di Brecht, Paul Klee e Gropius. Ogni sera si poteva scegliere fra un concerto di “Satchmo” Armstrong e una piéce teatrale con Marlene Dietrich. Poi tutti a ballare la “banana dance” di Josephine Baker. Si moltiplicavano i locali che offrivano qualsiasi genere di divertimento, dal più innocuo al più trasgressivo. Ogni serata iniziava con un aperitivo per poi dipanarsi fra cene, feste e notti insonni passate all’elegante Eldorado o nelle bettole come il Cosy Corner.

Di questa sorta di “swinging Berlin” i coniugi von Cramm erano le stelle. Belli come dei, ricchi come Creso, rappresentavano la coppia più invidiata della città ed occupavano spesso le prime pagine dei rotocalchi di moda all’epoca. Ma nel privato la loro non fu un’unione felice, né mai avrebbe potuto esserlo nonostante il sincero affetto che sempre li legò. Gottfried sapeva da tempo di essere omosessuale, e per certo Lisa lo scoprì presto. Fu un matrimonio di facciata, utile a salvare le apparenze e le convenienze sociali del tempo ma lei rimase una fedele amica anche dopo il divorzio sette anni dopo. Nella ristretta cerchia del barone tutti erano a conoscenza della cosa e la giudicavano, com’è naturale, senza importanza. Anche perché Gottfried mantenne sempre totale discrezione sulla sua vita privata. Con un’unica eccezione, che gli costerà carissima. In un mondo ancora arretrato e oscurantista sul tema però, quella Berlino sembrava il posto ideale. La città vantava una lontana tradizione di accoglienza e tolleranza, al punto che l’omosessualità era nota anche come “il vizio tedesco”, e a partire dai ruggenti anni venti, quando l’accompagnarsi a partner dello stesso sesso divenne una moda, tutti potevano vivere liberamente le loro inclinazioni. Fu proprio all’Eldorado che una sera del 1931 Gottfried incrociò lo sguardo di Manasse Herbst, un attore galiziano diciottenne di origine ebrea. Lo sventurato rispose e fu l’inizio di una relazione decennale, costantemente in bilico fra terrore e passione. Ma se Manasse fu forse il solo vero amore della sua vita, per certo sarà la causa della sua rovina. Da qualche parte, in un ufficio fiocamente illuminato della Gestapo, venne aperto un fascicolo a nome von Cramm.

La coppia più invidiata di Berlino

La coppia più invidiata di Berlino

Nonostante questi segreti e l’intensa vita sociale della quale rimanevano un faro, Gottfried non derogava mai dalle sue abitudini. Il tennis rappresentò sempre la pietra angolare della sua esistenza e nel corso di innumerevoli serate nessuno lo vide mai bere o ritirarsi dopo la mezzanotte. Ogni mattina al Rot-Weiss lo attendeva la stessa tortura, intollerabile persino ad una volontà di ferro. Ma la sua era d’acciaio. Due ore consecutive di salto alla corda, corsa e duri esercizi ginnici seguiti, dopo un leggero pasto, da un intero pomeriggio sul campo da tennis, spesso in compagnia di Froitzheim o Kleinschroth. Era capace di ripetere per ore ed ore con feroce concentrazione un colpo che non soddisfaceva le sue aristocratiche attese e per questo motivo pochi volevano allenarsi con lui. E c’era da capirli. Del resto l’aura del predestinato lo accompagnava dall’istante stesso in cui varcò per la prima volta la soglia dell’antico club nell’autunno del 1929. “Se è bravo quanto bello diventerà campione del mondo” aveva commentato ammirata un’avvenente socia. Il Lawn Tennis Turnier Club (vero nome del Rot-Weiss), era stato fondato nel 1897 e dal 1906 si era trasferito dal centro città ai margini dell’imponente foresta di Grunewald, nei pressi del lago Wannsee, tristemente noto alla storia. In una delle sfarzose ville che lo circondano il 20 gennaio 1942 i nazisti progettarono la cosiddetta “soluzione finale”, ovvero lo sterminio sistematico del popolo ebraico.

Il club aveva perfetti campi in terra rossa circondati da alberi secolari, secondo il solito Tilden “il miglior posto del mondo dove giocare a tennis”, ed era un’istituzione in città. Vantava artisti ed intellettuali fra i suoi soci rivaleggiando aspramente con il Blu-Weiss, prediletto invece dalle alte gerarchie militari. Le sue vecchie pareti e le poltrone in cuoio intrise dall’aroma di sigaro e dopobarba alla menta divennero ben presto la vera casa di Gottfried, ma per il primo anno il giovanotto si limitò a fare da sparring partner agli affermati campioni tedeschi. Il più forte di loro era Daniel Prenn, ebreo russo emigrato a Berlino con la famiglia poco dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917. Prenn era un mastino dall’aggressività instancabile sul campo e la scintilla della simpatia con il barone scoccò subito, trasformandosi ben presto in una salda amicizia. Nella Davis del 1929, con la Germania riammessa da poco nel consesso internazionale, Daniel era stato l’artefice di un insperato successo contro la Gran Bretagna, sconfiggendo al quinto per ritiro nel singolare decisivo un Bunny Austin vittima dei crampi. L’inglese incolperà del malanno i pesanti pantaloni di flanella e dopo poco sarà il primo ad introdurre l’utilizzo dei calzoncini corti.

Von Cramm non li usò mai.

Nell’estate del 1929 l’ebreo Prenn era un eroe nazionale, cinque anni dopo fuggiva nottetempo in Inghilterra come un ladro. 

Fra le schegge taglienti di un mondo che stava andando in pezzi l’ancora di salvezza per Gottfried von Cramm sarà il tennis. Fra i quattro angoli retti di un campo valevano le regole della cavalleria alle quali era stato allevato e solo all’interno di quei fragili confini di gesso si sentiva al sicuro. Ma doveva vincere.

Segue a pagina 3: l’ascesa, la Davis e…“Non credo di aver umiliato il popolo Tedesco. Al contrario, sono convinto di averlo onorato”.

Pagine: 1 2 3

Continua a leggere
Commenti
Advertisement

⚠️ Warning, la newsletter di Ubitennis

Iscriviti a WARNING ⚠️

La nostra newsletter, divertente, arriva ogni venerdì ed è scritta con tanta competenza ed ironia. Privacy Policy.

 

Advertisement
Advertisement
Advertisement