Thiem-Nadal, la finale di oggi sulla stampa italiana (Scanagatta, Clerici, Crivelli) e tutto su Ashleigh Barty regina di Parigi (Crivelli, Grilli, Azzolini)

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Thiem-Nadal, la finale di oggi sulla stampa italiana (Scanagatta, Clerici, Crivelli) e tutto su Ashleigh Barty regina di Parigi (Crivelli, Grilli, Azzolini)

La rassegna stampa di domenica 9 giugno 2019

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Thiem-Nadal da replay per Parigi (Ubaldo Scanagatta, La Nazione)

E’ davvero una strana storia quella dell’australiana Asleigh Barty che (6-1 6-3 in finale alla 19enne Vondrousova, troppo emozionata) ha vinto a 23 anni il titolo del Roland Garros, prima aussie dopo la leggendaria campionessa di 24 Slam Margaret Court nel ’73. Testa di serie n. 8, non aveva mai vinto un torneo sui campi rossi. Stranissima ed inconsueta storia la sua perché enfant-prodige a 15 anni quando aveva vinto Wimbledon junior, con 3 anni di anticipo sulle avversarie, e poi a 16 aveva raggiunto 3 finali adulte di Slam in doppio nel 2013 (6 anni fa). A quel punto, la ragazzina non se l’era sentita di sopportare tutte le aspettative che Down Under il suo continente, così ricco di tradizioni e leggende tennistiche (Court, Evonne Goolagong, Sedgman, Hoad, Rosewall, Laver, Newcombe, Emerson, Rafter e Hewitt) le aveva caricato sulle spalle. Così la piccola Asleigh aveva addirittura smesso di giocare, attaccando la racchetta al chiodo per quasi due anni per dedicarsi invece al cricket (!) dove sarebbe diventata una professionista ma, a suo dire, «molto scarsa!». Tre anni fa la convinsero a ripensarci. Poche partite ed eccola n. 625 WTA, dopo essersi ripresentata umilmente nel circuito, con quel suo stile di gioco così diverso da tutte le altre tenniste, rovescio a due mani ma anche a una, colpi mai uguali e spesso anche tagliati, servizio incredibilmente efficace grazie a una tecnica fluida e particolare che, pur non essendo lei mancina ricorda un pochino quello di Martina Navratilova che però se ne serviva per attaccarsi alla rete dove lei invece va assai di rado. Ma nel torneo ha messo a segno 38 ace, tanti anche per una ragazzona d’un metro e ottanta. Lei, invece, è appena 1,66. «Un viaggio incredibile quello di questi tre anni!» ha detto lei, fino a ieri vittoriosa in soli 4 tornei. Aveva chiuso il 2017 a n.17, il 2018 a n.15. Da domani sarà n.2. Vinca o perda oggi contro Nadal, con il maiorchino che punta al 12° Roland Garros, resterà certamente n.4 l’austriaco Dominik Thiem in un bis della finale di un anno fa. Thiem ha battuto alla fine di un match caratterizzato da un vento impossibile per un buono spettacolo con tre piovaschi e 4 atti fra venerdì e sabato e in 5 set (62 36 75 57 75 in 4h e 13m), il n.1 del mondo Novak Djokovic che aveva vinto gli ultimi 3 Slam. Con Nadal i precedenti sono 8-4 per lo spagnolo, ma Thiem lo ha battuto una volta sulla terra rossa in ciascuno degli ultimi 4 anni. […]

Thiem in finale, gli offrii una cena ma rifiutò (Gianni Clerici)

Dopo il match vinto da Thiem su Djokovic sono stato raggiunto dalla pseudo troupe di una televisioncina svizzera, formata in realtà da 2 giovani, uno dei quali mi ha chiesto: «Ma lei Dottore, con tutta la sua esperienza, se l’aspettava?». «Non dico di esserne stato certo, ma dopo l’inizio di venerdì mi era venuto un dubbio. Lo stesso che mi era già venuto l’anno passato, vedendo che, a Parigi, Thiem non si trovava male. Ricordo che nel 2016 era entrato nei primi 10 raggiungendo la semi al Roland Garros, e l’anno scorso era arrivato in finale». «Cosa pensa della partita di oggi?». «Penso che con un dirittone così liftato e un rovescio tanto tagliato Djokovic si sia trovato male. Già si era scoperto in crisi alla prima interruzione per pioggia, sul 3-1 nel terzo. E oggi sul 4-1 nel quarto». «E cosa avrebbe dovuto fare Djoko secondo lei?». «Giocare più lungo e più regolare. Sommergerlo sul rovescio». «Lei se lo immaginava?» «Ho visto per la prima volta Thiem nel 2013, a Como, in finale contro Carreño Busta, quando era allenato da Bresnik. Mi piacque non solo per il liftone di diritto, ma perché rifiutò una cena che volevamo offrirgli. Disse che doveva prendere il primo treno, per andare a vincere il torneo di Genova. Ora, sei anni dopo, rischia di vincere Parigi».

Il volo di Thiem (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Provaci ancora, Domi. C’è una promessa da esaudire, maturata giusto un anno fa all’ombra di una sconfitta bruciante: «Mi rivedrete ancora qui, ma per vincere». L’ora è scoccata. Una sfida immane al sovrano degli 11 trionfi al Roland Garros, la rivincita con sua altezza Nadal (era dal 2006-08 che non si replicava lo stesso epilogo), steso comodo sul divano della stanza d’albergo mentre l’austriaco vanifica dopo oltre quattro ore spalmate in due pomeriggi (1h28′ e 2h45′) i sogni di Grande Slam di Djokovic. Affrontare un match che garantisce l’immortalità tennistica portando sulle spalle le fatiche di quattro giorni di fila sui campi (mentre Rafa ha giocato solo martedì e venerdì) aggiunge sicuramente tormento alla speranza, eppure Dominic è convinto di essere l’uomo giusto per tentare di sovvertire dopo 14 anni le gerarchie della terra parigina: «Non potrò permettermi di essere stanco». Lo aiuteranno l’adrenalina e la consapevolezza cementate dalla vittoria contro Nole, un test di maturità superato con autorevolezza, perché non era facile gestire tre interruzioni (due venerdì e un’altra ieri di quasi un’ora), la pressione del vantaggio al rientro in campo dopo la notte e condizioni ambientali ancora difficili per il vento. Dominic merita il risultato perché è più aggressivo, muove meglio la palla e costringe il serbo a soluzioni estemporanee per sottrarsi alla pressione di pesantissimi colpi da fondo, ma le smorzate e le discese a rete del Djoker finiscono spesso per esaltare i passanti dell’austriaco. Il numero quattro del mondo trema soltanto sul 5-4 del quinto set, quando si procura due match point e li spreca con due rovesci in slice orribili, prima di buttare via il game con altre due sciocchezze: «Lì sono stato troppo passivo, la mia mente si è aperta di nuovo quando ho tenuto il servizio per andare 6-5». Dopo il fulminante dritto vincente che gli regala il terzo successo contro Novak, Thiem vorrebbe inginocchiarsi, ma abbozza solo il gesto, forse inconsciamente convinto di tenerselo per l’apoteosi odierna. Certo, quel diavolo di Rafa al Roland Garros ha perso appena due volte (Soderling nel 2009 e Djokovic nel 2015) con 92 partite vinte e quando ha giocato la finale ha sempre sollevato la Coppa dei Moschettieri. Insomma, è il padrone indiscusso del torneo, eppure Domi lo ha soggiogato sei settimane fa a Barcellona, nell’ultimo confronto diretto e in carriera, sul rosso, lo ha già sconfitto quattro volte, secondo solo a Nole (che è a quota sette) tra gli avversari più vincenti contro Nadal sulla sua superficie prediletta. «Come posso batterlo? Per adesso non lo so – confessa l’austriaco – anche perché a Parigi non ci sono mai riuscito. Però contro di lui ho giocato tante partite eccellenti e ho dimostrato di poterlo battere anche sulla terra. Sicuramente dovrò entrare in campo con l’animo di chi vuole vincere, senza paura. E non avvertirò neppure troppe tensioni, in fondo non ho nulla da perdere contro un rivale così grande». […]

Barty regina aborigena. Parigi è australiana 46 anni dopo la Court (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Party Barty. Un assolo di Ashleigh. Smorzate, rovesci tagliati, le classiche volée di scuola australiana giocate dalla riga del servizio e anche una battuta che fa male (38 ace a fine torneo), alla faccia del metro e 66 scarso: in 70 minuti l’Australia torna padrona del Roland Garros 46 anni dopo Margaret Court e lo fa con la ragazza del cricket che a 18 anni stava pensando di lasciarsi tutto alle spalle per godersi una vita normale lontana da pressioni insopportabili. La finale è senza storia, la favorita della Evert e della Sabatini fa emergere tutti insieme, dopo un tabellone oggettivamente in discesa, i limiti tattici e di personalità della teenager ceca Vondrousova, incapace di opporsi alle traiettorie sempre diverse della Barty, che cerca nel tennis vario e d’attacco la via per imporre il proprio gioco. Una lezione che dura appena 70 minuti e manda alle stelle Ashleigh: «Tutte le congiunzioni astrali si sono allineate, ho vissuto due settimane incredibili. Certo, quando sei bambina coltivi dei sogni, ma non avrei mai immaginato di ritrovarmi qui con la Coppa Suzanne Lenglen». Da domani, la Barty sarà numero due del mondo, una posizione che un’australiana non occupava dal 1976. Non a caso, si trattava di Evonne Goolagong, la più grande tennista di sempre con radici aborigene, le stesse della fresca vincitrice del secondo Slam stagionale. Fu proprio lei, nel 2010, a rivelare al mondo l’esistenza di una fanciulla che sarebbe diventata fortissima: l’anno dopo Ashleigh avrebbe vinto Wimbledon tra le juniores. La sua è una storia che comincia come tante altre: i genitori che la portano al circolo sotto casa a cinque anni, il mentore (Jim Joyce) che la accoglie nel gruppo degli allievi anche se non è ancora in età. A nove anni si allena con quelli di 15, a 12 scambia con gli adulti. Ma dietro un talento sconfinato, si cela una personalità sensibile e complessa, con sfumature depressive: la sera del trionfo londinese del 2011 non va neppure al ballo e sale sul primo aereo verso casa. Con l’esordio nel circuito delle big, va di nuovo in tilt e nel 2014 abbandona il tennis per darsi al cricket. Torna dopo due anni, una risalita impetuosa. […]

Ridi, Barty, ridi. E’ terra di gloria (Massimo Grilli, Corriere dello Sport)

«Basta con il tennis, non ce la faccio più. Non è una decisione facile, ma è la migliore. E’ diventato un incubo, non era quello che volevo. Mi sento un robot, è successo tutto troppo in fretta. Sono passata dall’essere una sconosciuta a vincere Wimbledon. Ora voglio una vita da adolescente normale». E’ la fine del 2014 quando Ashleigh Barty, allora 18enne, aborigena del Queensland, pronuncia queste parole, annunciando di volersi prendere una pausa dalla racchetta, una decisione che somigliava tanto a un ritiro. A distanza di cinque anni, dopo aver maramaldeggiato sulle velleità e le ingenuità della Vondrousova, 19 anni e un probabile futuro nella top ten (domani salirà al numero 16), la vediamo – neo campionessa di Francia – stringere tra le braccia la coppa Suzanne Lenglen appena ricevuta da Chris Evert, in volto un sorriso enigmatico, come se non avesse ancora scelto tra un bel sorriso e pianto liberatorio. Non è stata una rincorsa facile, quella di Ashleigh, quasi costretta, dopo i successi giovanili e le prime frustrazioni tra le professioniste, a cercare sollievo negli antidepressivi e poi, per sua fortuna, nel cricket, dove fa la sua bella figura come battitrice nella squadra delle Brisbane Heat. Nel 2016, dopo quasi un anno e mezzo di assenza dai campi, è pronta a tornare al tennis, e ritrovarsi al numero 623 non la spaventa. Chiude l’anno al n. 325, nel 2017 vince a Kuala Lumpur ed entra nelle prime venti, nel 2018 trionfa a Nottingham e Zhuai, quest’anno batte la Halep, numero 1 del Mondo, a Sydney mentre agli Open d’Australia si ferma nei quarti ed è prima nel super torneo di Miami. Gioca anche il doppio, tanto, quasi per recuperate il tempo perduto, e si impone agli Open degli Stati Uniti (con la Vandeweghe) e due volte al Foro Italico (con Schuurs e quest’anno con l’Azarenka). A Parigi arriva da numero 8 del ranking, non è tra le favorite ma fa strage di americane – ne batte cinque in sette partite – perde solo due sete domina anche una finale senza storia, chiusa in appena 70 minuti con 27 vincenti contro i 10 della sua avversaria, una partita ravvivata comunque dalle genialate del suo tennis classico, fatto di un dritto che fa male e soprattutto di un rovescio – da giocare sia bimane che a una mano – capace di spingere ma anche di accarezzare quando serve, con smorzate e “tagli” d’altri tempi. Ieri contro la Vondrousova è scattata velocemente sul 4-0 ed anche nel secondo set è partita con un break di vantaggio, mentre la povera Marketa non riusciva proprio ad esprimere il suo gioco e faticava terribilmente a tenere il servizio. «E’ incredibile, sono senza parole, ho giocato la partita perfetta oggi – le prime parole di Barty dopo il trionfo – sono così orgogliosa di me e del mio team, sono state due settimane incredibili». Da domani occuperà la posizione numero 2 nel ranking Wta, alle spalle di Osaka.

Barty è sorpresa ma ha colpi da big (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Ashleigh Barty ha il sorriso stupito di chi non ci crede. Resta in silenzio, non si rotola per terra, non mostra i pugni al cielo, non invia baci al pubblico. Sorride, e basta. E si guarda intorno, timida, con una Coppa fra le mani che la fa sentire quasi inadeguata. Ha 23 anni, e nella sua vita da tennista ha già vissuto tutte le esperienze possibili, persino il ritiro. Accadde agli inizi della carriera, dopo una stagione trascorsa fra le professioniste che servì a mettere in luce la sua dote più bella, un gioco che sembra venire da lontano, colpi puliti e ben portati, senza strappi e senza mugolii. Un filo di depressione, sempre quel senso di inadeguatezza a tenerla in apprensione. Fu l’amica Casey Dellacqua ad aiutarla a riemergere, e riportarla nel gruppo. Oggi, Ashleigh è la tennista che non gioca mai un colpo uguale all’altro, una rarità. Un’australiana a Parigi, 46 anni dopo. Era il 1973 quando Margaret Court vinse il titolo, per poi andare alla conquista del Grand Slam. Ora la Coppa va ad Ashleigh, che non ha pretese così alte. «Era un sogno, ed eccomi qua a vivere da protagonista una realtà che ritenevo impossibile». Ha battuto la ceca Marketa Vondrousova in una finale a senso unico. Lei sì ancora inadeguata per un simile palcoscenico. «Ha 19 anni, è così giovane», le va incontro Ashleigh. Lei lo sa che a quell’età tutto è bellissimo e insieme difficilissimo. Lo ha vissuto. Conosce il fluire della vita, forse ci stupirà ancora.

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