L'inganno di Maria Sharapova

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L’inganno di Maria Sharapova

A pochi giorni dal suo nuovo rientro in campo, confessioni di (e su) Maria Sharapova. Spoiler: la parola “doping” è assente

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‘Cause everybody knows (she’s a femme fatale)
the things she does to please (she’s a femme fatale)
she’s just a little tease (she’s a femme fatale)

Storia vuole che questi versi, nient’altro che il ritornello dell’immortale Femme Fatale dei The Velvet Underground, siano stati espressamente commissionati a Lou Reed da Andy Warhol, produttore dell’album (The Velvet Underground & Nico) che ha ospitato e reso iconici quei tre minuti scarsi in Do maggiore. Nei piani di Andy Warhol la musa da cui lasciarsi ispirare è Edie Sedgwick, una delle tante modelle lanciate dalla “Factory” dell’artista statunitense. La scelta di affidare l’esecuzione del pezzo alla 29enne Christa Päffgen, che in arte diventerà Nico, stravolge però il destino di Femme Fatale che si lega a doppio filo con quello della bionda “Sacerdotessa delle tenebre”. Dalla scomparsa delle soluzioni di continuità tra tappeto musicale e voce nasce un connubio che ben presto si trasforma in dogma. Nico è ormai la femme fatale di cui parla il brano, e tutto ciò che arriverà dopo sarà solo una pallida imitazione.

È in qualche modo possibile che alla domanda “Chi è la femme fatale del tennis?” qualcuno possa dare una risposta diversa da Maria Sharapova, attuale n.173 del ranking WTA? Pur ammettendo la democrazia del de gustibus appare difficile da credere. Non (solo) per l’avvenenza, non (solo) per il portamento algido che l’ha sempre contraddistinta, ma soprattutto per la naturalezza con cui abita il territorio del mistero. La sensazione che la siberiana sia estremamente a suo agio tra le risposte elusive e le dichiarazioni con cui sorride e si rabbuia allo stesso tempo è sempre stata piuttosto palese. Qualora ai più distratti servisse una conferma, Maria ha deciso di far precedere il suo secondo comeback del 2017 da una lunga lettera pubblicata sul The Players’ Tribune. Il titolo non equivocabile è “Into the Unkown”. Nell’ignoto.

Maria tornerà in campo a Stanford grazie alla quarta wild card stagionale dopo oltre due mesi di stop, causati tanto dall’infortunio ai muscoli dell’anca accusato contro Lucic-Baroni a Roma quanto dalla scelta del Roland Garros di non concederle una wild card. Due avvenimenti che l’hanno beffardamente investita nel giro di poche ore. In un passo della lettera la russa si è soffermata sulle sensazioni di quel 16 maggio: poco prima dall’incontro in programma in notturna sul centrale del Foro Italico, ricorda, si sentiva “contenta di aver potuto riposare in hotel, orgogliosa di essere al secondo turno e fiduciosa sull’assegnazione della wild card parigina”. Poi, dopo le due mezze catastrofi, le è un po’ crollato il mondo addosso. “Sono sicuro che molti miei critici abbiano pensato di spiegare quel che è successo con il Karma. Ne hanno tutto il diritto. Ma non era il karma il mio primo pensiero quella notte: volevo soltanto poter giocare“.

È proprio in queste dichiarazioni, certamente infiocchettate per solleticare i facili sentimentalismi, che appare qualche crepa nella figura di donna inaccessibile protetta da una torre d’avorio. Una torre composta di eventi glamour e sponsor che viene rinforzata dalla stessa soggezione dei media nell’affrontarla. Così come la voce un po’ cavernosa di Nico sembra cozzare con l’ideale collettivo della femme fatale, così questo lato fragile di Masha sembrerebbe sconfessare le premesse iniziali.

Sono consapevole delle critiche che mi hanno rivolto molti colleghi. Se sei un essere umano normale con un cuore che batte, beh… non penso sia possibile ignorarle. Ma allo stesso tempo ho sempre cercato di accoglierle con un’attitudine positiva. Non è una scelta facile, sarebbe facile fare il contrario. Andare in conferenza stampa, sedermi e rispondere direttamente alle accuse. Criticare, attaccare, tirare un gancio e lasciarli cadere nel fango. Buon Dio, io sono così competitiva. Pochi sanno che sono ossessionata dalla boxe. Fin da quando ero bambina è lo sport che mi affascina di più dopo il tennis. Il mio momento preferito è sempre l’ingresso sul ring: calmo e intenso allo stesso tempo, ritmato e maestoso. Avrei potuto fare lo stesso in conferenza, scendere sul ring per dare alcuni ganci e riceverne altrettanti. Ma semplicemente non mi interessa“.

 

La firma di Maria Sharapova

 

Appaiono d’un tratto evidenti due cose. Premendo ancora play, la voce di Nico sembra perfetta così com’è; rileggendo l’ultimo virgolettato di Maria, la sua figura torna a rintanarsi nell’inafferrabile. Con la silenziosa partecipazione della donna che l’ha resa donna. “Ho sempre voluto rispondere alle critiche mostrando la grazia, ed è qualcosa che ho imparato da mia mamma, una delle persone più eleganti che io conosca. Ho voluto rispondere facendo la cosa giusta, per dimostrare a tutti che fare la cosa giusta è una scelta“. Di mamma Yelena aveva già raccontato un aneddoto cruciale. Pur viaggiando spesso con Maria, non altrettanto spesso si ritrova a partecipare direttamente dagli spalti alle sue partite. “Non si tratta di scaramanzia, credo piuttosto che l’atmosfera delle partite e l’attesa non siano per lei“. Eppure a Stoccarda, al ritorno dopo 15 mesi contro Roberta Vinci, mamma Yelena occupava il suo posto nella Porsche Arena. Una promessa nata da una tenue conversazione notturna, a poche ore del rientro in campo. Mentre mamma e figlia stavano parlando semplicemente “in the way that moms and daughters do“.

Scorrendo le righe della lettera – che raramente scende d’intensità – si rischia di accarezzare la sensazione di artefatto. Di percepire una narrazione obbligata, guidata da una precisa direzione emozionale. Come un dritto lungolinea, banale, semplice istanza di uno sport ripetitivo. “In fondo questa è gente che colpisce una pallina da tennis e a volte ne colpisce alcune che valgono migliaia di dollari”, sembra di sentire in lontananza. Come se questo avesse il potere di azzerare la cifra umana di una persona. Come se essere particolarmente bravi in qualcosa di “futile” fosse insieme un privilegio, una colpa e una strada a senso unico per l’appiattimento morale.

Lo ammetto: mi piace essere circondata da un alone di mistero“. All’inizio si diceva appunto del mistero, ed è questo “l’outing” della campionessa siberiana. “Non sono mai stata una persona che vuole essere conosciuta da tutti, o amata da tutti, o anche soltanto capita da tutti. A volte faccio un esame di coscienza e mi chiedo se questo non mi renda una persona un po’ all’antica”. Il riferimento è alle abitudini delle sue colleghe che, a dire di Masha, hanno tutte lo stesso identico rituale post-match: controllare le ultime menzioni su Twitter. “Magari è qualcosa di magnifico, magari sono io che sbaglio, ma questo non mi appartiene. Non intendo mentire: non ho mai voluto una “vita” sul campo 18. Io mi sento a casa sul campo centrale. Ma c’è differenza tra notorietà e riconoscimento. Non ho bisogno di sapere cosa dicono le persone di me: mi basta sapere che lo stiano facendo“.

Il rapporto con i suoi tifosi è stato cementato dalla lunga assenza. Sharapova ammette come l’affetto percepito in quei mesi abbia dissolto molte sue perplessità sul rapporto con chi la idolatra. Anche se non proprio fino in fondo. Il timore è sempre che il suo alone di mistero venga frainteso: “Ho notato che c’è confusione tra il mistero e la convinzione che io sia invulnerabile. Ci ho pensato molto a lungo. La verità è che io mi sento vulnerabile tutto il tempo, senza distinzione tra le persone che ho di fronte. I muri che ho costruito attorno a me non sono così impenetrabili come la gente crede. Certe cose continuano a farmi sentire in un certo modo“.

Sembra quasi che ogni comportamento machiavellico sul campo di gioco, ogni esultanza volutamente gonfiata, ogni sguardo intimidatorio sia in realtà un gigantesco inganno. Che sia solo un epifenomeno del tennis, una cosa piccolissima, il mezzo tramite il quale Maria Sharapova si guadagna da vivere (per sé e due generazioni a venire, ad essere precisi). Una faccenda che quindi deve essere gestita, ad ogni costo, per ottenere la massima resa.

La giostra ripartirà a Stanford prima dei palcoscenici più prestigiosi di Toronto e Cincinnati. Doveva riprendere a Parigi, poi anche a Birmingham – dove la wild card era già pronta – prima della rinuncia a tutta la stagione verde, qualificazioni a Wimbledon comprese. Il tennis però èpur sempre una sola faccia del dado, che oscura le altre cinque con la compartecipazione di una bellezza che irretisce. La geometria è chiara, il cubo ha sei facce. Vederne una soltanto è un problema del punto di osservazione.

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