Le superfici non sono diventate tutte uguali, lo dicono i dati

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Le superfici non sono diventate tutte uguali, lo dicono i dati

Smentiamo un luogo comune. Negli ultimi dieci anni il gap di velocità tra campi in cemento e campi in terra non è diminuito. L’erba di Wimbledon invece è rallentata molto

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Novak Djokovic - Wimbledon 2019 (foto via Twitter, @wimbledon)
 

Lo dicono i tennisti, lo dicono gli allenatori. Da qualche anno a questa parte i campi più importanti del tennis sono diventati molto più simili in termini di velocità. Il cemento in particolare sarebbe diventato molto più lento. Alcuni tornei “sul veloce” ormai paiono effettivamente quasi lenti come quelli in terra rossa. A loro volta i campi in mattone tritato sarebbero diventati leggermente più rapidi. E così si sarebbe arrivati ad una sorta di convergenza sul tour, a maggior ragione considerato che l’erba è progressivamente ingiallita e rallentata. Gli stessi giardinieri di Wimbledon hanno più volte raccontato come il tipo di sementi utilizzate e il taglio siano stati modificati a questo scopo. 

Secondo alcune teorie, non del tutto infondate, alla base di questa omogeneizzazione ci sarebbe una deliberata scelta politica delle principali istituzioni del tennis, ovvero la ATP e la WTA. L’obbiettivo? Migliorare lo spettacolo e incrementare gli introiti. Da una parte, viene ritenuto, in maniera del tutto opinabile, che gli scambi prolungati da fondocampo siano più spettacolari che ad esempio una gara di serve and volley. Rallentando la velocità dei campi in cemento, si sarebbero resi meno efficaci i servizi, soprattutto quelli dei tennisti uomini, e costretto i giocatori a dover sudare per guadagnarsi il punto. Dall’altra parte, la presunta omologazione ha eliminato gli specialisti e uniformato i vincitori dei singoli tornei. Non ci sono più i terraioli, non ci sono più gli erbivori. Ci sono i migliori e i migliori vincono dappertutto. E riempiono tutti gli stadi, per la gioia della ATP e WTA, degli organizzatori di tornei e dei giocatori stessi che hanno visto i loro prize money lievitare.

In maniera praticamente consensuale, tutti gli addetti ai lavori raccontano di questa omologazione tra superfici. Insomma, è un fatto acquisito ormai nel tennis, quasi un luogo comune. Ma sarà vero? Oltre le impressioni e le sensazioni, cosa ci dicono i numeri a riguardo?

Innanzitutto, prima di analizzare i dati, bisogna necessariamente passare in rassegna le maniere in cui viene misurata la velocità dei campi. Spoiler: sarà una discussione lunga e abbastanza tecnica. Se non siete molto interessati potete scorrere avanti.

LE MISURE INDIRETTE

Sostanzialmente le misure di velocità dei campi si dividono in due grandi famiglie: quelle “indirette” e quelle “dirette”. Le misure “indirette” si basano sulle performance dei giocatori e su come esse sono inficiate dalla rapidità del campo. Ad esempio, si suppone che la velocità del campo abbia un forte impatto sulle prestazioni al servizio e in risposta dei tennisti: più un campo è veloce più i giocatori faranno ace e meno possibilità avranno di vincere i punti in ribattuta. La percentuale di ace sull’ammontare dei visti dei servizi complessivi (Average Rate Ace o ARA abbreviato), la percentuale di punti in risposta conquistati o la percentuale di break ottenuti sono da considerarsi misure indirette. Tra queste, ARA sembra quella in grado di isolare meglio una serie di effetti. Come quello delle stesse capacità da fondocampo dei tennisti. Essendo un colpo di inizio gioco, il servizio infatti non implica l’entrata in gioco di fattori come l’abilità dei tennisti durante lo scambio. 

Tuttavia, anche l’ARA presenta alcuni problemi. Innanzitutto è per l’appunto una misura indiretta. Immaginiamo che grazie a una nuova tecnica di allenamento i giocatori aumentino considerevolmente il loro numero medio di ace in ogni partita da un anno all’altro. A quel punto l’ARA incrementerebbe di conseguenza rispecchiando non un aumento della velocità dei campi ma un miglioramento delle performance dei giocatori. Inoltre, pensiamo ad esempio al fatto che tanti big server non amano giocare i tornei su terra rossa, sapendo che i loro risultati potrebbero non essere molto soddisfacenti. Quest’anno, causa anche un piccolo infortunio, Isner non ha giocato nemmeno una partita sul mattone tritato. Nelle tre stagioni precedenti non erano comunque mai state più di quindici. Infine, in ogni caso la percentuale degli ace dipende comunque, anche se in parte ben minore rispetto alle altre misure indirette menzionate in precedenza, dalle capacità del ribattitore. Servire contro Djokovic e contro un Kyrgios in versione svogliata fa una bella differenza nel tabellino di fine match. 

Anche per ovviare a questi problemi, a partire dal 2010, Jeff Sackmann, creatore di tennisabstract.com, nel suo magazine di statistiche sul tennis “heavy topspin” ha creato una sorta di ARA corretto (che chiameremo ARA+ d’ora in avanti). Attualmente è da ritenere la misura “indiretta” più solida in termini di costruzione e anche quella che è stata calcolata in maniera più continua nel tempo.  Il principio non è semplicissimo da spiegare. In parole povere, la percentuale media di ace di ogni singolo giocatore in ogni torneo del circuito maggiore ATP è confrontata con quella della sua media pesata sui campi veloci (cemento ed erba) e su quelli lenti (terra battuta) rispettando grossomodo la distribuzione nel circuito (2/3 campi veloci, 1/3 terra). Insomma, se Federer fa di media un ace ogni 10 servizi (10 per cento) in una stagione e a Wimbledon due ogni 10 servizi (20 per cento) significa che la velocità del campo lo ha aiutato a servire meglio rispetto a quanto ha fatto nell’intera stagione. Da questo conteggio sono esclusi i tennisti con meno di tre partite su terra o cemento.

La rapidità della superficie viene poi espressa con un valore che ricalca vagamente la logica delle odds ratio. Se il valore finale corrisponde ad 1 significa che non c’è variazione nella quantità di ace che un giocatore produce su quel determinato campo rispetto a quello ipotetico creato attraverso la media stagionale, e che quindi l’effetto della velocità del campo è nullo. Se è inferiore a 1 significa che l’effetto è negativo. Se infine è superiore a 1 significa che l’effetto è positivo. Con un esempio riesce più semplice rendere l’idea. Nel 2019, il torneo di Roma ha registrato un ARA+ di 0,69. Ciò significa che i giocatori hanno fatto in media il 31% di ace in meno rispetto a quanto ci si aspetterebbe guardando alle loro medie stagionali. Le Finals d’altra parte hanno registrato un ARA+ di 1,31. Ovvero, ci sono stati il 31% in più di ace della media stagionale per ogni tennista che vi ha partecipato. Quindi mentre i campi lenti del foro Italico hanno inficiato negativamente sul rendimento al servizio dei tennisti, quelli rapidi londinesi hanno migliorato questa performance. 

LE MISURE DIRETTE

Le misure “dirette” invece si basano appunto direttamente sulle proprietà fisiche della superficie e dei suoi materiali, in termini di quanto rallentano la palla dopo il rimbalzo. La più nota e quella diffusa ufficialmente dalla ATP, è il Court Pace Index (CPI). Ma esiste anche il Court Pace Rating (CPR), usato invece per misurare la velocità dei campi dei tornei ITF. Mentre le rilevazioni del CPR sono fatte in laboratorio, quelle per il CPI sono fatte durante la stessa competizione grazie all’uso delle telecamere Hawkeye, le stesse che vengono utilizzate per determinare se una palla è dentro o fuori. Questo rende il CPI una misura più realistica rispetto al CPR. Inoltre è quasi pleonastico sottolineare che i tornei ATP sono molto più rilevanti di quelli ITF. Per i curiosi e gli esperti di fisica, la formula del CPI è la seguente:

CPI = 100 (1-µ)+150(0,81-e)

In cui ‘µ’ corrisponde al coefficiente di frizione, ovvero la forza con cui la palla colpisce il campo, ed ‘e’ è il coefficiente di restituzione, che misura quanto la palla si comprime toccando il terreno e dunque quanto perde spinta. Praticamente il CPI misura quanta velocità ha la palla prima di rimbalzare e quanta ne ha dopo. A seconda del valore registrato, l’ATP classifica i campi in una delle seguenti categorie: lenti (CPI tra 20 e 30), medio-lenti (30-35), medi (35-40), medio-veloci (40-45), veloci (sopra i 45). Quest’anno ad esempio, con un valore di 41,6, i campi delle Finals possono essere categorizzati come medio-veloci. 

Non c’è bisogno di dire che una misura “diretta” è molto meglio di una “indiretta” perché va direttamente a calcolare l’oggetto del contendere invece di usare le performance dei tennisti come riferimento. Il problema riguardo al CPI consiste tuttavia nella limitata mole di dati a disposizione, dovuta al fatto che la tecnologia hawkeye viene utilizzata da pochi anni e che, essendo molto costosa, non è diffusa in maniera omogenea sul circuito ATP. In pratica, i dati sul CPI sono disponibili solo per i Masters 1000 (incluse le Finals) o occasionalmente per qualche Slam, solo a partire dal 2012, e in maniera molto disomogenea nel corso delle stagioni. Matthew Willis, autore del blog “The Racquet”, ha sistematizzato questo dato nel corso degli anni, raccogliendo complessivamente solo 64 rilevazioni. Poche considerando il numero complessivo dei tornei sul circuito maggiore disputati in ogni singola stagione.

Quindi da una parte abbiamo una misura “indiretta” (quindi meno affidabile) però con dati completi per ogni anno a partire dal 2010 e, dall’altra, una “diretta” (quindi più affidabile) ma con meno dati e molto più frammentati. Chiaramente avere un maggior numero di dati porta a delle analisi più accurate. Così come avere rilevazioni più precise. Ma quanto è meno affidabile l’ARA+ (indiretta) rispetto al CPI (diretto)? La risposta è non molto. L’indice elaborato da Sackmann è una più che discreta approssimazione della velocità dei campi del circuito ATP. La correlazione con il CPI è piuttosto alta, ovvero 0,6238 nell’indice di Pearson, in cui 0 corrisponde a nessuna associazione tra due misure e 1 alla massima associazione positiva. Anche qua, detta in termini semplici, al crescere del CPI cresce anche l’ARA+ in proporzioni abbastanza simili. 

LA VELOCITÀ DEI CAMPI, MISURE INDIRETTE

Si chiude così la (lunghissima) parentesi metodologica. Per completezza nell’articolo vi offriremo delle analisi basate su entrambi gli indici. Partiamo dal ARA+. Quello che non ci può assolutamente dire questo indice è se in senso assoluto le superfici sono rallentate nel tempo. Essendo che ogni misurazione è rapportata alla media stagionale, sommando tutti i tornei si dovrebbe trovare un valore tendente sempre all’uno, ovvero la ipotetica superficie neutra. Quello che invece ci può dire è se il rapporto tra la velocità delle superfici dei diversi tornei, anno per anno, si è modificato. Ad esempio, tra il 2018 e il 2019 l’ARA+ di Roma è rimasto stazionario a un valore di 0,69 mentre le Finals sono schizzate da 1,12 a 1,31. Ciò significa che le Finals nel 2019 sono state molto più veloci rispetto a Roma di quanto non lo fossero nel 2018. 

Il grafico sottostante mostra l’andamento del ARA+ nei Masters 1000, nelle Finals e nei tornei dello Slam nell’ultimo decennio, divisi per superficie. E smentisce il luogo comune riguardo all’omogeneizzazione tra cemento e terra rossa.

Infatti, la linea blu (cemento) e la linea arancione (terra) sono rimaste praticamente parallele dal 2010 al 2019. Questo significa che è possibile che la velocità di entrambe sia diminuita, come dicono, ma le differenze sono rimaste sostanzialmente invariate nel corso del tempo, fatta eccezione per l’anno 2012. Un dato molto sorprendente alla luce delle impressioni degli addetti ai lavori. L’analisi conferma invece un rallentamento progressivo e consistente dell’erba rispetto alle altre superfici nello stesso arco temporale (linea verde). Fino a metà degli anni dieci, giocare a Wimbledon dava un vantaggio considerevole ai battitori rispetto alle altre superfici, con un distacco di molti punti anche sugli altri grandi tornei sul cemento. Dal 2016, l’erba è veloce circa come i tornei sul cemento. Insomma, il Center Court non è più verde come una volta per i big server. E poi ci si chiede perché Federer non riesca ad ottenere il suo nono titolo ai Championships. 

Un grafico basato sui dati relativi all’ARA+ con linee per ogni singolo torneo risulterebbe confuso a causa del sovrapporsi in poco spazio di 14 linee diverse. Tuttavia, vi possiamo fornire qualche curiosità riguardo ai dati del 2019.

Montecarlo è di gran lunga il torneo più lento nel nostro campione. Sui campi del Country Club, i tennisti hanno messo a segno in questa edizione del torneo la metà degli ace che ci si attenderebbe secondo la loro media stagionale. Condizioni che, si sa, piacciono al nostro Fabio Fognini, che ha centrato il suo più grande successo in carriera nel Principato di Monaco quest’anno. Roma, Madrid e il Roland Garros hanno tutti valori simili attorno allo 0,70, quindi sostanzialmente più alti. I Masters 1000 sul cemento outdoor a parte Cincinnati sono sotto l’1, ovvero non avvantaggiano particolarmente chi sta al servizio. Così come gli US Open. Gli Australian Open sono invece da anni lo Slam sul cemento relativamente più veloce, con il 27 per cento in più di ace in questa ultima edizione. Quindi tutto sommato a Nole, recordman di vittorie a Melbourne con sette trofei, non spiace giocare su cementi più rapidi. Valori simili si registrano nei 1000 indoor, ovvero Shanghai, Bercy e le Finals. Wimbledon quest’anno è andato per la prima volta negli ultimi dieci anni sotto il valore di 1. La misura è pur sempre relativa, ma dice che oggi l’erba è talmente lenta da non garantire alcun tipo di vantaggio al servizio. 

LA VELOCITÀ DEI CAMPI, MISURE DIRETTE

Passiamo ora all’analisi della velocità di tornei con il CPI. A contrario del ARA+, questa misura ci può effettivamente dire se le superfici siano rallentate o meno in senso assoluto. Peccato che, come già sottolineato, le rilevazioni siano un po’ sparse nel tempo e limitate ai Masters 1000 in gran parte. Nel grafico sottostante, in cui è stata fatta una suddivisione per torneo, le linee sembrano comunque seguire un andamento abbastanza piatto tra il 2012 e il 2019. Anzi, i campi delle Finals, sono passati da valori abbastanza lenti per essere un campo in cemento indoor (35) a valori record nel circuito a partire dal 2016 (sopra i 40). I campi di Parigi Bercy sono pure diventati più veloci, seguendo un trend simile. Tra il 2018 e il 2019, praticamente tutti i campi dei tornei in cui sono state fatte rilevazioni hanno aumentato il loro CPI. Quindi, pur con la cautela dovuta alla scarsità e alla mancanza di omogeneità nei dati, non sembra che le superfici dei grandi tornei siano particolarmente rallentate negli ultimi anni. Anzi, semmai viceversa.

Per quanto riguarda invece l’omologazione delle superfici, va registrato che i tre Masters 1000 sulla terra rossa sono consistentemente stati più lenti dei campi in cemento. Fatta eccezione per Indian Wells, il più lento tra i Masters 1000 sul cemento, lo scarto di velocità è sempre stato notevole in questi anni. Per quanto riguarda i singoli tornei, si registrano più o meno gli stessi equilibri evidenziati dal ARA+. I tornei indoor, anche aiutati da una maggiore rarefazione dell’aria, sono i più veloci. Tra i 1000 americani, Cincinnati e la Rogers Cup sono stati spesso quelli con i campi più rapidi, con valori a volte anche sopra il 35. I recenti trionfi canadesi di Nadal assumono dunque ancora più valore alla luce di questi risultati. 

Insomma, questi dati vanno oltre le mere impressioni e sensazioni dei tennisti. E le smentiscono. È abbastanza evidente come, mentre l’erba è diventata relativamente più lenta rispetto alle altre superfici, il rapporto tra cemento e terra nei grandi tornei del calendario maschile è rimasto invariato. La presunta omologazione tra queste due superfici non è suffragata dai numeri. Potrebbero essere diventate entrambe più lente. Tuttavia, ci sono indicazioni, seppur non molto consolidate e dunque da prendere con le pinze, che non sia nemmeno questo il caso. Nell’ultimo anno i campi di quasi tutti i 1000 sono diventati infatti più veloci rispetto al 2018. In conclusione, non è vero che le superfici si sono uniformate negli ultimi dieci anni e non sembra nemmeno vero che siano complessivamente rallentate. Lo dicono i dati.

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