Federer: "Finché c'è la salute..." e a 35 anni sogna. Le certezze di Cilic piegano Querrey, "Non ho più paura" (Crivelli). Roger sì, finale numero 11 contro Cilic (Marcotti). Nessuno come lui, Federer inarrivabile per l'ottava (Azzolini). Federer e l'autostrada verso il titolo record (Clerici). Venus migliora con gli anni, Muguruza è la volta buona? (Bertolucci)

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Federer: “Finché c’è la salute…” e a 35 anni sogna. Le certezze di Cilic piegano Querrey, “Non ho più paura” (Crivelli). Roger sì, finale numero 11 contro Cilic (Marcotti). Nessuno come lui, Federer inarrivabile per l’ottava (Azzolini). Federer e l’autostrada verso il titolo record (Clerici). Venus migliora con gli anni, Muguruza è la volta buona? (Bertolucci)

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Federer:”Finché c’è la salute…” e a 35 anni sogna (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Le chiavi del paradiso sono salde nelle sue mani, con il conforto della storia: quando Federer vinse per la prima volta sull’erba sacra di Church Road, nel 2003, praticamente in un’altra epoca, in semifinale non era approdato nessuno dei primi quattro al mondo. Come questa volta. Se anche la cabala si mette a flirtare con il sovrano assoluto di questi prati, bisognerà solo aspettare l’ultimo punto della finale per aggiornare la leggenda e scrivere un altro capitolo del romanzo più grande di sempre. GRANDI NUMERI Eppure, padroneggiando la scaramanzia da vecchio marpione, Roger mostra di non fidarsi: «Contro Cilic non sarà affatto facile, agli Us Open di tre anni fa contro di me giocò una partita irreale». Sarà, ma fin qui di irreale c’è soltanto l’avventura sportiva di una divinità caduta dal piedistallo solo un anno fa, piegata dalle ferite corporali e atterrita dall’idea di un futuro nebuloso e senza tennis e poi meravigliosamente risorta dalle sue ceneri per tornare a deliziare, forse addirittura con più grazia e leggiadria di prima, perché superare l’abisso ti fortifica lo spirito e ti libera la mente. Mai nessuno, prima di Fed, ha giocato 11 finali nello stesso Slam e nello stesso torneo (Nadal è a 10 con Parigi), mai nessuno fin qui ha vinto otto volte a Wimbledon, e lui può riuscirci salutando definitivamente l’antico Renshaw e l’ispiratore Sampras, con cui condivide il primato a sette. E nessuno, se Roger alzerà di nuovo la coppa in argento dorato, avrà mai trionfato all’All England Club così avanti negli anni, 35 e 342 giorni. Non servono parole, se non le sue: «E’ tutto così eccitante, un’altra finale è la ragione per cui sono tornato qui quest’anno, per cui ho fatto certe scelte, e adesso spero di regalarmi un’altra bella partita. Ma il fatto di aver giocato 11 volte per il titolo non significa che ho già vinto, devo rimanere concentrato sull’obiettivo». IL FUTURO Dall’Australia fin qui, passando attraverso Miami, Indian Wells e Halle, gli altri tornei vinti in stagione dal Divino, è stata una marcia trionfale, con solo un paio di incidenti di percorso, sorprendente soltanto per chi non conosce le vie infinite del talento. Quello, per esempio, che con un dritto abbacinante ti permette di annullare l’unica palla break concessa nel secondo set, oppure dal 15-40 del quinto game del terzo set illumina il tuo braccio guidandolo a tre ace e un servizio vincente consecutivi. Sarebbe stata l’ultima occasione per il povero Berdych, che picchia forte e prova a crearsi le sue occasioni, ma per la 19° volta nei confronti diretti deve inchinarsi alla legge del più forte. Federer arriva in finale senza aver perso neppure un set, come gli riuscì anche nel 2006 e nel 2008, ma siccome per lui la normalità sta nelle cose eccezionali, manco se lo ricordava: «Davvero non è la prima volta? Evidentemente non conosco così bene la mia carriera. Sarebbe stato bello fosse la prima, adesso dovrò dirvi che sono deluso…». Solo la pesante cappa del netto favorito, soprattutto se ci penserà troppo nel giorno di riposo, potrebbe inceppargli gli ingranaggi, ma intanto il futuro è già qui: «Fin quando avrò la salute, potrò permettermi di arrivare alla fine dell’anno e valutare le condizioni del mio gioco e pensare a come potrò giocare l’anno successivo. Dopo l’infortunio ho resettato la mente, e la mia famiglia è contenta di seguirmi sul circuito. Non ho programmi, ma tornei come questo mi stimolano a rimanere competitivo a lungo». Il domani non muore mai

 

Le certezze di Cilic piegano Querrey, “Non ho più paura” (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Una vendetta contro il destino. Quel bravo ragazzo di Cilic non l’ha mai dimenticato, il pomeriggio della vergogna. Era proprio qui, a Wimbledon, edizione 2013, e stava aspettando di giocare il secondo turno contro De Scheppers, quando la federazione internazionale gli comunico che era stato trovato positivo al torneo di Monaco. Perciò quel giorno non ci sarebbe stata nessuna partita: ritiro tattico per un presunto infortunio a un ginocchio, e poi tre mesi di stop. RISARCIMENTO Una sostanza vietata in una zolletta di glucosio acquistata dalla madre senza leggere le avvertenze: Marin ha vissuto la squalifica come un’ingiustizia, da innocente. Ma il breve tempo lontano dal tennis lo ha reso più forte, lo ha maturato, fino al successo agli Us Open 2014. E adesso si regala un altro passo in avanti, la finale a Church Road, ottenuta all’11° partecipazione, un record, il risarcimento più bello nel luogo del dolore più grande. Il gigante buono di Medjugorje che da adolescente si trasferì a Zagabria non è una meteora, quel lampo improvviso a New York non fu il frutto del caso e per lui dimostrarlo a sé e al mondo vale quanto una vittoria. Negli ultimi 14 anni, su questi prati, hanno trionfato solo i Fab Four, e chissà che non sia arrivato il momento della rivoluzione: «Vincere in America mi ha aperto un mondo, da allora so di avere un’opportunità simile ogni volta che scendo in campo e l’avrò per tutta la carriera. Questo è un sogno che si realizza, ma nella mia mente c’era consapevolezza, essere tra i favoriti non mi spaventa più». IL LEGAME Nella battaglia dei servizi contro Querrey, Cilic sfonda con più incisività, mettendo 25 ace contro i 13 del rivale, cedendo solo 11 punti con la prima e poi scrollandosi di dosso l’americano grazie alla maggior solidità in risposta e negli scambi da fondo, riportando il suo paese in finale 16 anni dopo Ivanisevic, quello che fu e rimane uno dei più grandi successi sportivi di sempre della giovane nazione croata. Goran, d’altronde, è l’uomo che gli ha cambiato la carriera fin da ragazzino, convincendolo a trasferirsi in Italia da Bob Brett a 15 anni (soggiorno di cui resta la fede milanista) e poi prendendolo sotto la sua ala di coach praticamente debuttante proprio dopo il caso doping. Gli ha cambiato il movimento del servizio e del dritto (ora è meno ampio), ma soprattutto lo ha convinto che avere quel fisico non serviva a nulla senza essere più aggressivo in campo. Insomma, strano a dirsi per uno come lui che veniva soprannominato Cavallo Pazzo, gli ha dato solidità mentale e anche oggi che lo guida Bjorkman, Marin è soprattutto il giocatore plasmato da Ivanisevic. La mano dell’allenatore svedese si vede comunque nella più frequente ricerca della rete e nella gestione più equilibrata dei momenti difficili: «Jonas mi ha insegnato a uscire più forte dalle sconfitte». LA SPERANZA Certo, adesso la speranza di ereditare la gloria di Goran passa dall’avversario più difficile, Federer, il signore di questi giardini. Marin è sotto 6-1 nei precedenti, ma l’unica vittoria arrivò proprio a New York sulla strada degli Us Open 2014 e l’anno scorso, qui, nei quarti, ebbe tre match point prima di cedere al Divino: «Roger è a çasa sua, questo è il posto dove si sente meglio e dove gioca meglio. Avrò davanti una montagna molto alta da scalare, ma sono pronto e so che con le mie qualità potrò metterlo in difficoltà Quando Ivanisevic alzò la Coppa di Wimbledon, il dodicenne Cilic era a un camp di tennis estivo: «In Croazia, se lo chiedete alla gente, tutti ricordano ancora dove si trovavano quel giorno». Magari, domenica sera, la memoria andrà rinfrescata.

 

Roger sì, finale numero 11 contro Cilic (Gabriele Marcotti, Il Corriere dello Sport)

La sesta vittoria di fila, puntualmente in tre set, avvicina Roger Federer alla leggenda. Tra Io svizzero e l’ottavo sigillo dei Championships è rimasto solo Marin Cilic, suo avversario nella finale di domani. La seconda giovinezza di King Roger è sempre più sorprendente, e il primo ad esserne stupito è lui stesso. Che anche quando non gioca al meglio, è più falloso del solito e solleva qualche (raro) dubbio, vince in maniera autorevole. Come ieri, quando ha superato in due ore e 18′ un ottimo Tomas Berdych, raggiungendo la sua 11° finale a Wimbledon (primato ritoccato), la 29a in un torneo dello Slam. «Potevo giocare meglio, ma Tomas non ha mai mollato. Ero un po’ frustrato perché non riuscivo ad esprimermi come volevo, ma grazie alla fiducia che sto sentendo in questo momento, me la sono cavata». Con lode. Una vittoria di ordinaria amministrazione, la 90a sui sacri prati londinesi: sempre in controllo del gioco e del punteggio, non appena ha avuto bisogno di alzare il livello di gioco (nei due tie-break e nella terza frazione) Federer è subito salito in cattedra. Sostenuto soprattutto dalla battuta, che gli ha assicurato 13 ace, ma soprattutto l’84%di punti sulla prima di servizio. Centrando così l’ottava vittoria consecutiva contro il 31enne ceco, protagonista di un’ottima partita: sulla soglia dei 36 anni (che compirà il prossimo 5 agosto) lo svizzero diventa il secondo più vecchio finalista dopo Ken Rosewall (sconfitto nella finale del 1974, a 39 anni e 246 giorni). «Dopo l’infortunio dell’anno scorso ho smesso di fare programmazioni a lunga scadenza. Pianifico con sei mesi di anticipo. L’importante è la condizione fisica e continuo ad essere contento di aver saltato Parigi anche se magari potevo fare bene pure li». Una longevità straordinaria, quella di King Roger, alla 70a partecipazione in un torneo dello Slam, la 19° all’All England Club. «Non ci posso credere – l’entusiasmo di Federer al termine del match -. Mi sento un privilegiato a giocare di nuovo in finale in questo torneo. Lo scorso anno è stata dura, dopo la semifinale persa mi sono dovuto fermare. Ho fatto il papà a tempo pieno e ora sono di nuovo qui». Domenica, nella partita numero 102 sui prati di Church Road, Federer troverà dall’altra parte della rete Cilic, sconfitto in sei dei sette precedenti (compresa la vittoria lo scorso anno qui, dopo essere stato sotto due set). «Con Cilic sarà un grande spettacolo. E’ un ragazzo bravo, ci conosciamo da tanto tempo. Di sicuro dovrò giocare aggressivo perché non ti regala nulla. E non lo snobberò, sarebbe un errore. Ricordo bene il match di New York dove persi». II 28enne nato a Medjugorie diventa il secondo croato a raggiungere la finale dopo Goran Ivanisevic nel 2001. In poco meno di tre ore è prevalso sull’ americano Sam Querrey, raggiungendo la finale a Wimbledon per la prima volta dopo 11 partecipazioni, la seconda in una prova dello Slam (vittoria degli US Open nel 2014). «Sam ha giocato davvero un tennis di alto livello, soprattutto nel primo set – il commento del croato. Nel proseguo del match sono cresciuto nella risposta. Federer? Sta giocando il miglior tennis della sua carriera su questo campo, che sente come casa propria ormai. Ma io mi voglio concentrarmi sul mio tennis e giocarmi le mie possibilità».

 

Nessuno come lui, Federer inarrivabile per l’ottava (Daniele Azzolini, Tuttosport)

L’ottava più famosa del mondo non ha nome, non è l’Eroica, né la Pastorale, è solo l’Opera numero 93. Quella di Beethoven. La sua ottava Federer la vorrebbe invece Inarrivabile, magari Eterna, e ha tutta l’intenzione di darle il suo nome. Opera 91, quella di Roger, sempre che riesca a farla sua dopo un inseguimento che dura da una vita. La numero 90 (ché tante sono le vittorie su questi prati) l’ha dedicata a Berdych, ed è stata un inno all’efficienza, persino alla implacabilità, l’Inesorabile, ecco il nome per l’ennesimo successo in tre set di questi Championships, giunto con due tie break fulminanti e un terzo set costruito intorno al break ghermito nel sesto game. La diciannovesima in 25 confronti con il ceco, un tempo nemico, per via di alcuni commenti un po’ audaci, un po’ sprezzanti, nei confronti del rivale più fortunato, oggi invece annoverato nel “contubernio dei federeriani, quelli con cui andare a cena la sera. Vale l’undicesima finale nello Slam sull’erba, e mai nessuno in Era Open era giunto a giocarne così tante. Nadal dieci, a Parigi, peraltro tutte vinte. Lendl otto, agli Us Open, addirittura consecutive. Ma Federer undici, in attesa che si tramutino nell’ottavo titolo, anche questo storico, se arriverà. I Championships si sono concessi sette volte a Willie Renshaw, a Pete Sampras, e ovvio, anche a Roger. L’ottava sarà la Sinfonia dei centoquarant’anni del torneo. «E l’unico che non mostri la sua età – dice scorato Berdych -, gli altri si stancano, a volte arrancano, lui mai». «Questa finale è il frutto di un lavoro programmato. Mi sono sorpreso a Melbourne, qui lo sono di meno» la ribattuta di Roger. Per cingersi dei dovuti allori, Federer dovrà battere ora il tennista palindromo, Cilic, che lo è nel cognome e anche nel tennis. Da qualsiasi parte lo prendi il croato Marin, da destra e da sinistra, da sotto e da sopra, sempre lo stesso rimane. E forse è la sua fortuna, in questo mondo di tutti uguali. Cilic segue i propri estri, anche quando lo portano lontano dalla meta. Hanno provato a cambiarlo in tanti, da Ivanisevic (uomo di estri ancor più imprevedibili) a Bjorkman, l’attuale coach, e lui, educato com’è, li ha sentiti tutti ed è anche un po’ migliorato, ma non al punto da rinunciare alla magnificenza di certe conclusioni, magari azzardate, forse impossibili, ma ben precise nella sua testa di tennista atipico. Quando le mette a segno sono dolori per gli avversari. In altre occasioni, è lui a regalare punti. Vedremo domani dove lo porterà il cuore, certo è che con Querrey, qualcosa ha rischiato. Nel tie break del primo, fermato sul 6-6 dai soccorsi portati a uno spettatore in tribuna, Cilic si è affrettato a regalare il set all’americano con due ganci di rovescio sparati in direzione delle bianche scogliere di Dover. Poi è tornato in sé e non ha più combinato scatafasci. Sette confronti fra i due, mai però banali. Federer è avanti 6-1. Il fatto curioso è che si sono affrontati solo nelle grandi occasioni, tre volte nello Slam, quattro nei Masters. L’ultima, proprio qui a Wimbledon, l’anno scorso nei quarti. Federer non era Federer, e va bene, Cilic però condusse due set a zero e nel quarto ebbe un match point. Dolorosa, per Roger, l’unica sconfitta, nella semifinale degli Us Open 2014. Cilic vinse in tre, facili facili, poi si prese il torneo, fra i pochissimi a riuscirvi fuori dal ristretto Club dei Fab Four

 

Federer e l’autostrada verso il titolo record (Gianni Clerici, La Repubblica)

Credo di poter anticipare una notizia sensazionale. Roger Federer per il quale non so più inventare sinonimi, ha vinto il suo 8° Wimbledon, battendo in semifinale Berdych per 7-6, 7-6, 6-4 e nella finale di domani Cilic, per un punteggio del quale non sono ancora stato informato. Infatti, al di là di incresciosi incidenti che mi auguro non si verifichino, il futuro avversario di Roger non è in possesso di un colpo indispensabile per insidiare Sua Federarità, e cioè un rovescio di livello degno di una finale a Wimbledon. Privo del conforto di questo colpo dovrebbe riuscire quantomeno una trentina di aces, e una somma non molto inferiore di diritti e volè vincenti. Sono, quindi, quasi sicuro di non rischiare il mio umile posto e di non dover percorrere il cammino verso Lourdes che toccò al mio povero amico Brera il giorno in cui giurò che l’Italia del calcio non avrebbe perso dalla Corea. Il match di oggi potrebbe apparire al lettore più incerto di quanto sia stato in realtà. Ci sono, a favore di Sua Maestà Roger, ben due tiebreak, e questa invenzione del mio amico Jimmy Van Alen ha, tra i suoi aspetti, anche quello di un’accentuazione della fortuna. Sul primo dei due ecco Roger che, sul 4-2, fallisce un facile diritto, e Berdych prontamente lo imita. Sul 2 Berdych risale da un drammatico 1-5 a 3-5, ma Federer colpisce maluccio una volleina che gli porta il punto. Non sono stati certo i due tiebreak a scoraggiare Berdych, forse quanto i precedenti contro il Genio Contemporaneo, terminati con 18 sconfitte contro 6 vittorie. Così come non saranno le 6 vittorie a 1 contro Cilic, con l’importante ricordo della semi a New York che gli permise di vincere quel torneo. Ma mi pare di terminare con sua Sua Federarità e di occuparmi dell’altra semi. Si è trattato, per me, di una sorta di super 1 turno che l’amico Stefano ha definito «un match alla Moravia, la Noia (in campo), Gli Indifferenti (fuori)». È stata, in realtà, questa partita, messa in campo per ragioni che non appaiano casuali: le teste di serie, il sorteggio, la forma dei tennisti, l’erba e, forse, il destino. Il vincitore, Cilic, era parso vicino alla glorificazione, pur provenendo da Medjugorje, nel 2014, quando il sorteggio l’aveva portato sull’Arthur Ashe, contro un giapponesino che, secondo il suo Maestro Bollettieri «era destinato a diventare Campione del Mondo». In quell’occasione, come nel resto dei match dello US Open, Cilic aveva basato le sue performances su un binomio servizio-diritto a tratti irresistibile. Nessuno, tra gli avversari, era riuscito a sfuggire alla tattica che il grande Jack Kramer aveva chiamato Service and Forehand, simile allo stile da erba definito serve-and-volley. Questo tipo di gioco era stato in seguito praticato da grandi tipo Pancho Gonzalez, o Jack Schroeder. Il caso Cilic è certo stato meno importante, e temo lo rimarrà, perché il croato manca di un rovescio a una mano. Oggi quella deficienza a sinistra lo ha spinto oltre il nervosismo contro un tipo rozzo come Querrey, stesso stile ma minor regolarità. Nel 1 set Cilic aveva perduto soli 4 punti in 6 turni di battuta ma, giunto al tiebreak, ha servito tanto mediocremente da lasciare il set all’ avversario. Di lì è cominciata una rincorsa che solo la modestia dell’ americano non è riuscito ad arginare. Il 3 e il 4 son finiti ai 7 games solo per reciproche insufficienze: è stato, insomma, un match che è sembrato appartenere a un torneo diverso dall’altra semifinale

 

Venus migliora con gli anni, Muguruza è la volta buona? (Paolo Bertolucci, La Gazzetta dello Sport)

Che l’erba non fosse, da diversi anni a questa parte, terreno fertile per le giovani racchette, è un fatto risaputo. Dopo il trionfo di Ivanisevic nel 2001 da wild card e quasi da ex giocatore, l’eventuale vittoria di Venus Williams nell’odierna finale di Wimbledon sarebbe una delle più belle favole del tennis moderno. Il gioco dell’americana, adatto a questa superficie, sembra lievitare di partita in partita e in semifinale ha raggiunto picchi di qualità assoluta. L’esperienza, poi, emerge nella gestione dei punti e le conferisce un certo vantaggio che potrebbe tornarle utile per superare l’ultimo ostacolo rappresentato dalla Muguruza. La spagnola, seppur alterna nel rendimento, sta confermando i pronostici di chi, dopo la finale persa proprio a Wimbledon due anni fa contro l’altra Williams, la indicò come possibile miglior interprete della nuova generazione, in un tennis femminile in evoluzione dietro le Williams e la Sharapova. Negli ultimi 16 Slam, ha raggiunto le semifinali almeno una giocatrice che non c’era mai stata prima e negli ultimi 8 almeno una semifinalista non era testa di serie. Oggi, oltre all’aspetto tecnico, la svolta potrebbe essere la tenuta fisica e la capacità nel comandare lo scambio

 

 

 

 

 

 

 

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