Wozniacki e la discreta ricerca di un ruolo da protagonista

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Wozniacki e la discreta ricerca di un ruolo da protagonista

Numero 1 senza Slam (fino al 2018), comprimaria di lusso. Ha saputo cogliere la sua occasione per prendersi le meritate luci della ribalta. E scegliere il momento per ritirarsi

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Caroline Wozniacki - Australian Open 2018 (foto @Sport Vision, Chryslène Caillaud)
 

Il ritiro di Caroline Wozniacki: dirà basta dopo l’Australian Open 2020

Il tennis è fatto anche di sliding doors. La finale del singolare femminile dell’Australian Open 2018 è stato uno di quei momenti in cui si aveva la sensazione che le carriere delle due tenniste in campo potessero girare a seconda del risultato. In cui un rovescio vincente, una palla corta calcolata male, un net beffardo potevano cambiare la percezione che il grande pubblico ha di due persone ancor prima che atlete. 

In quel match si affrontavano Simona Halep e Caroline Wozniacki, rispettivamente n.1 e n.2 del mondo. A dividerle un anno alla nascita: Wozniacki è nata nel 1990 e Halep nel 1991. Ad accomunarle, almeno fino a quel momento, l’etichetta di ‘perdenti di lusso’. Bruciando le tappe, la danese si era trovata appiccicata addosso questa nomea a soli vent’anni quando faceva incetta di vittorie e titoli nel tour ma non riusciva ad affermarsi negli Slam. Al primo exploit nella finale dello US Open 2009, erano seguite una serie di delusioni nei Major. Erano gli anni in cui Serena Williams aveva già cominciato a fare selezione di tornei e a vincere solo quelli che contavano. Erano gli anni in cui in giro c’era ancora una Sharapova degna competitor, oltre a Clijsters, Henin e Li Na. Wozniacki si trovò ad essere così una numero una sulla carta, premiata dai meccanismi del ranking più che dall’effettivo valore dimostrato nei tornei più importanti. 

Halep arrivava a quella finale di Melbourne esattamente con quella spada di Damocle. La numero uno slamless. L’ennesima dimostrazione che in una WTA senza Serena Williams tutte possono raggiungere la prima posizione mondiale. Compresa lei che aveva perso sulla amata terra rossa una clamorosa finale del Roland Garros nel 2017 contro la semi-sconosciuta lettone Jelena Ostapenko, dopo essere stata in vantaggio per un set a zero.

Per questo in ballo in quel match sulla Rod Laver Arena c’era qualcosa di più di uno Slam. Il primo Slam, quello agognatissimo, quello che può finalmente spazzare via ogni ragionevole dubbio sulla tua carriera, quello che da comprimaria ti fa diventare protagonista. A dispetto di questa tensione, palpabile, e della posta in palio, enorme, ne venne fuori una partita magnifica. Combattuta dal primo all’ultimo punto. Quasi tre ore di lotta. Alla rabbia e alla pressione senza quartiere dei colpi di Halep, Wozniacki contrapponeva pazienza e una strenua difesa. La porta girevole del tennis permise alla danese di uscirne vincitrice, per una volta quando contava davvero.

Simona Halep e Caroline Wozniacki – Australian Open 2018

“Nessuno mi potrà più chiedere quando vincerò il primo Slam”, affermò al termine del match, come se si fosse liberata di un peso. Lo stesso che continuava ad opprimere la sua avversaria sconfitta. Halep aveva concluso l’incontro ancora in lacrime, come a Parigi, e senza alcuna più alcuna energia, fisica e psicologica, tanto che sarebbe stata trasportata in ospedale per dei controlli. “Sono sicura che sia un momento molto duro per lei”, sottolineò Wozniacki. E lo sapeva perché anche lei ne aveva vissuti.

La differenza è che quasi nessuno se n’era accorto. A conferma degli stereotipi riguardo la freddezza nordica, anche se tutta la sua famiglia è polacca, Caroline ha saputo per lo più celare le sue emozioni. Quelle negative in particolare. Le ripetute e cocenti delusioni non hanno mai avuto quei contorni drammatici, che, ad esempio, hanno avuto nel caso della sua quasi coetanea rumena. Limitati i gesti di stizza, poche le lacrime versate di fronte al pubblico.

Di quanti pugni ai muri abbia dato e quanti fazzoletti abbia consumato negli spogliatoi non se ne sa nulla. Quello che si sa è che al termine di ogni sconfitta si avvicinava verso la rete e stringeva la mano dell’avversaria di turno, quella dell’arbitro e se ne andava, seguendo il grande copione del tennis. Che l’ha vista in tante occasioni importanti recitare la parte si sconfitta in un film non suo. E queste sue proverbiali grazia ed eleganza l’hanno resa molto apprezzata da tante colleghe. Inclusa Serena, una che di amiche non se n’è fatte tante sul circuito, per via dei suoi 23 Slam ma anche di una autostima debordante. Con Caroline però c’è stata vera amicizia, con inviti ai reciproci addii al nubilato e matrimoni. Con un bell’abbraccio al termine della finale degli US Open 2014, che segnava comunque la fine della crisi di Wozniacki. Come non amare una così onorevole perdente?

Caroline Wozniacki e Serena WIlliams – Finale US Open 2014

Che poi, all’indomani dell’annuncio del ritiro, anche questo aggettivo di perdente andrebbe ridiscusso. In 14 anni di carriera, Caroline ha conquistato 581 vittorie in totale nel tour e alzato al cielo ben 30 trofei. Per fare un paragone, Halep al momento è indietro di 200 lunghezze circa come match vinti e 11 come titoli. Non è per nulla detto che alla fine dei conti, in queste due voci, la riesca a superare. Ma probabilmente verrà percepita come molto più vincente nell’immaginario collettivo, anche grazie alla schiacciante vittoria in finale quest’anno ai Championships. A questi successi, Wozniacki aggiunge la conquista delle WTA Finals del 2017 e il ruolo da portabandiera per la Danimarca alle Olimpiadi di Rio 2016. E viene da dire che ce ne vorrebbero molte di più di perdenti così.

Ma probabilmente Caro non vuole entrare nuovamente in un dibattito che ha segnato e, in qualche maniera anche condizionato, la sua carriera. È a posto così con il tennis e con il circuito. Ha dato tutto quel che aveva durante gli allenamenti e le partite, con discrezione e senza clamore. Ha ricevuto molto, anzi moltissimo, anche in termini finanziari (il totale dei premi vinti a fine 2019 ammonta a $35.218.415), con discrezione e senza clamore. Ora a 29 anni, con le nuove generazioni di tenniste che emergono, un’artrite reumatoide diagnosticata oltre un anno fa che non le dà pace e una famiglia da costruire con l’ex cestista statunitense David Lee (sposato lo scorso giugno) appende la racchetta al chiodo. Le etichette sono state tutte tolte, il suo film da protagonista lo ha girato alla fine. È il momento giusto di voltare pagina. E siamo sicuri che lo farà con discrezione e senza clamore, come sempre. 

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