Palla e racchetta e la tela è perfetta (Clerici). Panatta: “Il mio tennis era pop. Che poesia la volée” (Jannello)

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Palla e racchetta e la tela è perfetta (Clerici). Panatta: “Il mio tennis era pop. Che poesia la volée” (Jannello)

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Palla e racchetta e la tela è perfetta (Gianni Clerici, La Repubblica – Robinson)

Nel lavorare a questo volume, non ho potuto dimenticare 500 anni di tennis, secondo il mio amico Enzo Biagi “l’unico libro italiano tradotto non meno di Pinocchio e dei Promessi sposi“, e cioè in sette lingue. Mi sono domandato più volte se l’inizio di un volume, che tenti di percorrere un’incompleta storia del tennis per immagini, non dovesse seguire al contempo le stesse tracce, spesso meno visibili, spesso perdute. Credo sia saggio, e insieme doveroso far sì che l’aficionado privo di 500 anni di tennis non si trovi a sfogliare un libro spesso affascinante, ma confuso. Ecco, dunque, i commenti del Tennis nell’arte, che sono in parte simili a quelli più specialistici di 500 anni di tennis. Non si tratta soltanto di una scelta di belle immagini, in parte famose, ma di un mio diario e insieme delle attendibili annotazioni storico artistiche di Milena Naldi. Il primo Carrà che attrasse la mia attenzione, per la presenza di una racchetta, fu quello chiamato La musa metafisica, del 1917, alla Pinacoteca di Brera. Mentre pensavo che la pittura contemporanea aveva mostrato poca curiosità per il tennis, il mio amico Giorgio Soavi mi disse che avevo torto, almeno riguardo a Carrà. E mi mise sulla via del ritrovamento di altri tre quadri raffiguranti personaggi armati di racchetta: Il figlio del costruttore (1917-21, collezione privata), La figlia dell’Ovest (1919, al Museo di Düsseldorf) e L’ovale delle apparizioni (1918, alla Galleria di arte moderna di Roma). Ho letto un pochino sul grande Carrà e ne ho ammirato la capacità di variare stile e pensieri nel Manjfesto dei pittori futuristi. Ciò che non sono stato in grado di trovare, da appassionato dilettante di pittura, è il perché di una ripetizione di quella che è, in fondo, la stessa figura, sicuramente simbolica: ma simbolica di cosa? Non c’è, in quel che ho letto sul pittore, nulla che riguardi il tennis. Esiste una vivissima somiglianza fra le racchette impugnate dalle tre muse, racchette di forma allungata. Le corde delle racchette delle muse ricordano quelle delle prime racchette di fine Quattrocento, mentre quella del Figlio del costruttore sembra contemporanea. Perché? Le palle sono prive di connotazioni che ci diano aiuto. Nemmeno gli sfondi ci aiutano, e le tre case che compaiono nei quadri delle muse non sono assolutamente individuabili. A questo punto non è facile chiedersi: Carrà era un tennista, o almeno un aficionado? E perché, se non lo era, tanta insistenza sullo stesso soggetto? Sarei lieto che un appassionato di pittura e insieme di tennis sapesse dirmelo, mentre mi domando se un simile dubbio ha qualcosa a che fare con i quattro magnifici dipinti. A loro modo, misteriosi. [SEGUE]

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Panatta: “Il mio tennis era pop. Che poesia la volée” (Riccardo Jannello, La Nazione)

Il più grande tennista italiano di sempre, ma anche un personaggio della vita mondana, della tv, della radio e ora anche del cinema. Adriano Panatta, classe 1950, romano, si racconta così.

Adriano, il tennis è musica, ma quale?

Ai miei tempi, negli anni `70, era pop, i Beatles, Jimi Hendrix, rock e melodia. Ora non ci si capisce più niente, è tutto così elettrico, così metal…

Lei ammira molto Federer…

Sì, lui è un misto di Tony Bennett, McCartney, i Pink Floyd. Uno spettacolo. Federer mi stupisce ancora. Nadal tira forte e ha un grande agonismo, Djokovic recupera tutto, ma il loro gioco è noioso.

Il tennis moderno non le piace proprio?

Giocano bene, ma sono marcantoni che picchiano forte. Ai miei tempi era diverso, vuoi mettere la poesia di una volée…

Ai suoi tempi c’era Nastase: che tipo era?

Stralunato e mattarello, gli piaceva fare casino, ma era divertente e in fondo ho sempre pensato fosse un ragazzo molto buono.

Lei nel tennis italiano ha preso l’eredità di Nicola Pietrangeli. Che cosa era per lei: un maestro o un rivale?

Niente di questo. Nicola è stato un personaggio importante, ma le nostre carriere si sono sovrapposte solo per due anni, quando io ne avevo venti. Siamo amici, anche se abbiamo caratteri diversi. Certo lui è polemico, ma è una brava persona.

E Fognini?

Confesso di seguirlo poco, ma è un bel giocatore che avrebbe i colpi per stare nei primi dieci al mondo. Le sue defaillance sono caratteriali, a volte il suo atteggiamento è davvero indisponente.

Chi è il nuovo Panatta?

Non può esistere, noi giocavamo a un certo ritmo, ora va tutto più veloce non c’è nemmeno il tempo per pensare, solo Federer lo fa.

Qual è stata la sua più bella partita?

Penso la semifinale di Parigi del ’76 con Dibbs, ho giocato meglio che in finale, mi entrava tutto. Ma anche a Flushing Meadows con Connors, nonostante abbia perso.

Che cosa ha dato e che cosa ha tolto il tennis ad Adriano Panatta?

Mi ha dato tutto. Immense soddisfazioni, il successo, la possibilità di girare il mondo facendo ciò che mi piaceva. Forse mi ha tolto un po’ di amici ma soprattutto la vicinanza dei figli quando erano piccoli e io giocavo quasi tutto l’anno.

Le piace Panatta attore?

Mi piace molto fare la tv, l’attore è una parola grossa. Mi sono divertito, quello sì, a fare me stesso nella “Profezia dell’armadillo”. Ed ero davvero io, non ho recitato, e quello che ho detto, che i giovani pensano solo al risultato senza guardare al gioco e senza capire l’armonia delle cose, lo sottoscrivo al cento per cento.

Che fa di bello ora Panatta?

Il nonno, di cose ne già ho fatte tante, anche l’offshore, ora non posso neppure correre in macchina perché dopo i 65 anni non danno più la licenza. E sto bene così.

Come nonno com’è?

Contento, è una bellissima esperienza, tanto tutti i problemi ce l’hanno i genitori.

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