Esibizionisti del tennis

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Esibizionisti del tennis

Roger Federer e Rafa Nadal alla Laver Cup, mentre i tornei veri muoiono di fame. E non importa che ci sia gente in tribuna, se l’abbonamento TV vende. John McEnroe e Bjorn Borg capitani

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I nomi non mancano: Roger Federer, Rafa Nadal, Tomas Berdych, Alexander Zverev, Dominic Thiem, Marin Cilic capitanati da Bjorn Borg, Sam Querrey, John Isner, Denis Shapovalov, Nick Kyrgios, Jack Sock, Frances Tiafoe, capitanati da John McEnroe. A costo di suonare ritriti, bolsi, privi di fantasia, addirittura reazionari… Ma abbiamo davvero bisogno di tutte queste esibizioni? Anzi, abbiamo bisogno di esibizioni in generale? Non noi personalmente, s’intende. Piuttosto, “noi” il tennis (quanta immodestia). Chi le organizza e le trasmette ci dice che sì, delle esibizioni evidentemente c’è bisogno, perché altrimenti non avrebbero tutti quegli spettatori e tutti quei canali TV pronti a comprarle a pacchetti pluriennali. Ok, è un po’ come farsi dire dall’oste se il vino è buono o meno, ma accettiamo ciò che ci dicono i numeri: le esibizioni piacciono – piacicchiano, va’ – e registrano un interesse tale da farle proliferare anche in uno sport attivo più o meno ad ogni ora dell’anno.

Si sa che il successo di pubblico non è necessariamente un bollino di qualità: una promozione intelligente e uno sponsor famoso possono vendere qualsiasi prodotto. Vale per gli smartphone, per il bagnoschiuma e vale anche per un evento tennistico – o pseudo-tennistico, nei casi in cui ai piani alti si decida di utilizzare l’esibizione per testare fantasie regolamentari. La gara a punti intitolata a Rod Laver che incomincerà domani avrà, al posto dell’eventuale terzo set, un tie-break a 10 anche in singolare. Per stancare meno i partecipanti, ma soprattutto gli spettatori dalla soglia di attenzione più bassa di sempre, che non devono cambiare canale prima dello spot. I broadcaster chiedono un tennis più breve, più giovane, per accattivare un ipotetico pubblico del futuro. Alienando intanto quello del presente, che delle lentezze di questo sport si era innamorato spontaneamente.

Il risultato è che tanti poveri tornei ATP 250 o WTA International non sanno se giungeranno vivi alla stagione successiva. “È la selezione naturale, bellezza!” risponderebbe l’oste di prima. Certo, ma la selezione naturale non la opera la qualità dell’evento, la opera chi lo gioca. L’Open di Nizza, un piccolo pezzo di storia tennistica della Costa Azzurra, è defunto nel 2016, causa l’assenza di uno sponsor che fornisse le finanze necessarie, tra le varie cose, a pescare dalla top 15 un pescione da manifesto. Quest’anno è toccato a Memphis, che dopo 41 edizioni e altrettante chitarre premio verrà rilocato a Long Island. E ne arriveranno altri, finché quelli che un tempo erano classici del tennis oggi servono giusto a fare volume nel pacchetto da vendere, qualsiasi nome di città portino.

Altri eventi dei tour, per effetto della medesima causa, sono tenuti in vita artificialmente anche se in tribuna non c’è anima viva fino al sabato delle semifinali. Finché il soldo non trasloca, ça va sans dire. La precarietà dei piccoli e medi tornei – perché anche Rio de Janeiro e Amburgo, categoria 500, se la passano maluccio – potrebbe infatti almeno garantire una copertura migliore del pianeta, con tennis un po’ dappertutto e un po’ per tutti. Di fatto però non è così: il vento di banconote tira soprattutto verso est, dove per ora ci si può mettere in cuore in pace se gli spalti sono vuoti perché in campo ci sono Cepelova e Parmentier. Forse giocano Cepelova e Parmentier anche perché in tribuna non c’era nessuno neppure l’anno precedente, nell’ennesimo uroboro del supermercato sportivo contemporaneo.

Del resto, come non si può costringere qualcuno a guardare un torneo dal vivo, non si può neppure costringere qualcuno a giocarlo (al massimo convincere, con i mezzi già citati). I tennisti di primo piano, quello che si sono fatti brand, lamentano del resto che il calendario è già troppo fitto di impegni, con una proliferazione della “scusa” in prossimità di un turno di Coppa Davis da saltare. Legittimo, visto che si giocano tornei ufficiali ogni singola settimana dalla prima di gennaio alle ultime di ottobre e 12 di essi sono mandatory. Non ci si aspetterebbe però a quel punto di vederli giocare i Tie Break Tens (magari persino senza avere ben chiare le regole), o i Pavarotti & Friends della pallina gialla, o ancora i tour dell’Asia in franchigie usa-e-getta coi nomi da NBA. Mentre invece…

Mentre invece capita che i top player si ammassino per queste sgambate da 48 ore o più, in cui in palio c’è soltanto tanta pubblicità. E se bisogna rischiare d’allungare un quadricipite per recuperare un dritto avversario, meglio lasciarlo andare. Roba da senior tour, da Johnny Mac e Pistol Pete che hanno un’età. Eppure i palazzetti sono pieni, perché la gente vuole Roger e Rafa e Serena e loro lì vanno, a fare le star come sono abituati a fare e come è giusto che facciano. A parte quel club di pazzi – di cui chi scrive è fiero membro – che è felice di guardare Niculescu lottare per 125 punti o Sugita per un posto tra i primi 55, in prima serata ci va “il film con Brad Pitt”. E Brad Pitt gioca nei palazzetti, mica a Quito.

In Laver Cup non bisognerà colpire molte più palline che in un weekend di Davis, e gli impegni collaterali sono già stati altrettanti se non di più. Però il senso della cantilena “voglio concentrarmi sulla mia carriera di singolare” è questo: mi chiamano Team Europe ma sono sempre io, il cognome che (si) vende, che faccio autopromozione. La stessa che ho fatto dedicandomi alla patria per un anno e sollevando la coppa da insalata, sempre io. D’ora in avanti se la veda Chiudinelli con Zhyrmont, poverello, che è l’unica gioia che la vita gli ha dato. Io dal pantano sono emerso vincitore, la bacheca l’ho arricchita, fatemi fare quello che mi consiglia l’agente, avete bisogno di me più di quanto io non abbia bisogno di voi.

La schiena duole soltanto dove l’assegno non batte, insomma, e questo è tutt’altro che un attacco personale. È una critica a un sistema che va in una precisa direzione, diversa da quella nella quale ci si auspicava che andassero le palline. Una “stecca” del movimento culturale tennistico, se si accetta la metafora. Perciò non prendiamocela troppo con il Thiem che gioca il ventisettesimo torneo dell’anno: almeno quei ventisette tornei hanno una boccata d’ossigeno, e noi possiamo ancora illuderci che il tour sia qualcosa di diverso dal Cirque du Soleil. E che chi si alza dal divano per andare a bordocampo, come chi lotta sempre per i punti, conti ancora un pizzico in più del resto.

Quest’articolo è molto negativo sulla Rod Laver Cup. Ma forse bisogna approfondirne anche gli aspetti positivi. In un prossimo articolo

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