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Al femminile

L’indefinibile Sloane Stephens

La vincitrice degli US Open 2017 è una delle figure più complesse sul piano tecnico e caratteriale del tennis di oggi

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Una prima risposta è arrivata nel 2016, con il secondo picco di risultati della carriera. Nuovo allenatore (Kamau Murray), ma anche nuovo atteggiamento nell’affrontare il circuito. Anche se, secondo la mentalità attuale che si divora in un lampo i protagonisti del recente passato, Stephens ormai era scesa al rango di “ex grande promessa”.

Ma lei invece si era messa a vincere tornei WTA in serie, passando in pochi mesi da uno a quatto titoli: Auckland, Acapulco, Charleston. In Messico aveva vinto grazie a una finale memorabile: contro Dominika Cibilkova, nota per essere una avversaria grintosissima, aveva dato vita a una delle più belle e combattute partite della stagione (oltre tre ore di lotta). E con quel successo Sloane avevano smentito la nomea di giocatrice poco disposta a soffrire.

Stephens sembrava ormai definitivamente maturata, ma proprio quando cominciava di nuovo a essere considerata come una potenziale protagonista del circuito, era stata fermata dalla frattura da stress al piede sinistro, che le è costata quasi un anno di lontananza dalle partite (dall’agosto 2016 al luglio 2017). Prima alcuni mesi di riposo nel tentativo di recuperare senza intervento, poi la decisione di operarsi, con i mesi di gesso e riabilitazione.

Dopo il ritorno a Wimbledon 2017, è nella stagione delle US Open Series che arriva il terzo grande picco di carriera, culminato con il successo nello Slam. A proposito della sua vittoria agli US Open e sul come è arrivata, ancora una volta non penso si possa trovare un unico aggettivo che sintetizzi il suo atteggiamento in campo. Ho seguito (in parte o per intero), tutti i suoi sette match. E non credo che nei diversi turni abbia avuto una gestione univoca sul piano tattico e psicologico dei match. Anzi.

Contro Roberta Vinci ha giocato un primo set piena di timori: molto tesa, eseguiva lo swing di rovescio in modo parziale, senza spingere la palla. Poi, invece, dopo aver vinto il primo set si è sciolta e ha dominato (7-5, 6-1). Al contrario contro Cibulkova nel turno successivo ha iniziato convinta e sicura, tenendo a bada l’avversaria con le sue stesse armi: ritmo e incisività del dritto. Ma poi sul 6-2, 4-1 il “braccino” l’ha bloccata: improvvisamente titubante e trattenuta, ha subito il ritorno di Dominika e ha perso il set, prima di rincuorarsi e condurre con relativa tranquillità in porto il terzo set (6-2, 5-7, 6-3).

Più costante e solida, con un giusto mix di attacco e difesa contro Barty e Goerges, a mio avviso ha invece vissuto una giornata piena di paure contro Sevastova. Il loro quarto di finale è stata quasi una non-partita. Sloane su alcuni punti importanti è arrivata a servire delle seconde a 65 miglia all’ora (104 km/h). Ho seguito con rammarico due delle giocatrici con il repertorio tecnico più vasto del circuito incapaci di spingere la palla: colpi sempre trattenuti, e chi andava avanti nel punteggio pativa lo stress e finiva per farsi riprendere dall’avversaria che inseguiva. Chissà quanto sarebbe andato avanti questo precario equilibrio della paura se non ci fosse stato il tiebreak nel set decisivo (6-3, 3-6, 7-6).

Anche contro Williams secondo me si è vista per quasi tutto il match una Stephens lontana dalle giornate migliori. Partita con un atteggiamento estremamente prudente, per due set e mezzo non ha spinto né il dritto né il rovescio: giocava gli swing senza chiudere il colpo con la testa della racchetta, e la palla era spesso troppo corta, con rimbalzi nei pressi della linea del servizio. Malgrado questo atteggiamento rinunciatario si è vista quasi “regalare” il primo set da una Williams fallosissima; ma poi quando nel secondo set Venus è salita di livello, Sloane non è stata capace di adeguarsi alla nuova situazione. Risultato: 0-6.

Nel terzo set secondo me Stephens è rimasta in partita per tre ragioni: la stanchezza di Venus, il desiderio profondo di non perdere, e le sue enormi doti difensive, che le hanno permesso di allungare molti palleggi condotti comunque con palle troppo poco profonde e incisive. Ma probabilmente non sarebbe comunque bastato se non avesse avuto un guizzo di classe sul 4-5 30-30. A due punti dalla sconfitta ha vinto un punto fenomenale, da 25 colpi, e grazie a quella prodezza è cambiato il suo stato d’animo: è entrata in trance agonistica, dando l’impressione da quel momento in poi di sentirsi quasi invincibile, come se ormai per lei tutto fosse possibile. Ed effettivamente ha messo a segno un parziale di 10 punti a 1, guadagnandosi così la finale (6-1, 0-6, 7-5).

Contro Madison Keys invece è scesa in campo la Stephens nella versione migliore: lucida, solida, precisa. E anche aggressiva. Aveva un piano tattico chiaro: giocare potente e profondo al centro. Potente e profondo per non dare troppo tempo a Keys di caricare i colpi; al centro per non dare angoli all’avversaria, e quindi renderle più difficile trovare le aperture per vincenti rapidi. E c’è riuscita alla perfezione, con gli swing eseguiti davvero come si deve, sempre senza paura. Addirittura appena 6 gli errori gratuiti complessivi, a fronte di 10 vincenti. E così Sloane Stephens, la giovane promessa che nel 2013 era considerata incapace di vincere tornei, ha aggiornato il suo albo d’oro: primo Slam e quinta finale vinta su cinque disputate in carriera (6-3, 6-0).

Anche nel torneo della sua consacrazione, quindi, si è vista una giocatrice dalle molte facce. Che ha tutti i mezzi (fisici e tecnici) per praticare un tennis offensivo, ma che invece in alcuni giornate assume un atteggiamento passivo, e per rimanere in partita si affida alle proprie superiori qualità nei recuperi. Altre volte libera il braccio e “mette sotto” tenniste molto aggressive come Dominika Cibulkova e Lucie Safarova (a Toronto, in un gran match giocato all’inizio di agosto), grazie a vincenti di dritto che possono tranquillamente superare i 130km/h e a precisi rovesci lungolinea.

Capisco che quando si possiede un repertorio tecnico tanto vasto qualche volta sul piano tattico si possa andare incontro al classico “imbarazzo della scelta”. Sotto questo aspetto, e non è un paradosso, chi dispone di un repertorio di colpi più limitato difficilmente potrà avere incertezze su quale soluzione utilizzare, semplicemente perché tecnicamente è in grado di eseguirne una sola. Ma per una eclettica come Stephens a me rimane il dubbio che in alcune occasioni certe scelte di gioco siano determinate più dal suo umore, direi quasi dal suo sentimento nei confronti del tennis in quella specifica giornata, piuttosto che da valutazioni basate su tattiche ponderate e applicate di conseguenza.

Ma la cosa ancora più sorprendente è che la multiforme Sloane può avere la meglio comunque, malgrado queste contraddizioni: si può permettere di vincere sia giocando in modo aggressivo, sia facendo leva sulle sue qualità nel tennis difensivo. In sostanza per fare risultato non sempre ha bisogno che tecnica e tattica si rafforzino reciprocamente.
Magari i miei sono ragionamenti sbagliati, ma è proprio per questi dubbi e per queste contraddizioni che percepisco Stephens come una tennista ancora in fase di maturazione: un grande talento che deve ancora trovare il completo equilibrio tattico e psicologico.

Non è facile provare a raccontare una tennista così complessa; tanto che riterrei già positivo se quello che ho scritto fosse utile anche solo per limitare certi giudizi sommari che mi capita di leggere su di lei. In ogni caso continuerò a seguirla con attenzione, non solo perché mi attirano la ricchezza e la molteplicità del suo tennis, ma anche perché, più semplicemente, nelle giornate positive rimane una giocatrice capace di colpi davvero spettacolari:

P.S. Sono stati degli US Open ricchi di spunti, ma lo spazio di questo martedì è stato tutto per Sloane Stephens. Per questo rimando alla prossima settimana per gli altri temi del torneo.

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