Bill Tilden e "Il Codice del Tennis", il libro che non c'era

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Bill Tilden e “Il Codice del Tennis”, il libro che non c’era

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La piccola biblioteca di Ubitennis si amplia di un prezioso volume. Abbiamo recensito per voi l’attesa traduzione ragionata dell’opera del grande Bill Tilden. Un libro speciale. Un libro che non c’era

Milano riscopre Bill Tilden: presentato “Il Codice del Tennis”

L. Bottazzi / C. Rossi, Il codice del tennis. Bill Tilden. Arte e scienza del gioco, Guerini Next, 2015

Il maestro di tennis del mio circolo si chiama Sante Panfilio, va per gli ottanta ed è sempre a bordo campo. Non è ancora stanco di ripeterci di aprire per tempo e che ogni colpo deve avere un effetto. Non so se abbia mai letto qualcosa di Tilden, ma da ora potrà farlo e ne sarà felice. Questo libro riflette passione e umiltà. La passione che spinge a dedicare il proprio tempo a palla e racchetta ma soprattutto l’umiltà degli autori nel lasciare alle parole vive di un Maestro il compito di costituire la spina dorsale della narrazione, riservandosi il ruolo di divulgatori, mediatori e commentatori di una riflessione sul tennis unica nella sua completezza.

Il primo ringraziamento di tutti i “tennis bugs” italiani va quindi a Luca Bottazzi e Carlo Rossi, veri umanisti di questo sport, per aver portato alla luce l’opera omnia di Tilden, tristemente abbandonata fra le pieghe del tempo, e aver curato e scritto un libro che non c’era. Il corpo centrale del testo è costituito dalla traduzione pressoché integrale di “The art of lawn tennis” del 1921, sul quale si innestano in maniera organica ampie parti di “Match play and the spin of the ball” del 1925 per chiudere con “How to play better tennis”, scritto nel 1950, tre anni prima di morire solo in una stanza disordinata. Il tutto è introdotto da una breve e toccante biografia di Big Bill e chiuso dal Codice Tilden, una ampia e ragionata analisi sulle tematiche principali dell’Immortale di Philadelphia.

Avevo affrontato in lingua originale i primi due testi e, nel mio piccolo microscopico, devo a Tilden la speranza di poter sempre evolvere il mio gioco e, solo secondariamente, il miglioramento del mio inglese. Ho comprato questo libro quando è uscito e divorato le duecentotrentotto pagine che lo compongono praticamente nello stesso tempo. Poi l’ho riletto e, nonostante potessi vantare una pregressa conoscenza dei testi, mi è apparso come qualcosa di nuovo. Questo perché il lavoro quasi sartoriale degli autori è riuscito nella notevole impresa di compendiare in un unicum coerente e logicamente legato l’evoluzione del pensiero tennistico del più grande di tutti, tale anche perché non ha mai smesso di amare e studiare il gioco. E fortunatamente per noi, lo stesso braccio che un secolo fa colpì milioni di volte una pallina da tennis aveva ancora l’energia per eternare sulla carta l’arte del gioco e i suoi fondamenti. In alcuni punti della narrazione poi, in modo quasi allegorico, l’arte del gioco diventa arte della vita e leggendo percepiamo chiaramente che molte basi fondanti del metodo di Tilden meritano di essere estesi alla formazione generale di una persona e non solo al tennis.
La forza mentale, la centralità di una vera passione che ci guidi nell’apprendimento, la fatica come valore, l’importanza dell’errore e della sconfitta come elementi essenziali e positivi in un sano percorso di crescita. E ancora, la volontà di non scoraggiarsi se non arrivano i progressi perché “il segreto di un colpo che avete allenato a lungo senza apparente successo vi si rivelerà improvvisamente, quando meno ve lo aspettate, oppure la spinta costante nel combattere le nostre fragilità  in quanto è l’anello più debole di una catena a determinare la sua resistenza”. 

Che dire poi della prima regola per un corretto apprendimento del gioco? “Perdi con allegria e vinci con modestia”, suggerisce Bill, e in lontananza si avverte l’eco delle parole di Kipling che accompagnano i tennisti sul sacro Centre Court di Wimbledon. Un cenno particolare merita a mio avviso la parte tradotta di “How to play better tennis” nella quale Tilden si focalizza sul lavoro del coach. In una capillare e particolareggiata descrizione di come e quando insegnare le basi ai principianti sentiamo vibrare nelle parole di Big Bill un reale e disinteressato amore per il gioco, che è compito dell’istruttore possedere in prima persona per poterlo poi trasmettere all’allievo attraverso il culto dell’allenamento e del rispetto per le regole non scritte del tennis, dello sport e, in ultima analisi, della vita.

Quale futuro per un libro così? “Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire”, direbbe Dante. Il panorama intorno a noi è scoraggiante. Il mondo del tennis non sfugge alla regola di una realtà generale ormai orientata solo sull’immediato presente, nella quale la stretta specializzazione vince sulla completezza e su percorsi che abbisognano di tempo, fatica e applicazione costante. Semplificando, un giocatore di qualunque livello si chiederebbe il perché di tanta fatica quando per conquistare il punto bastano solo servizio e dritto. Ed ecco materializzarsi un Roddick, un Berdych, un Tommy Robredo o un Nick Bollettieri, fate voi. Però prima non si può mai dire e ci piace pensare che questo libro sarà come il colpo perfetto di Tilden, non il più appariscente o spettacolare ma quello giusto al momento giusto, sul quale fondare un vero rinascimento del gioco. Del resto ogni viaggio comincia da un passo e quando al circolo noteremo questo libro sotto il braccio degli istruttori dei nostri figli sapremo che il cammino è iniziato.

Se siete veri amanti del gioco del tennis, se in cielo vedete una Dunlop gialla invece del sole dovete leggere questo libro. Se invece amate semplicemente le buone letture… fate lo stesso.

 

Raffaello Esposito

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