Focus
La Piccola Biblioteca di Ubitennis: GOAT
Piccole meraviglie crescono. È possibile (in Italia) uscire dalla dittatura della realtà e mescolare il tennis contemporaneo con le parole di Wallace costruendo un delicato romanzo grafico che dialoga con l’essenza invisibile del tennis? Sì. Ecco la recensione di GOAT di Emanuele Rosso

Rosso E., GOAT, Coconino press, Fandango, Roma, 2019.
La mia vita prima di essere assunto da Ubitennis come unico recensore mondiale di libri di tennis era abbastanza semplice. Avevo capito che le lacrime di migliaia uomini insonni davanti ai televisori nelle calde notti australiane, che l’urlo mai sentito di una gigantesca bestemmia poliglotta dopo due match point sprecati da un vecchio ragazzo svizzero, o la semplice questione che le rasoiate mancine di Gianluca Pozzi hanno costituito il momento più luminoso della mia adolescenza, non possono essere solo sport ma roba misteriosa dietro alla quale ci deve essere un segreto.
Per smascherarlo ho deciso di esplorarlo con l’arma più potente prodotta dall’essere umano: la letteratura. Cioè la verità più pura nascosta nella menzogna più bella. Con questi presupposti Ubitennis da cinque anni vi recensisce (quasi) puntualmente i migliori libri di, sul e intorno al tennis. Un viaggio di sola andata nel tennis quadridimensionale, perché vedere una partita è fantastico, rivederla attraverso le parole di Clerici, di Wallace, di Bottazzi o di Marshall Jon Fisher è una specie di realtà aumentata o una droga sana, fate voi.
Ma dicevo, la mia vita era semplice, venerdì pomeriggio libreria e il fine settimana sprofondavo in un mondo parallelo fatto di gesti bianchi e sussurri in prosa che vivisezionano campioni, partite e epoche storiche. Una gigantesca memoria storica inerte che cuce, compara, scava e mette tutto nella giusta prospettiva (se nel podio impossibile del più grande giocatore di tutti i tempi non mettete né Tilden né Rosewall siete come quelli che disquisiscono su Messi e Ronaldo ignorando Maradona, Pelé per non parlare di Schiaffino o dell’incommensurabile e irripetibile e inclassificabile Màgico Gonzalez, il GOAT dei GOAT).
Insomma un lavoro da minatore alla ricerca di pepite da consegnare in forma di recensioni per chi non si accontenta della partita, o del presente, ma vuole indagare il Tennis e la sua strana magia fatta di scienza, arte cinetica e storia. Ma negli anni le pepite diminuiscono e il successo della rubrica mi ha travolto. Chiunque si sveglia la mattina e scrive di tennis mi spedisce un libro. Ormai il mio peggior incubo è diventato il postino. La pila sulla mia scrivania ha raggiunto dimensioni pericolose. E in mezzo a decine di libri, molti dei quali non hanno nessuna tensione letteraria o storica, dietro ai quali non c’è mai ricerca ma puro e vago marketing e opportunistico narcisismo nascosto dietro alla mera cronaca, ogni tanto il postino mi consegna una piccola pepita, come GOAT, il coraggioso romanzo grafico di Emanuele Rosso.
- Rafa Nadal (disegno di Emanuele Rosso)
- Roger Federer (disegno di Emanuele Rosso)
Una storia che riesce a mescolare drammaturgia e tennis contemporaneo attraversando tutti i nodi degli ultimi 30 anni del tennis professionistico: la madre padrona, l’outsider, i fantastici quattro (Roger, Nole, Rafa e Andy), i media e più in generale l’angoscia esistenziale di delegare la propria vita professionale a una pallina. Dietro la fantastica parabola del protagonista inventato (Iris Asrlanian) viene vivisezionato il gioco del tennis e la filosofia che lo regge, un uomo solo dentro un rettangolo che deve combattere con i propri demoni. In questa prospettiva l’avversario è sempre un pretesto, un compagno di danza, un demone bellissimo che assomiglia troppo alle nostre paure.
Le pagine migliori di GOAT sono le due lunghe collane di perle che costituiscono lo scheletro drammaturgico della vicenda: gli allenamenti di Iris e le sue partite. Nei primi l’autore ci fa (ri)ascoltare lo strano lirismo ipercontemporaneo del compianto David Foster Wallace. Le parole dello scanzonato allenatore di Iris sono in realtà le perle lasciateci dallo scrittore americano, quelle che riconducono il gioco del tennis alla sua essenza filosofica e metafisica. Un gioco, un fottuto gioco in cui il giocatore tesse in uno spazio definito una tela tridimensionale con variabili esponenziali in cui vince chi ruba il tempo e sa trasformare la solitudine in silenzio interiore perché a un certo livello il perimetro del campo non esiste, la pallina non esiste, sei tu il campo, sei tu la pallina e devi colpirla mille volte al giorno fino a quando il pensiero non evapora e non c’è più separazione tra istinto, azione, racchetta, braccio e pallina.
Il problema è che questo approccio zen va in conflitto con le mostruose pressioni e aspettative di un gioco che si è trasformato in un professionismo puro che promette successo al prezzo di probabili fallimenti esistenziali. Questione che rappresenta la vena più densa e meno esplorata del rapporto tra Wallace e il tennis a dimostrare che Rosso ha letto per davvero Wallace ben oltre il celebre saggio su Federer (su questo tema vedi il mostruoso Infinite Jest o questo, se non volete sottrarvi alla vita per un paio di mesi).
A intervallare questa linea c’è la seconda catena di perle, le partite. E qui Rosso può esplodere tutto il suo talento grafico con disegni che brillano di sintesi cinetica. Il suo tratto poco realistico, innervato da un cromatismo sensoriale, riesce miracolosamente a cogliere con perfezione cinetica l’uncinata di Nadal, l’ipervelocità fluida del braccio di Federer o l’allucinata tensione di Nole in risposta dove la sua immobilità contiene e anticipa l’imminente scatto al fulmicotone. Il tutto innervato da un sentimento di umiltà e amore verso il tennis che cola a ogni riga, anzi a ogni disegno.
- Novak Djokovic (disegno di Emanuele Rosso)
- Jannik Sinner (disegno di Emanuele Rosso)
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ATP
Murray pensa ai Giochi Olimpici di Parigi: “Voglio dimenticare l’edizione del 2021”
Nel mirino di Andy Murray quella che sarebbe la sua quinta partecipazione ai Giochi: “Mi piacerebbe avere un’altra occasione”

A riportare la mente alle ultime Olimpiadi, ci si sofferma sulla finale olimpica di Wimbledon del 2012. Andy Murray batte Roger Federer con un netto 6-2, 6-1, 6-4: che sia stato merito dello scozzese o demerito dello svizzero stremato dalla semifinale con Del Potro durata 4ore e 26’, sarà una medaglia d’oro indimenticabile.
Undici anni dopo, Federer continua a bazzicare il suo giardino reale, Wimbledon, ma dagli spalti, Murray continua a regalare emozioni ai suoi fan. Attualmente si trova in Cina a Zhuhai dove ha esordito battendo al primo turno Ye Cong Mo, n.668 del ranking.
In conferenza stampa Sir Murray ha dichiarato di nutrire speranze di partecipazione a quelli che sarebbero i suoi quinti Giochi Olimpici: “Mi piacerebbe davvero partecipare ad altre Olimpiadi. Ho avuto esperienze entusiasmanti durante la mia carriera ai Giochi Olimpici. Ho amato tutte le edizioni alle quali ho preso parte”.
Il palmares olimpico di Murray è fin qui straordinario: due medaglie d’oro nel 2012 a Londra e nel 2016 sul cemento di Rio de Janeiro. Nel 2021 fu grande la delusione per il suo forfait obbligatorio nel torneo singolare dettato da uno stiramento alla coscia avvenuto prima dell’avvio dei giochi olimpici. Recuperò in fretta ma fu costretto a fare una scelta tra i due tornei di singolare e di doppio. Una promessa fatta a Salisbury gli aveva fatto optare per l’iscrizione al torneo di doppio: arrivarono sino ai quarti. Che fosse storia finita con i Giochi Olimpici? Su twitter si era lasciato andare a un lungo tweet nel quale dichiarava: “Se questa è la fine del mio viaggio a cinque cerchi, voglio ringraziare di cuore la squadra della Gran Bretagna e tutti voi per il supporto: mi avete aiutato a dare il massimo in questi anni. È stato un privilegio assoluto rappresentare il mio Paese a quattro Olimpiadi e mi ha regalato alcuni dei ricordi più belli della mia vita”.
Ora, a distanza di due anni, la pena diversamente e vuole cancellare la delusione patita nell’edizione 2021, nota perché disputata in piena pandemia: “L’ultima volta sono rimasto molto deluso perché mi ero infortunato prima del torneo e avevo promesso al mio compagno che in caso di problemi avrei dato priorità al doppio rispetto al singolare. Ed eravamo arrivati vicinissimi alla medaglia: nei quarti eravamo avanti un set e 4-3, al servizio con palle per il game e avevamo davvero una buona occasione, ma non ce l’abbiamo fatta. Mi piacerebbe avere un’altra opportunità di giocare l’anno prossimo a Parigi. Sarebbero i miei quinti Giochi Olimpici e molto probabilmente gli ultimi”.
Per Murray al secondo turno dell’ATP 250 di Zhuhai ci sarà la sfida con Karatsev che aveva eliminato Arnaldi nel primo turno.
Flash
WTA Finals: Sabalenka, Swiatek, Gauff e Rybakina già qualificate
La WTA finalmente annuncia le prime qualificate al torneo di fine anno in programma a Cancun dal 29 ottobre. Coco Gauff si è garantita la partecipazione anche in doppio con Jessica Pegula

Aryna Sabalenka parteciperà alla sua terza edizione di fila delle Finals. Il suo miglior risultato rimane quello dell’anno scorso quando arrivò in finale. La venticinquenne bielorussa ha disputato la miglior stagione della sua carriera, vincendo il suo primo Slam di singolare, l’Australian Open, oltre al WTA 1000 di Madrid e il WTA 500 di Adelaide. Nello score stagionale anche tre finali perse, a Indian Wells, a Stoccarda e allo US Open.
Questi risultati le hanno dato il trono n. 1. nel ranking femminile.
Terza presenza alle WTA Finals anche per Iga Swiatek: deve cancellare l’eliminazione in semifinale dell’anno scorso. Quattro i titoli vinti nel 2023 dalla campionessa polacca. Ha trionfato nuovamente al Roland Garros, al WTA 500 the Qatar TotalEnergies Open di Doha e il Porsche Tennis Grand Prix di Stoccarda. In più ha portato a casa il titolo di Varsavia nel WTA 250 BNP Paribas. Vanta un fantastico record di 56 vittorie e 10 sconfitte quest’anno nel Tour.
Gran colpo dell’americana Coco Gauff che si è qualificata per le Finals nel torneo singolare e in quello di doppio. Partecipa alle Finals per la seconda volta. Quattro i titoli vinti quest’anno: ad Auckland e poi nel corso di una fantastica estate dove ha trionfato al WTA 500 Mubadala Citi DC Open di Washington DC, al WTA 1000 Western & Southern Open di Cincinnati e poi il trionfo nel suo primo Slam della sua carriera allo US Open, salendo al n. 3 nel ranking.
Elena Rybakina, invece, sarà la prima donna kazaka a far parte delle WTA Finals. I successi di quest’anno vanno dal titolo ottenuto a Indian Wells a quello di Roma. Ha raggiunto la finale all’Australian Open e a Miami.
ATP
Il team di Sinner si racconta: “Ognuno svolge il suo compito con estrema serietà. Il più competitivo? Jannik senza dubbi”
In un video-intervista all’ATP il team del tennista altoatesino si racconta a tutto tondo, da come svolgono il proprio lavoro al rapporto tra i membri della squadra, per finire con un ritratto di Sinner atleta ma anche persona

Il tennis, espressione massima della solitudine nel proprio palcoscenico, è ormai da molti anni descritto dalla totalità dei giocatori del circuito ATP e WTA come uno sport certamente individuale, ma nel quale il team è la colonna portante dell’intera struttura. Dal coach al super coach, dal fisioterapista al mental coach, dal preparatore atletico al manager. Tutti ingredienti fondamentali dietro le quinte – o meglio, nel famoso ‘box’ a bordo campo molto inquadrato dalle telecamere e osservato, chi più chi meno, dai giocatori in campo – che possono rendere un tennista il tennista, capace grazie alla propria forza di volontà e a tutti questi tasselli nel background di raggiungere, o meno, il successo e i propri obiettivi. La storia del tennis è colma di coach che hanno fatto la differenza: da Toni Nadal mentore di suo nipote Rafa, da Patrick Mouratoglou allenatore per un decennio di Serena Williams, per poi arrivare ai colori azzurri con Andreas Seppi e Massimo Sartori, Lorenzo Sonego e Gipo Arbino, Lorenzo Musetti e Simone Tartarini, per concludere con Jannik Sinner e…
Questo è un capitolo bello corposo da trattare: il team del n.1 italiano. Chi c’è dietro quella folta chioma rossa? Certamente i primi che vengono in mente sono Simone Vagnozzi e Darren Cahill – entrambi ex giocatori –, che per Jannik svolgono rispettivamente il ruolo di coach e supercoach. Un’intervista molto approfondita dell’ATP analizza ai raggi X la squadra del tennista altoatesino, che numerosa è dir poco. “Sono persone buone e felici; ognuno sa molto bene di cosa si deve occupare. Mi sento fortunato ad avere un team così”, le prime parole di Sinner sul proprio team, che come dirà poco dopo “è come una famiglia. Vedo più spesso loro che i miei genitori”. Si capisce sin sa subito quello che il n.7 ATP cerca tra i propri membri della squadra: competenza e affinità. Infatti, “per me ognuno è fondamentale. Quando qualcuno entra a far parte del gruppo non è importante solamente che sia uno dei migliori nel suo lavoro, ma è essenziale anche come io mi senta con questa persona. Devo essere a mio agio e sapere che posso parlare di qualunque cosa che mi passi per la testa con tutti quanti”.
Successivamente la palla passa agli allenatori di Sinner, Vagnozzi e Cahill. La collaborazione con il primo inizia a febbraio 2022, come ricorda anche il 40enne di Ascoli Piceno, mentre la più fresca entrata – a giugno 2022 – è quella dell’ex semifinalista allo US Open Darren Cahill, coach in passato di personaggi come Andre Agassi, Lleyton Hewitt, Andy Murray e Simona Halep. “Il mio ruolo è più quello di trasmettergli la mia esperienza” ci informa l’australiano, “sono stati dei primi mesi di collaborazione molto buoni e produttivi”. Si sapeva già l’attitudine di Jannik in campo, ma il tennista italiano ci tiene comunque a farlo sapere chiaro e tondo: “Sono il più competitivo, odio perdere”, e sia Vagnozzi che Cahill dicono all’unisono che “Jannik vuole vincere dappertutto, in ogni cosa che fa”.
L’ex allenatore australiano di Coppa Davis tira in ballo anche il preparatore atletico di Sinner, Umberto Ferrara, definendolo come “il più serio”. Nel tennis “il corpo deve essere il tuo tempio, di conseguenza probabilmente lui ha il lavoro più importante di tutti. A cena dice sempre a Jannik quello che sarebbe meglio mangiare e ciò che si deve evitare”. E conferma anche Umberto che, mettendo le mani avanti, informa subito che “quando lavoriamo siamo tutti seri. Quando è terminato l’allenamento, invece, si può scherzare tutti insieme”. Ma non mancano nel team Sinner momenti di svago conviviali, rigorosamente nella maggior parte dei casi con le carte da gioco. Il ‘Burraco’ è quello che va per la maggiore ed è stato Giacomo Naldi, fisioterapista dell’altoatesino, a introdurlo a tutta la squadra. “Jannik vuole giocare tutti i giorni” fa sapere Giacomo, che spiega questa ‘tradizione’ del 22enne di San Candido chiarendo che “la prima volta che abbiamo giocato insieme Jannik ha vinto il torneo a cui stava partecipando; quindi è per questo che vuole sempre giocare secondo me”.
Passando alla routine, invece, tutti i membri del team intervengono dicendo la propria, precisando che “Sinner innanzitutto svolge qualche esercizio di mobilità e prevenzione, soprattutto alcuni specifici movimenti che lo proteggono da infortuni avuti in passato, come ad esempio quelli alla caviglia”. Poi arriva il turno di Naldi prima e dopo l’allenamento. Quest’ultimo è di un’ora e mezza, in cui il campione azzurro viene seguito da Vagnozzi, Cahill e consiste in palleggi di ritmo con uno sparring partner, per finire con qualche punto. Nel pomeriggio, invece, “un’ora di tecnica in cui ci si concentra sul servizio, sulle volée, sullo slice…”, mentre la maggior parte del lavoro di Giacomo Naldi, come lui stesso afferma, avviene dopo: “Faccio qualche massaggio, qualche ulteriore esercizio di mobilità, lavoro con i suoi muscoli e cerco di far sì che il suo corpo possa recuperare al meglio”.
Come dice anche Sinner, non è un rapporto unilaterale quello tra coach e giocatore, infatti “loro mi spingono a dare il meglio di me, ma anche io li sollecito parecchio. Ogni giorno è una sfida, ed è fondamentale non solo che loro siano miei amici, ma che sappiano anche essere onesti con me”. Cahill, poi, interviene facendo sapere un aspetto molto importante della persona-tennista che è Jannik Sinner: “Non c’è molta differenza tra lo Jannik che si vede in campo e quello che si osserva al di fuori di esso. Lo si può vedere nei suoi occhi da volpe, che al momento giusto possono diventare quelli di una tigre”. Vagnozzi, invece, si sofferma sul fatto che “Sinner quando entra in campo vuole sempre migliorare, è costantemente col sorriso, quindi per un coach è più semplice svolgere il suo lavoro”. Mettendo sul piatto della bilancia i risultati di quest’anno “Jannik è soddisfatto, ha più fiducia dopo la semifinale a Wimbledon e il titolo a Toronto. Questi erano suoi obiettivi”.
Un team solido, unito, familiare, dove ognuno ha un preciso compito e allo stesso tempo è un pezzo fondamentale del puzzle finale. Jannik ha solamente ventidue anni, ha già conquistato vette importanti del ranking, ha vinto tornei 250, 500 e 1000, è stato semifinalista Slam e, cosa più importante, è seguito da persone che credono nei suoi mezzi e lo stimolano al meglio. Dopo la parentesi US Open seguita da quella – mancata – di Coppa Davis, per Sinner ora è il momento di tuffarsi nell’ultimo periodo della stagione, con gli ultimi due tornei 500, due tornei 1000 e le Finals di fine anno dove non è ancora qualificato ufficialmente, ma gli mancano pochissimi punti per raggiungere la quota sufficiente per parteciparvi. Sappiamo che dopo New York Jannik si è dedicato al puro allenamento in vista dei prossimi appuntamenti. Il team ora lo conosciamo, sappiamo come lavorano, quindi non ci resta che metterci comodi e osservare le gesta del nostro n.1. Cinture allacciate, direzione Pechino!