La pioggia di miliardi resusciterà la Davis?

Editoriali del Direttore

La pioggia di miliardi resusciterà la Davis?

Tanti dubbi sull’idea rivoluzionaria dell’ITF, su formula e logistica. Cosa pensano Nadal, Federer, Kafelnikov, Courier? È vero che qualcosa va fatto, ma pare una mezza follia. Naufragherà?

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Una pioggia di miliardi può a volte fare miracoli. 20 milioni di dollari per ogni anno, per 25 anni, a partire dal 2019 è un bel piovere. Li ha (avrebbe?) trovati il calciatore del Barcellona Gerard Piquè con la sua società Kosmos, supportata dalla giapponese Rakuten, la prima società dell’e-commerce giapponese e sponsor del Barcellona. Ma non è detto che tutti i miracoli siano benefici. I dubbi sono ancora tanti. Ma è vero che tutte le rivoluzioni li comportano. Le obiezioni che mi vengono in mente sono così banali, che mi sento di escludere che Piquè e compagni non le abbiano prese in esame. Ma non essendone a conoscenza qui di seguito le manifesto.

Certo David Haggerty, il presidente dell’ITF, che aveva aveva meritoriamente forzato la mano per dotare l’Arthur Ashe Stadium di un tetto quando molti in seno all’USTA lo ostacolavano, aveva anche già provato assai meno meritoriamente a lanciare l’idea di una sede neutrale per la sola finale di Davis. Un’idea cervellotica piaciuta a pochissimi che non aveva raggiunto a Ho Chi Minh City il quorum dei due terzi delle approvazioni necessarie dei Paesi aderenti alla Federazione Internazionale. Non contento ora Haggerty ha tirato un uppercut micidiale sulla vecchia Coppa Davis, nata nel 1900 nella famosa gioielleria di Boston Shreve&Low&Crump. Come minimo, anche se l’evento Piqué non dovesse mai andare in porto, le avrebbe assestato un cazzotto micidiale. Un pugno da k.o. Perché se anche non andasse in porto la nuova “Tennis World Cup”, state pur certi che allo scopo di promuoverla sia lui sia il board dell’ITF che si dice sulla stessa linea del presidente, non potrà che sostenere con tutti i mezzi dialettici possibili il “De Profundis” della “vecchia” Coppa Davis.

Di sicuro un cazzotto simile non l’avrebbero mai tirato gli altri dirigenti europei. Né gli inglesi, amanti della tradizione, sebbene fossero stati i primi ad aver dato vita al tennis Open cancellando nel ’68 l’ipocrisia del tennis che distingueva i veri professionisti dai professionisti mascherati (e del sottobanco), né i francesi del presidente corso Giudicelli – entusiasta per averla conquistata per la decima volta nel dicembre scorso –  né i tedeschi il cui vice presidente federale della DTB, il coach Dick Hordoff ne ha dette di tutti i colori su Haggerty (“Invece di pensare a migliorare la manifestazione sembra che vogliano fare di tutto per rovinarla! La vogliono trasformare in una mega esibizione…, spero proprio che le nazioni che dovranno votare questa pagliacciata la boccino e non rieleggano più Hagerty che si sta mostrando davvero poco professionale”), né i belgi, mentre gli svizzeri sono divisi…(è svizzero il vicepresidente dell’ITF, ma Federer conta più di lui…). Forse solo gli spagnoli nell’Europa dell’Ovest… ecco, potrebbero fare eccezione, anche perché il progetto è nato proprio in Spagna con Piquè e in Spagna ci sono regioni dove chissà, forse si potrebbe giocare all’aperto anche a dicembre. Ecco perché, forse e dico forse, Rafa Nadal non sarebbe apparso contrario.

Nemmeno Murray per la verità lo è stato, mentre sul conto di Djokovic, che è socio del Kosmos e che già a Londra durante le finali ATP si era scagliato contro l’attuale Coppa Davis, è praticamente scontato che si pronuncerà a favore. D’altra parte c’è da capirli: per i giocatori più forti, e più anziani (oltre che già vittoriosi in Coppa Davis) ci sono ancora tanti soldi in palio (sembra che non bastino mai! Forse più ai loro agenti che a loro stessi…) e soprattutto tre belle settimane di riposo e mancati trasferimenti in più all’anno, cioè quelle corrispondenti alle prime tre settimane attuali che richiede l’attuale formula del World Group. Dubito però – per inciso –  che Roger Federer, partner manifesto della Laver Cup con il suo agente Tony Godsick, sarebbe felice di dover misurare la propria “impresa” con una Davis Cup così modificata… Gli interessi personali, un po’ per tutti, spesso prevalgono. Di certo però mai sarebbe saltata in mente una idea consimile al predecessore di Haggerty, il nostro Francesco Ricci Bitti che era l’emblema della prudenza e anche dell’immobilismo. Non si sarebbe mai azzardato. Forse su quella poltrona è stato più a lungo di qualsiasi altro, 16 anni! (Dal 1999 al 2015, quattro mandati di 4 anni come mai nessun altro) proprio per la sua capacità di navigare abilmente e diplomaticamente fra Paesi tennisticamente grandi per tradizione e piccoli, senza prendersi troppo rischi, mantenendo lo status quo. Haggerty come è arrivato ha proposto e avviato subito dei cambiamenti.

Prima di tutto, e di entrare nel merito, veniamo alla formula e alla logistica. Leggo che tutto sarà concentrato in una sola settimana intorno nella stessa settimana che oggi ospita la finale. E che vi parteciperebbero secondo i piani le 16 nazioni del World Group più due wild card… ma come?

LA FORMULA E LA LOGISTICA

Sei gironi di tre squadre che si affrontano in gironi all’italiana. In tre giorni. Nei primi tre giorni della settimana prescelta e che vorrebbero giocare a novembre dopo le finali ATP. Ogni squadra (formata da quattro giocatori) affronta le altre due in due singolari e un doppio al meglio dei tre set senza long-set. Alla fine della “tre giorni” ci saranno sei squadre che hanno vinto il girone, più le due migliori seconde che, presumo, non potranno che emergere da un complicatissimo conto dei set e game vinti e persi. Del resto anche per determinare le squadre vincenti di ciascun girone set e game avranno probabilmente la loro importanza. Salvo che sia una sola squadra a vincere due duelli. Ma se in ciascun girone A batte B, e il secondo giorno B batte C, e il terzo C batte A… ecco già il ricorso obbligato ai… ragionieri, ai set, ai game. Come e più che nelle finali dell’ATP Masters di fine anno.

Figurarsi poi il caos per stabilire le prime seconde di ciascun girone. Non vorrei che si dovessero contare anche i punti… e non più soltanto i set e i game. Oppure che si corra il rischio di finire al sorteggio, alla monetina. Con la squadra sorteggiata – sarebbe il colmo – che poi vince la manifestazione perché magari nei primi tre giorni il n.1 non ha giocato (era indisposto… o assente) e si presenta invece per le fasi finali. Dopo di che, superato l’iniziale bailamme, ecco i quarti di finale a eliminazione diretta. Beh, lì almeno non ci piove. Il vero tennis è quello che manda avanti chi vince e a casa chi perde. Senza ripescaggi. Sabato le semifinali e domenica la finale. Le squadre più forti delle 10 eliminate (le sei ultime di ciascun girone più le quattro seconde peggio classificate) dovrebbero poi giocare nella stessa settimana contro le otto squadre emerse da una Coppa Davis condotta in modo tradizionale, una sorta di World Group n.2 con match di andata e ritorno nelle stesse tre date tradizionali oggi riservate a primo turno, quarti e semifinali.

Sospetto – scusate la malignità – che quelle tre settimane verrebbero occupate da 16 nazioni per non lasciare tre settimane libere dal tennis all’ATP che, dopo aver respinto le proposte di Piquè e della sua società (si era rivolto all’ATP in un primo tempo… proposta respinta e subito dopo l’ATP è partita con l’idea di ripresentare quella World Team Cup che dopo tanti anni a Dusseldorf era naufragata per scarso interesse), si sarebbe altrimenti trovata a godere del “regalo” offertogli su un piatto d’argento dalla ITF. “Un aspetto molto interessante – ha spiegato Haggerty – è che alla fine della settimana sapremmo quali sarebbero tutte le sedici nazioni che giocherebbero la fase finale dell’anno successivo. Ma i criteri per designare le wild card per la squadra n.17 e la n.18 “sono ancora da definire”. Facile immaginare che se – putacaso – la fase finale venisse disputata nel Qatar, una squadra sarebbe quella del Qatar…

Un’idea rivoluzionaria del genere fino agli anni ’50-’60-‘70 sarebbe stata impensabile. La Davis valeva quanto i tornei dello Slam e forse perfino di più. Oggi sappiamo tutti che non è più così. I giocatori che l’hanno vinta, da Federer a Wawrinka, da Murray a Djokovic, hanno sempre manifestato scarso entusiasmo a rigiocarla dopo essere riusciti a conquistarla. Gli americani sono meno inclini a inchinarsi alle tradizioni, sebbene Dwight Davis fosse proprio americano. Jim Courier, che degli USA è stato prima giocatore e adesso capitano non si è schierato contro (come invece Yevgeny Kafelnikov: “Terribile, il valore e lo spirito della manifestazione sarebbe svanito”) ma ha aggiunto: “Beh, è un’idea un po’ stravagante, ma se si va in quella direzione allora in quella settimana ci potremmo mettere anche la Fed Cup”. Forse Red Jim non ha fatto il conto di quanti campi ci vorrebbero. Infatti… facciamo un passo indietro, prima di accontentarsi dei sei campi coperti da TV, Occhio di Falco, e magari – già che ci siamo…- pure le linee elettroniche.

Perché si possano disputare contemporaneamente sei sfide quotidiane internazionali in quei primi tre giorni, dovrebbero servire sei campi con tribune di una certa capienza. A meno che si pensi di far giocare due sfide di tre match ciascuno per stadio , tre in una sessione pomeridiana e gli altri tre match in quella serale. Programmare i match diversamente, alternando una sfida tra due Paesi e un’altra fra altri due, costringerebbe squadre, tecnici e tifosi a stare tutto il giorno sul pezzo: assurdo. Ve la immaginate l’atmosfera?

Ma poi servono comunque anche altri sei/otto campi perché i vari team possano allenarsi, con una bella rotazione se viene deciso che un campo sia “spartito” ogni giorno fra due team. Con quattro giocatori coinvolti per ciascun team, devono potersi allenare otto tennisti. Se si allenassero anche soltanto un’ora e mezzo ciascuno quel campo appaltato a due team condomini, verrebbe utilizzato 12 ore al giorno. dovrebbero servire sei campi con tribune di una certa capienza. A meno che si pensi di fare giocare due sfide di tre match ciascuno per stadio, tre in una sessione pomeridiana e altri tre in quella serale. Programmare i match diversamente, alternando una sfida fra due Paesi a un’altra fra altri due, costringerebbe squadre, tecnici, tifosi a stare tutto il giorno sul pezzo: assurdo. Ma ve l’immaginate l’atmosfera? Totale campi quindi (per consentire la fase dei gironi eliminatori) come minimo 9 ma meglio 11. Sei o tre dei quali con tribune all’altezza di una sfida… mondiale. Tribune per qualche migliaio di spettatori per ciascuno dei sei (o tre) main-courts? E tribunette, mica soltanto corridoi, per gli altri sei/otto campi. E dove esiste un impianto del genere? Pronto per il 2019? Grande quanto l’aeroporto londinese di Heathrow 5? Soltanto a Melbourne e a Madrid nella Caja Magica ci sono tre campi indoor, che sarebbero garanzia in caso di pioggia. 

Altrimenti la scelta obbligata è quella di un impianto outdoor. Ma dove a novembre? Non certo in Europa. E mai nella vita. Forse per questo si era inizialmente parlato di giocarla in Australia… prima che in Oriente. Ma quando? A dicembre per costringere i giocatori a passare due mesi Down Under per la gioia di mogli, coach e famiglie? A gennaio prima dell’Australian Open? Eh no, rischierebbe di sembrare una seconda Hopman Cup. Dopo l’Australian Open? Eh, già meglio, ma si può immaginare di “inventarsi” un evento mondiale per 25 anni che possa giocarsi soltanto in Australia, in Estremo Oriente, in Asia, o nel Medio Oriente, nei Paesi dei petrodollari? E con una programmazione concentrata in 7 giorni, 3 per i giorni eliminatori, 3 per i quarti, le semifinali e la finale… se outdoor ti piove due giorni che fai? Soprattutto se i giorni di pioggia cadessero all’inizio della settimana?

Il sospetto che per dare vita a questa manifestazione in certe realtà logistiche possa portare a costruire vere cattedrali nel deserto, magari in qualche Paese senza tradizioni tennistiche e con un’affluenza di pubblico tutta da inventarsi, mi pare abbastanza fondato. E’ chiaro che si tratterebbe soprattutto di un “prodotto” per la televisione, per gli sponsor (a spalti semivuoti?). E probabilmente per i primi (dieci?) anni con una partecipazione modesta degli spettatori anche per la difficoltà dei tifosi delle singole squadre a raggiungere località presumibilmente lontane (la Cina, il Qatar, l’Australia?).

Il fatto che si parli della Davis come di un prodotto…, di un evento magari spettacolare, sarà forse al passo con i tempi…ma al momento, in attesa di un supplemento di informazioni (oggi scarne) procura anche, se non soprattutto, una certa tristezza. Per quanto riguarda poi il nostro collaboratore Stefano Tarantino, da noi ribattezzato Patria-Man perchè niente sembra piacergli quanto la Davis e la Fed Cup…sono proprio giorni funerei.

Sentite cari lettori visto che sono già stato fin troppo lungo per sottolineare i miei dubbi circa gli aspetti della formula e della logistica… la seconda puntata, quella sul concetto di questa nuova competizione e sull’idea di affossare la Coppa Davis senza provare a studiare qualche modifica un po’ meno radicale, la scriverò domani.

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