Prima dell’arrivo dei Big Three, era il tennis femminile a registrare i record più impressionanti, rendendo usuale un palmares ampiamente in doppia cifra a livello Slam e la convivenza di più campionesse capaci di fare incetta di trionfi. Chris Evert è una delle espressioni più concrete di quell’oligarchia, con i suoi 18 Slam (gli stessi dell’amica-rivale Martina Navratilova) fra cui spiccano in particolare i sette titoli parigini, la sintesi perfetta di un dominio sul rosso che solo Nadal ha saputo eguagliare e forse superare.
Oggi cadono due anniversari legati a Chris e alla terra battuta: da una parte, è il trentasettesimo anniversario del suo quinto titolo francese (il suo quindicesimo Slam totale), ottenuto con un classico 6-1 6-2 in 65 minuti contro Mima Jausovec; dall’altra, però, è il trentanovesimo della sconfitta patita nella semifinale di due anni prima contro Hana Mandlikova (che anche nell’83 le avrebbe strappato un set), che aveva concluso la parentesi più dominante a livello di superficie nella storia del tennis. Vi immaginate essere talmente superiori da poter cancellare la data di una sconfitta con una vittoria Slam? Lei può.
Le cifre della sua dittatura sono quasi difficili da commentare, sconfinando nel regno degli e-sports per la loro ipertrofia. Un esempio sono le 125 vittorie consecutive sulla superficie, ottenute su un arco di sei anni, con un totale di otto set persi e 71 bagel inferti alle malcapitate avversarie.
Come se non bastasse, la striscia sarebbe andata vicinissima alle 200 (duecento) se non fosse stato per la sconfitta patita a Roma contro Tracy Austin nel 1979, a cui fecero seguito altre 72 vittorie, che portano il suo record fra il ’73 e l’81 a 197-1. Lei stessa in un’occasione ha detto: “Fra tutti i miei successi nel tennis, il record sulla terra battuta mi rende orgogliosa quanto qualsiasi vittoria a Wimbledon, al Roland Garros o allo US Open“.
Il corollario di questo rifiuto della sconfitta (e lei stessa una volta disse che “un campione odia la sconfitta più di quanto ami la vittoria“, atteggiamento decisivo sulla terra, dove la volontà la fa da padrona, non essendo una superficie conduttiva a vittorie fatte di soli vincenti) è che la percentuale di Evert sul rosso non potrà mai essere eguagliata, attestandosi al 94.55%, frutto di 382 vittorie totali su 404 incontri, che sono a loro volta il motivo principale di un’altra percentuale da record, quella delle vittorie ottenute nell’Era Open – in questo caso il suo rendimento si ferma a un amen dal 90%.
I suoi sette successi a Parigi, che in qualunque altra epoca sarebbero parsi un’enormità, oggi rischiano di apparire quasi normali per una N.1, mitridizzati come siamo dai record dei Big Three e in particolare dalle 12 Coppe dei Moschettieri che hanno preso la via di Manacor.
In realtà, però, bisogna fare un paio di distinguo: innanzitutto, Evert ha vinto 10 Slam sulla terra, una cifra molto vicina a quella di Rafa, perché vanno inclusi nel computo anche i tre successi di Forest Hills, che nei suoi ultimi tre anni da sede dello US Open passò dall’erba all’Har-Tru, la terra verde. Chris le portò a casa tutte, perdendo un set in tre anni, nella finale del ’75 – ricordiamo che anche il suo fiancé, Jimmy Connors, fece tre finali su tre sulla terra newyorchese, vincendone però solamente una.
Il secondo caveat da tenere a mente è che Evert disertò il Roland Garros per tre edizioni, quelle comprese fra il 1976 e il 1978, in favore del World Team Tennis, scelta non inusitata per l’epoca, se pensiamo che Connors stesso saltò cinque edizioni di fila e che persino Bjorn Borg decise che Parigi non valesse una messa nel 1977.
Se Evert avesse vinto quelle edizioni, com’è ragionevole pensare che avrebbe fatto, sarebbe arrivata in doppia cifra a Bois de Boulogne. In fondo, aveva già vinto due volte lì, e le campionesse in contumacia furono Sue Barker, Mima Jausovec (proprio l’avversaria del 1983) e Virginia Ruzici, contro le quali Evert ha accumulato un record di 58 vittorie e una sconfitta, ed è pertanto difficile pensare che le sarebbero state d’intralcio.
Posto che lei, ancora in formissima e sempre impegnata nella gestione della sua Academy in Florida, difficilmente starà sveglia la notte pensando a quelle tre edizioni snobbate, un altro paio di cose vanno dette – più la sua entità, infatti, è la natura delle vittorie di Evert a colpire.
Innanzitutto, i suoi successi sul rosso hanno per una volta avvicinato il tennis americano, che all’epoca dominava le classifiche, a questa superficie, mettendola a capo di una generazione di atleti a stelle e strisce che si sapevano adattare anche a campi più lenti, i cui frutti nel maschile si vedranno nel decennio successivo, quando per un lustro ci sarà sempre uno Yankee in finale a Parigi, un evento senza precedenti prima e dopo.
Soprattutto, però, va ricordato come lo straordinario agonismo del suo gioco fosse contrastato da una sportività e da un’educazione senza pari, che le hanno lasciato in eredità una reputazione da fidanzata d’America e schiere di ammiratori fra i suoi colleghi, compresa l’avversaria di 80 match Navratilova e John McEnroe, che di lei ha detto, sintetizzandola benissimo: “Era un’assassina che indossava bei vestiti e diceva sempre le cose giuste, ma intanto ti faceva a pezzi“.
In ogni caso, se nel tennis la parità di genere è un tema all’ordine del giorno, è perché campionesse come Evert hanno elevato il tennis femminile con il loro carisma e con i loro record, soprattutto negli Stati Uniti, dove Title IX (la legge del 1972 contro le discriminazioni di genere in relazioni ad attività finanziate dal governo federale) ha fatto sì che tante ragazzine potessero provare ad emulare i loro idoli. Se si vuole parlare di una legacy sportiva, è difficile fare meglio di così.