Il signore in rosso (Crivelli). Tennis, finale triste di partita. Al Foro Italico erbacce e silenzio (Sisti)

Rassegna stampa

Il signore in rosso (Crivelli). Tennis, finale triste di partita. Al Foro Italico erbacce e silenzio (Sisti)

La rassegna stampa di domenica 17 maggio 2020

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Il signore in rosso (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Sarebbe stato l’ospite d’onore del torneo al via il 24 maggio e il giorno della finale maschile, il 9 giugno, avrebbe consegnato la Coppa dei Moschettieri al vincitore. Perché l’edizione 2020 del Roland Garros, per Nicola Pietrangeli, rappresentava un ricordo indelebile: sessant’anni fa, per la seconda volta in carriera (la prima fu l’anno precedente) Nick si consacrava re di Parigi battendo in finale il cileno Ayala 3-6 6-3 6-4 4-6 6-3. Ecco perché gli organizzatori lo avevano investito del ruolo di gran cerimoniere: la speranza di tutti è che possa comunque adempiere al suo compito dal 20 settembre al 4 ottobre, le nuove date scelte dalla Federazione francese per salvare il secondo Slam stagionale e provare a ripartire dopo il lungo e drammatico stop imposto dalla pandemia di coronavirus.

Nicola, c’erano privilegi particolari per il campione in carica?

Uno solo: mi consentivano di arrivare fin sotto lo stadio con l’automobile dell’organizzazione.

E la pressione del pronostico? Lei era chiamato a confermarsi dopo la prima vittoria del 1959.

Pressione zero, perché io ho sempre affrontato i tornei, che fossero quello di Viareggio o il Roland Garros, con lo stesso spirito: divertirmi e cercare di giocare al meglio delle mie possibilità. E poi l’atmosfera era diversa, nel circuito eravamo quasi tutti amici e non c’era l’ossessione del risultato da parte dei tifosi e dei media.

Lei cominciò quell’avventura da testa di serie numero sei.

Infatti ero incavolato come una bestia, da campione in carica avrei meritato un trattamento migliore. Soprattutto, nei quarti avrei dovuto affrontare il numero tre, che era lo spagnolo Gimeno, fortissimo sulla terra. Infatti andò proprio così e per fortuna riuscii a batterlo, anche se non ricordo nulla di quella partita, incredibile ma vero. Le uniche memorie che ho sono quelle della finale contro Ayala. Fu una partita terribile. Lui mi conosceva bene, sapeva che non ero un’aquila negli spostamenti in avanti e mi massacrò con le palle corte, chiamandomi a rete per poi passarmi con il lob. Una faticaccia, amplificata dalle vesciche a piedi. Avevo delle scarpe nuove, erano così morbide che sembravano pantofole e praticamente era come giocare scalzo. Per fortuna dopo il terzo set allora c’era la pausa e mi feci medicare. Ma dopo la finale per qualche giorno ho dovuto tenere i piedi a bagno.

Quanto guadagnò per la vittoria?

Il premio era di 150 dollari, circa 93.000 lire. A Roma vivevo in una casa in affitto a 55.000 lire al mese. In pratica, con il successo a Parigi ci pagai a fatica due mensilità… Fino all’Era Open il tennis non era proprio uno sport “ricco”. A Parigi e a Wimbledon la federazione ci pagava l’albergo, ci passava una piccola diaria e poi ci dava qualche soldo sottobanco per sopravvivere. Ma a New York e in Australia dovevamo pagare noi: e infatti non ci andavamo. Le racconto questo: nel 1964 andai in finale contro Santana e prima della partita facemmo una scommessa: la sera, lo sconfitto avrebbe pagato la cena. Persi e onorai l’impegno: eravamo in dieci, c’erano le nostre mogli e degli amici, tra cui Luisito Suarez invitato da Manolo. Con il premio, coprii a malapena la serata. L’anno scorso Thiem, sconfitto in finale, ha preso un milione e duecentomila euro: sa quante serate si sarebbe potuto permettere? […]

Nel 1976, con lei capitano di Davis, Panatta riportò un italiano sul trono del Roland Garros. Le chiese consigli durante il torneo?

Non ne aveva bisogno, in quel momento ogni palla che toccava era magia. L’avversario più pericoloso fu Borg, ma Adriano ha sempre avuto le armi per disinnescarlo. Tra l’altro io rimasi solo la prima settimana, perché quella dopo viaggiai a Caracas dove avevano promesso di coinvolgermi in un affare milionario. Ovviamente non vidi un soldo.

A proposito di Davis, a dicembre di quell’anno arrivò anche lo storico trionfo di Santiago. Che tipo di gioia fu?

Chiaramente da giocatore gioisci da solo e in un certo senso è più appagante, ma una vittoria di squadra esalta il tuo lavoro complessivo. Anche se continuo a ritenere che un capitano più che altro non debba fare danni: in campo vanno i giocatori, e lui deve essere solo bravo a passare l’asciugamano. Sono le relazioni fuori dal campo, a complicare il ruolo. C’è solo un merito che mi prendo di quel successo, e lo rivendicherò fino all’ultimo dei miei giorni. Senza il mio impegno, quella trasferta non si sarebbe fatta e noi non avremmo vinto l’unica Davis della nostra storia. Per questo, dopo l’ultimo punto del doppio Panatta-Bertolucci, mi sono tolto dalle spalle un peso di cinque tonnellate.

Sessant’anni dopo il secondo trionfo a Parigi, c’è ancora qualcosa che fa arrabbiare Pietrangeli?

L’assurda divisione delle statistiche tra il prima e il dopo l’Era Open. Il tennis è uno solo. A parte i tornei, io sono stato tra i primi dieci del mondo per un decennio e mi piacerebbe che fosse riconosciuto.

Intanto, per ripartire dopo la pandemia, la federazione ha ripristinato gli Assoluti, che ai suoi tempi erano un appuntamento di prestigio e che lei vinse sette volte.

Una bella idea. Ma proprio perché credo di aver rappresentato qualcosa per il nostro tennis attraverso i Campionati Italiani, mi ha fatto male non ricevere nemmeno una telefonata per dirmi che li riproponevano.

Tennis, finale triste di partita. Al Foro Italico erbacce e silenzio (Enrico Sisti, La Repubblica – Roma)

Oggi è in programma la finale del singolare maschile degli Internazionali d’Italia. Andiamo presto al Foro Italico. In giro non c’è ancora nessuno. Da una parte, dove c’è la walk of fame dello sport italiano, la strada è transennata. Vento caldo, l’estate sta arrivando. Si respira malissimo. Passano i minuti. Non cambia una virgola. In effetti ci siamo sbagliati. Non soltanto non c’è nessuno, ma addirittura non c’è niente. L’impianto che avrebbe dovuto ospitare la festa del tennis pare abbandonato da anni. Il lascito del virus regala una sensazione da scenario post-atomico. Il parcheggio è vuoto. In più punti, il marchio del lockdown è un nastro della municipale che avverte di non oltrepassare la zona. Come se tra il dentro e il fuori vi fosse una qualche differenza, come se qui non fosse tutto zona morta. Dov’è la finale? Non c’è. Non ci sarà. Il giorno di chiusura degli Internazionali d’Italia 2020 non ha nulla da chiudere. Perché non c’è stato alcun torneo. In questo spicchio di Roma in cui tutto parla di sport, il tempo si è fermato. E’ chiuso anche il circolo. L’erba è cresciuta negli interstizi dei mosaici, ai bordi dell’asfalto, sui percorsi che in teoria avrebbero dovuto occupare gli stand, le bancarelle e le postazioni tv. Aumentando la desolazione e interiorizzando il degrado. I campi di allenamento sotto il Centrale sono rinsecchiti e la loro terra riarsa, quasi giallastra, si accoppia al cielo color sabbia che ingrandisce le dimensioni cromatiche di questo deserto senza tennis. Le statue del Pietrangeli paiono anch’esse sbalordite, forse per mancanza di umanità. Appoggiati qua e là, si notano decine di sacchi di terra rossa pronta per la manutenzione. Ma per ora non ce ne sarà bisogno. […] Dicono che gli stadi vuoti siano suggestivi almeno quanto lo sono da pieni. Non stavolta. Il Foro senza tennis è un pugno nello stomaco, un fiume d’amore prosciugato. Che non ti dai pace. Che pensi: quanto sarà complicato tornare al passato, travestito da futuro, scavalcando il presente?

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