Personaggi
Il giorno dell’addio di “Aga la Maga”
Agnieszka Radwanska appende la racchetta al chiodo, ufficializzando una decisione probabilmente già presa da tempo. Abbandona il tour una giocatrice unica che non lascia eredi. Nel palmarès 20 titoli con la perla del Masters 2015 e la finale a Wimbledon 2012 persa contro Serena

Le sensazioni che circolavano ultimamente lasciavano spazio a cattivi pensieri già da un po’ di tempo ormai, ma anche se tutti erano preparati al peggio la percezione plastica della realtà piomba su ogni fanatico della pallina di feltro come una mazzata: dopo mesi di calvario causato da un piede gravemente malandato, impossibilitata a dormire serenamente e figuriamoci ad allenarsi, Agnieszka Radwanska ha detto basta con l’agonismo. “Appendo la racchetta, è una delle decisioni più importanti della mia vita – ha dichiarato Aga nelle righe di un comunicato naturalmente affidato a Facebook – . Il mio stato fisico e in particolare le pessime condizioni del piede non mi consentono di sostenere i duri allenamenti essenziali per competere nel circuito moderno. Per giocare le partite che contano occorre spingere il proprio corpo ai limiti, e sfortunatamente oggi non sono in grado di farlo“. Seguono i ringraziamenti di rito, e di cuore, a famiglia, squadra e sponsor, classici titoli di coda di qualsiasi carriera al capolinea.
My Dear Friends, I’d like to share with you one of the most important decisions of my life. Today, after 13 years of…
Pubblicato da Agnieszka Radwanska su Mercoledì 14 novembre 2018
Se ne va, anche se forse non abbandonerà del tutto l’ambiente (“rimarrò legata a una delle parti più significative della mia vita, ma ora è tempo di nuove sfide, nuove idee, nuove occasioni“), quello che nel gergo comune verrebbe definito un “panda”; un esemplare se non unico perlomeno in pericolosissima via d’estinzione, che per giunta non sembra aver lasciato erede alcuno nel circuito. Aga, insieme a Roberta Vinci e a pochissime altre, è stata tra le più insigni teoriche e praticanti di una metodologia del gioco che le nuovissime generazioni non hanno avuto modo di vedere spesso e, con il ritiro a stretto giro di posta delle due artiste appena citate, avranno sempre meno opportunità di ammirare. In un periodo storico, non si sa quanto reversibile ma le sensazioni non sono positive, dominato da una incontestabile uniformazione di stili e tattiche quasi tutte basate su peso di palla e gran spinta da fondo, Agnieszka Radwanska è stata una cellula di resistenza; un anticorpo contro i tentativi di normalizzazione dello sport con la racchetta. Ha ovviato con tagli, volée di purezza astrale, anticipi talmente esasperati da mettere in dubbio le leggi della fisica alla congenita mancanza di potenza, riuscendo per lunghissimi anni ad annullare accentuatissimi mismatch e ad assicurarsi un posto al tavolo delle migliori, mandandole spesso ai matti con il suo stile inconsueto.
Ha vinto meno di quello che avrebbe potuto? No. Ha vinto meno di quello che avrebbe meritato. In bacheca si trovano comunque venti trofei del circuito maggiore in ventotto finali disputate, numeri che certificano un certo sangue freddo nei duelli decisivi, con la perla del Masters 2015 centrato nella finale di Singapore contro Petra Kvitova dopo aver perso le prime due partite del round robin. E sono arrivati altri allori di rilievo, specialmente nella prediletta Asia dove Radwanska ha raccolto otto titoli, ma la partita più importante della sua epopea resterà probabilmente quella giocata contro Serena Williams nell’ultimo atto di Wimbledon 2012. Nel pieno di una tra le stagioni più dominanti della carriera (chiusa con un terrificante 58-4 nel rapporto vittorie-sconfitte) e in procinto di riconquistare di prepotenza la vetta delle classifiche mondiali, Serena vinse facilmente il primo set ma nel secondo vide per l’unica volta quell’anno sgretolarsi le proprie certezze: conquistò quell’edizione dei Championships tornando a spadroneggiare nel parziale decisivo, ma la Maga, quell’estate, fu tra le poche a scombinare i suoi perfetti ingranaggi.
Da un paio di stagioni le magie hanno lasciato spazio a infortuni sempre più frequenti e ad assenze altrettanto prolungate, conto salatissimo presentatole da un fisico da anni spinto ai limiti nel tentativo di contrastare le straordinarie performance atletiche delle valchirie rivali. L’ultimo trionfo a Shenzen nell’autunno del 2016, poi una graduale discesa in classifica fino all’attuale settantacinquesima posizione nel ranking WTA. Lo scorso maggio, costretta a marcare visita all’Open di Francia, Radwanska ha visto interrompersi la notevolissima striscia di quarantasette apparizioni consecutive nei tornei del Grande Slam, altra grande soddisfazione da conservare nel cassetto dei ricordi insieme ai cinque awards, anch’essi consecutivi, l’ultimo nel 2017, con cui i tifosi in giro per il mondo premiano il colpo più bello dell’anno tennistico in gonnella.

La reazione di un tifoso di Agnieszka Radwanska durante il match tra Radwanska e Vinci – Doha 2016 (una partita incredibile, che trovate QUI)
Resterà nel cuore di molti, Agnieszka, per lo stile inconfondibile, la classe innata e un atteggiamento sempre sorridente e solidale. Poi ci sono quei colpi irripetibili per chiunque ma che per lei si rivelavano normalissimi fondamentali, i leggendari dritti e rovesci “genuflessi”, per usare la straordinaria definizione di Federico Ferrero, che rimarranno cristallizzati nella storia dello sport alla stregua di quei gesti unici e riconducibili a uno e un solo campione, come la foglia morta di Mariolino Corso o il “movimento Cassina” del ginnasta di Seregno. Buona fortuna Aga, ci mancherai moltissimo.
ATP
Fratelli & Sorelle del tennis: non solo Berrettini. Da McEnroe a Williams, passando per Safin e… Monfils
Mentre ad Acapulco Matteo avanza e Jacopo si è fatto valere, riviviamo le parentele di maggior successo. Tra fratelli ritirati o troppo indietro in classifica come i Djokovic o gli Tsitsipas, in ATP ora comanda la famiglia Cerundolo, mentre in WTA…

Ci aveva provato quattro volte, ma era sempre stato eliminato al primo turno del tabellone cadetto. Ad Acapulco, finalmente, Jacopo Berrettini ha superato le qualificazioni battendo i ben più quotati Blancaneaux (n. 155) e Darderi (n. 184). A quel punto, la wild card ricevuta era già ampiamente onorata, ma Jacopo non si è certo accontentato e ha battuto anche Oscar Otte, complice un ginocchio tedesco, mettendo così a segno la sua prima vittoria ne Tour al primo tentativo. In singolare, perché in doppio con il fratello Matteo (qui subito battuti), aveva già preso parte all’ATP di Cagliari nel 2021, dove hanno raggiunto le semifinali, e all’ATP di Firenze l’anno scorso con sconfitta all’esordio. Il best ranking di Jacopo, n. 388, risale all’estate 2019, mentre ora la classifica lo vede alla posizione 842, che in ogni caso migliorerà di parecchio lunedì prossimo, assestandosi attorno al 475° posto dopo la sconfitta contro de Minaur.

Di due anni e mezzo più giovane di Matteo, il classe 1998 romano è al momento decisamente lontano dalle vette raggiunte dal fratello, ma la sua impresa in Messico ci offre lo spunto per una carrellata (inevitabilmente non esaustiva) su fratelli e sorelle del tennis, campioni o meno che siano (stati) o saranno. Jacopo e Matteo, anch’egli vittorioso all’esordio, sono però stati sconfitti in doppio e dunque, almeno per quest’anno, non aggiungeranno nell’albo d’oro di Acapulco i propri nomi a quelli dei Bryan, degli Zverev e degli Skupski.
Top Bros: i fratelli migliori
Tra i tennisti in attività, Francisco (classe 1998) e Juan Manuel Cerundolo (2001) sono quelli che attualmente vantano il miglior ranking combinato, rispettivamente numero 32 (best n. 24) e 108 (79). Dei due di Buenos Aires, Fran è quello che tira e Juanma quello che rema; non a caso, la classifica di quest’ultimo è nettamente migliorata da quando ha deciso di rinunciare alla racchetta usata dal fratello per passare a un modello che perdona di più. Per quanto riguarda i testa a testa ufficiali, al Challenger di Campinas nel 2021 vinse Fran in due set ma, se entrambi vantano un titolo ATP, il primo a metterlo in bacheca è stato il più giovane. Come duo, hanno preso parte solo a eventi dei circuiti minori.
Se gli argentini sono i migliori in questo periodo, Alexander (classe 1997) e Mischa Zverev (1987) vincono a mani basse quando si prendono in considerazione i best ranking. Il fratellone, ora sprofondato dalle parti del 1500° posto, è stato n. 25 nel 2017, mentre Sascha ha occupato la seconda piazza. Due titoli vinti in coppia. Il più giovane ha vinto l’unica sfida a livello ATP, vendicando le due sconfitte “minori”, tra cui quella nelle qualificazioni del Challenger di Dallas 2 addirittura nel 2012. In quell’occasione texana, Mischa gli rifilò un 6-0 6-1. Un game lasciato al fratellino ancora quattordicenne, bravo.
Il classe 1998 Mikael Ymer, n. 59, ha perso le due sfide con il maggiore di due anni Elias (n. 170, best 105), ma pare ormai avviato verso una carriera più fortunata. In coppia hanno preso parte a una decina di eventi, ma non sono mai riusciti a replicare il successo del 2016 con il titolo ATP di Stoccolma. C’è anche un fratello del 2007, attivo nel circuito junior e dal nome promettente che compare come coach nell’apposito spazio della pagina ATP di Elias. Vedremo se Rafael saprà superare i fratelli.
Stefanos Tsitsipas dà il suo abbondante contributo alla classifica di fratellanza, ma il n. 3 del mondo non è aiutato da Petros, n. 1396 (best 727). Una sola partecipazione nel Tour (con netta sconfitta) per il classe 2000, grazie alla wild card di due anni fa a Marsiglia nella classica situazione win-win e ancora win: Stef si specchia nei generosi panni del fratello maggiore, il torneo ottiene la partecipazione di chi altrimenti non potrebbe permettersi, Petros gioca con i grandi. Insomma, vincono tutti. Magari non sul campo: Petros racimola due game con Davidovich Fokina e perde il doppio con il fratello che in singolare viene battuto al secondo incontro. Una ventina di apparizioni in doppio per i due, tra cui quattro nei Major con la ciliegina di un secondo turno. Stef ha anche un altro fratello, il diciassettenne Pavlos, e una sorella, la quattordicenne Elisavet (Tsitsipa), ancora impegnati nel circuito junior dell’ITF.
A pagina 2 – Sono sempre i peggiori ad andarsene
evidenza
L’ultimo match di Sania Mirza, la regina del tennis indiano che ha superato pregiudizi e convenzioni
Dopo 6 Slam e 43 titoli conquistati, l’ex numero uno del mondo in doppio ha concluso la sua carriera al fianco di Madison Keys a Dubai

Dopo essere andata vicina ad arricchire la sua collezione di titoli dello Slam poche settimane fa a Melbourne, Sania Mirza ha disputato l’ultimo incontro ufficiale della sua carriera. Lo ha fatto a Dubai che per lei è diventata casa da più di dieci anni e dove ha fondato due accademie di tennis, alle quali ne va aggiunta un’altra aperta nella sua terra natìa a Hyderabad. Qui ha iniziato a prendere confidenza con la racchetta all’età di 6 anni, dopo aver visto i cuginetti divertirsi sui campi da tennis durante una vacanza di famiglia negli Stati Uniti. A casa in India, invece, i campi per giocare erano una rarità assoluta e Sania ha raccontato che la superficie su cui ha mosso i primi passi non era nessuna di quelle su cui si giocano i tornei internazionali: niente terra, niente erba e nemmeno cemento, ma sterco di vacca. Da lì è partito il viaggio di una bambina che, vincendo e rompendo schemi consolidati, è diventata l’indiscussa regina del tennis indiano.
“In quanto donne, nella società indiana ci viene data una lista di cose che possiamo e non possiamo fare. Nessuno pensa a incoraggiarci e sostenere i nostri sogni”. Quando Sania ha partecipato ai primi tornei della sua vita, il tennis non era certo uno sport sconosciuto in India. Il movimento maschile aveva già una buona tradizione alle spalle grazie ai Krishnan (padre e figlio) e ai fratelli Amritraj. Di lì a poco sarebbero poi venuti fuori anche altri giocatori importanti come Bhupathi e Paes. Mancava, in ogni caso, un sistema in grado di accompagnare in modo sistematico i giovani e, soprattutto, per le donne un percorso simile non era nemmeno lontanamente ipotizzato. Sania, però, ha potuto contare sull’appoggio dei genitori e in particolare sull’esperienza di papà Imran, editore di una rivista sportiva e giocatore di cricket. Solo così il suo talento è potuto sbocciare in un contesto se non ostile, di sicuro impreparato.
Ad 8 anni Sania fece suo un torneo statale battendo in finale un’avversaria che aveva il doppio della sua età. Indubbiamente, il livello in patria non poteva essere paragonabile a quello che avrebbe incontrato in campo internazionale. Ma Sania si dimostrò in grado anche di fare il grande salto: nel 2003, a 18 anni, vinse il torneo di doppio junior a Wimbledon e fu questo il presupposto per un’ascesa rapidissima. Nel 2005 disputò a Melbourne il suo primo torneo dello Slam tra le grandi: era la prima donna indiana a farlo e arrivò fino al terzo turno, dove fu battuta da Serena Williams. Nello stesso anno, poi, raggiunse gli ottavi allo US Open. Questo è rimasto il suo risultato migliore nei major in singolare (il best ranking, risalente al 2007 è invece il numero 27), anche perché decise di dedicarsi sempre di più al doppio (fino a farlo a tempo pieno dal 2013), ricavandone grandissime soddisfazioni.
Ha infatti conquistato 6 titoli dello Slam, di cui tre in misto, e un totale di 43 tornei nella specialità. Questi traguardi l’hanno portata al primo posto della classifica riservata alle doppiste e nel novero delle migliori interpreti della storia della disciplina. Il suo marchio di fabbrica è sempre stato un dritto potentissimo, unito però all’eleganza dei movimenti e dei colpi al volo. Proprio per questo motivo, la coppia che ha formato insieme a Martina Hingis tra il 2015 e il 2016 (vincendo tre Slam e 14 tornei in totale) è stata una delle più forti e piacevoli da guardare di sempre.
Come ha spiegato lei stessa in uno speciale che Wimbledon le ha dedicato lo scorso anno, però, Sania sentirebbe di aver completato il suo percorso non tanto per le vittorie ma se ci fosse “anche solo una persona che è stata ispirata dalla mia storia”. Parte integrante di questa storia è anche la maternità nel 2018. L’ex numero uno del mondo in doppio ha raccontato che fino a quando non è diventata madre, le chiedevano continuamente quando lo avrebbe fatto: “C’erano giornalisti che mi facevano questa domanda nella conferenza stampa dopo una vittoria Slam, con il trofeo appoggiato sul tavolo. Sembrava che non potessi essere una donna completa fino a quando non fossi diventata madre, a prescindere dai risultati sul campo”. Dopo aver partorito Izhaan, Sania è tornata a giocare anche per dimostrare che famiglia e carriera non si devono escludere a vicenda e quindi, ancora una volta, per ispirare altre donne.
Critiche e minacce non sono ovviamente mancate nella sua carriera e vita privata da donna libera e pronta a tutto per realizzare i suoi obiettivi. Nel 2005 fu oggetto di una fatwa emessa da un gruppo di teorici musulmani che consideravano il suo abbigliamento in campo contrario ai precetti islamici. Nel 2010, invece, fu molto chiacchierato in India il suo matrimonio con il giocatore di cricket pakistano Shoaib Malik. Il partito nazionalista indù di destra, il BJP, chiese a Mirza di “riconsiderare” la sua decisione di sposare un pachistano, mentre nel Paese del marito in molti celebravano queste nozze come una sorta di conquista del Pakistan ai danni dell’India. In realtà era solo un altro momento della vita di Sania in cui le sue personali priorità hanno prevalso sulle convenzioni culturali e sociali. E’ questa l’eredità che ci lascia, all’interno di una cornice fatta di successi tennistici, passanti di dritto e volée vincenti.
ATP
ATP Rotterdam: Omar Camporese nel 1991 unico italiano vincitore in Olanda, fu il primo titolo del bolognese
Prima di Jannik Sinner, solo il bolognese aveva raggiunto l’ultimo atto. Memorabile la finale vinta contro l’allora n. 3 mondiale Ivan Lendl. L’azzurro rimontò vincendo due tie-break consecutivi con tanto di match point cancellato nel terzo set

Nella storia del torneo di Rotterdam (qui l’intero albo d’oro), denominato ufficialmente con la dicitura ABN AMRO Open e appartenente alla categoria dei ‘500’, solo un tennista azzurro si era spinto sino all’ultimo atto prima di Jannik Sinner – come abbiamo già ricordato anche sulla nostra pagina Instagram. Si tratta di Omar Camporese, al quale non solo l’impresa nel 1991 riuscì ma addirittura fu enfatizzata dalla conquista del titolo. Per il bolognese, quella in terra olandese fu la seconda finale della carriera a livello ATP; la prima l’aveva disputata un anno prima vicino casa a San Marino perdendola contro l’argentino – nativo di Tandil come Juan Martin Del Potro – Guillermo Perez-Roldan. Successivamente, l’ex n. 18 ATP – suo best ranking – ottenne fino al termine della sua vita di professionista della racchetta – che appese nel 2001- una sola altra finale: nel febbraio del 1992, quando a Milano sconfisse Goran Ivanisevic alzando al cielo meneghino il secondo ed ultimo trofeo della sua carriera.
All’inizio dell’evento orange, Omar era n. 54 del ranking mondiale: vinse il primo turno in tre parziali contro il tedesco Eric Jelen, a cui invece seguirono due successi senza perdere set ai danni dell’austriaco Alex Antonitsch e del ceco Karel Novacek. Dopodiché fu la volta della grande battaglia in semifinale con l’idolo di casa Paul Haarhuis, che attualmente ricopre il ruolo di Capitano di Coppa Davis dei tulipani, sconfitto al tie-break del terzo.
In finale ad attenderlo, c’era il n. 3 del mondo e prima testa di serie del tabellone Ivan Lendl, già vincitore delle sue 8 prove dello Slam: l’ultima nel 1990 in Australia contro Stefan Edberg. Perso il primo set, Camporese vinse il secondo 7 punti a 4 nel sempre dirimente dodicesimo gioco ed infine dopo aver anche cancellato un match point sul 5-4 e servizio; si aggiudicò pure il tie-break finale – ancora per 7-4 – che suggellò il suo primo storico trionfo in carriera sublimato dall’essersi dimostrato superiore nel confronto, valevole per il titolo, con uno dei mostri sacri della storia di questo sport.
Ma soprattutto, quello storico successo italico maturato a Rotterdam 32 anni fa assunse connotati emotivamente ancora più intensi grazie alle voci che accompagnarono le gesta di Camporese nel suo straordinario cammino e che fanno riecheggiare tutt’oggi il ricordo delle emozioni vissute nel cuore di quelli appassionati che ebbero la fortuna di poter assistete all’evento o che l’hanno recuperato successivamente tramite la piattaforma di YouTube – per quei pochi che non l’avessero fatto, potrete rimediare a fine articolo -. Al commento, infatti, di quell’incredibile finale contro il campione ceco in postazione telecronaca, rigorosamente dal vivo sul posto e non da tubo – come si suol dire in gergo giornalistico – per Tele+ c’erano il Direttore di Ubitennis Ubaldo Scanagatta e il compianto Roberto Lombardi.
(match completo con commento lo trovate nel video in basso)
I followers Instagram di Ubitennis potranno seguire il “Punto di Ubaldo” in un minuto a caldo appena conclusa la finale odierna.
Circa 30 minuti dopo la conclusione, Ubitennis pubblicherà sul sito e sul canale YouTube di Ubitennis un commento più articolato del direttore.