Fognini sei grande. Sfata il tabù Tsonga e vola agli ottavi (La Gazzetta dello Sport). Duck-hee, il ragazzo che sente il tennis (Cazzaniga)

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Fognini sei grande. Sfata il tabù Tsonga e vola agli ottavi (La Gazzetta dello Sport). Duck-hee, il ragazzo che sente il tennis (Cazzaniga)

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Fognini sei grande. Sfata il tabù Tsonga e vola agli ottavi (La Gazzetta dello Sport)

Nella seconda giornata del torneo ATP Masters 1000 di Indian Wells (Usa), c’è l’impresa di Fabio Fognini che ha superato la sua bestia nera Jo-Wilfried Tsonga, numero 8 del ranking mondiale, in tre combattutissimi set dopo 2 ore e 28′ di gioco. Sempre battuto nei 4 precedenti, l’azzurro è riuscito a rimanere sempre nel match senza cadere nei suoi proverbiali momenti di nervosismo. Il primo set è stato all’insegna del più totale equilibrio fino al 4-4 del tie-break, quando Fognini ha messo a segno tre punti di fila portandosi in vantaggio di un set. Nel secondo set, Tsonga ha infilato due break con autorità. Tutto sembrava pendere a favore del più quotato transalpino ma Fognini, nel set decisivo, non ha perso il controllo nemmeno dopo i tre game di fila conquistati dal rivale. Per Fabio è la seconda volta agli ottavi a Indian Wells in 8 partecipazioni.

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Duck-hee, il ragazzo che sente il tennis (Lorenzo Cazzaniga, L’Unità)

La madre, Mi-ja Park e suo marito, Sang-jin Lee avevano intuito presto di avere un figlio speciale, ma non volevano arrendersi all’idea che potesse trattarsi di qualcosa di grave. All’epoca, Sang-jin prestava servizio militare, che in Corea è qualcosa di serio: «Non ti preoccupare» disse alla moglie, prima di tornare in caserma. La coppia viveva (e ancora risiede) a Jecheon, cittadina a un’ora e mezza da Seoul; la madre trovò il coraggio di spingersi fino all’ospedale più vicino per una visita specialistica. Il verdetto fu lapidario: «Suo figlio è sordo, non sente assolutamente niente». Lo sconforto durò pochi giorni, «poi abbiamo cominciato a pensare a cosa fare per regalare a nostro figlio una vita normale». Il primo passo fu trovare una scuola per sordi; il secondo, non accontentarsi. Ogni pomeriggio Mi-ja lo andava a prendere e lo portava in una scuola tradizionale, perché chi frequenta solo scuole per sordi finisce per chiudersi in un mondo lontano, «e diventa poi complicato trovare un lavoro e avere una vita sociale». Contro ogni consiglio, Mi-ja si è rifiutata di far apprendere a Duch-hee il linguaggio dei segni: «E per cosa? Perché un giorno debba scrivere su un foglietto all’autista di un bus dove vuole andare?». Solo la forza di una madre può spingere una donna a insegnare al figlio, giorno dopo giorno, a leggere le labbra, esercizio che richiede un’attenzione che i ragazzini di solito ignorano. Non solo. Come accade a chi è colpito da sordità, Duck-hee faticava anche a parlare, quindi la madre gli insegna anche come muovere la bocca; il risultato è apprezzabile. Il padre si convince intanto che lo sport può sottrarlo da una vita di soggezioni. Ovviamente scarta gli sport di squadra. Pensa al tiro con l’arco o al golf, specialità in cui l’aspetto uditivo è poco determinante. Fin quando Duck-hee non si ritrova in compagnia del cugino Chung-hyo Woo su un campo da tennis: «Perché non dovrei riuscirci anch’io?», si domanda. Perché nel tennis non riuscire a sentire il suono della palla è un handicap insormontabile: ma a questa risposta Duck-hee si ribella. Una ricerca del National Institutes of Health, ha stabilito che il tempo di reazione medio ad uno stimolo visivo è di 180-200 millisecondi, quello acustico di 140-160 millisecondi. In sostanza, sentiamo ancor prima di vedere. Incontro Duck-hee sul campo di allenamento del torneo Challenger di Budapest. È in compagnia del cugino che gli fa da sparring negli allenamenti e da interprete nella vita, unico nella famiglia Lee a conoscere un discreto inglese. Insieme a loro, Shin Hancheol, presentato come coach ma che preferisce non esprimersi. Lee impressiona per la velocità con la quale si muove. È piccolo di statura ma con due buonissimi fondamentali: più esplosivo il dritto, più raccolto e regolare il rovescio. «Tutti parlano del mio handicap – attacca Lee – ma qualche volta mi sembra un dono. Non sentendo i rumori, resto sempre concentrato su quello che accade in campo. Mi dicono che in certi match di Coppa Davis succede che ti urlino contro per destabilizzarti. Con me non funzionerebbe» dice accennando un sorriso. «Giocare a tennis mi è piaciuto fin dal principio. Mi incuriosivano gli schemi, le traiettorie della palla, riuscire a superare l’avversario con un colpo vincente. Mi è venuto spontaneo. Ovviamente non saprei dire quali sono le maggiori difficoltà che incontro non sentendo il rumore della palla, non ho mai avvertito questa sensazione. L’unico problema è con gli arbitri perché comunicare è difficile». Un esempio? Stava giocando un torneo ITF Futures a Tegal, in Indonesia. Era avanti di un break contro il non irresistibile Christopher Rungkat, quando Lee ha colpito un passante vincente, fatto il classico pugnetto verso il suo angolo prima di dirigersi verso la panchina, per il cambio campo. Lì seduto, non capiva perché il suo avversario se ne stava in piedi vicino alla rete e soprattutto perché il giudice di sedia si sbracciava verso di lui. Non si era accorto che in precedenza l’arbitro aveva chiamato un over-rule e che lo score era di 40 pari. Lee ha cominciato a innervosirsi, non tanto per il punto annullato, quanto per lo sforzo di doversi spiegare, senza riuscirci. Il pubblico, non conoscendo il suo handicap, cominciò a ridere vedendolo affannarsi tra gesti e suoni appena accennati. Lee finì col nascondere le lacrime nell’asciugamano. «Vuole essere trattato come un giocatore normale – ci racconta Carl Baldwin, supervisor al torneo di Budapest – e noi lo accontentiamo, ma qualche accorgimento è necessario. Per esempio non può accorgersi di un “let” al servizio e quindi chiediamo al giudice di sedia di indicare con chiarezza la rete per segnalare che la palla ha toccato il nastro. Oppure ai giudici di linea di segnalare più a lungo se una palla è dentro o fuori. Per la comunicazione, se gli parli lentamente in inglese, capisce quanto basta». Lee attual mente è tra primi 140 giocatori del mondo e nessuno più giovane di lui vanta una classifica migliore. Punta diretto ai top 100, «a giocare negli Slam». I suoi obiettivi sono ambiziosi, contro ogni pronostico. Anche contro quelli di Hyun-sang Joo, allenatore della scuola Mapo, dove è cresciuto,: «Ero convinto che la sordità gli avrebbe impedito di sfondare a livello professionistico. Mi sono dovuto ricredere». Gli fa eco il padre: «Tutti mi dicevano che era già un mezzo miracolo che riuscisse a competere con gli juniores ma che appena la velocità di palla si fosse alzata, non avrebbe avuto chance». La risposta è evidente e una spiegazione la offre Paige Stringer, fondatrice della Global Foundation for Children with Hearing Loss. Secondo la sua esperienza «le persone nate sorde hanno un intuito maggiormente sviluppato e riescono a individuare i segnali nascosti in certi movimenti del corpo. Quando un senso viene compromesso, gli altri si rinforzano per bilanciarlo. Nel tennis, le informazioni visive sono percepite più rapidamente, sviluppando dei riflessi sorprendenti». In maniera meno scientifica lo stesso concetto è stato espresso da Rungkat, dopo averlo incontrato al Futures di Tegal: «Riusciva sempre ad anticipare le mie intenzioni. Non credo leggesse solo bene i miei colpi, secondo me sa leggere nella mente!». Duck-hee si diverte ad ascoltare questi racconti: «purtroppo non ho poteri sovrannaturali, sarebbe tutto più semplice. E non ho nemmeno una vista speciale. Non potendo sentire, sono abituato a fare molta attenzione ai gesti, alle posture delle persone, per questo pare che abbia un grande intuito». Si mostra sempre calmo. Si emoziona solo quando deve parlare della madre, a conferma dell’evidente riconoscenza per quelle infinite ore passate a insegnargli a leggere le labbra, a biascicare qualche parola, a trovare la sua strada: «Senza di lei non sarei mai arrivato qui. Ancora adesso basta una sua parola per tranquillizzarmi. Nessuno mi conosce così bene, nel mio profondo, quanto lei. È mia madre, la mia migliore amica, la mia maestra di vita». Duck-hee accenna un sorriso, suo cugino fa segno che un altro aereo lo attende per tornare a casa. Gli ricordo quanto dichiarò il fratello di Esther Vergeer, la più forte giocatrice di tennis su sedia a rotelle della storia: «Se anche trovassero una pillola che le permettesse di camminare, ora Esther non la prenderebbe più». Duck-hee diventa improvvisamente serio, quasi agitato nel chiedere al cugino di tradurre con precisione: «Sono totalmente d’accordo con lei. Credo che riacquistare l’udito non farebbe altro che confondermi». Lo guardo perplesso, lui se ne accorge, si mette dritto sulla poltrona, mi fissa per la prima volta negli occhi e col suo inglese incerto ribadisce: «No…Never…I am very happy now».

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