Roddick e la finale di Wimbledon 2009: "Mi sono sentito come chi cerca di sparare a Bambi"

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Roddick e la finale di Wimbledon 2009: “Mi sono sentito come chi cerca di sparare a Bambi”

Andy, in diretta Facebook con la Hall of Fame di Newport, torna a parlare della sua sconfitta più dolorosa e rivela come è nato il suo servizio devastante

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Roddick e Federer - Finale di Wimbledon 2009
 

Il 23 luglio 2017 Andy Roddick veniva introdotto nella Hall of Fame del tennis con una cerimonia ufficiale in quel di Newport. Nonostante 32 titoli vinti in carriera, tra cui spiccano un titolo Slam (US Open 2003) e 5 Master Series/Masters 1000, e 13 settimane da numero uno del mondo, ancora oggi Andy è ricordato molto di più per le sconfitte che per le vittorie.

In particolare è uno il match che salta sempre fuori a perseguitare Roddick, la sciagurata (per lui) finale di Wimbledon 2009. La storia è nota: una delle migliori versioni mai viste dello statunitense (se non la migliore) mette alle corde Roger Federer, allora già vincitore di cinque titoli ai Champioships, arrivando ad avere quattro possibilità consecutive di portarsi in vantaggio due set a zero. Roger annulla i primi tre con un mezzo miracolo di rovescio e due servizi vincenti, il quarto sfuma per un’orrida volée di Roddick. Lo svizzero vincerà il set e, non senza soffrire, finirà poi per portarsi a casa la partita per 16-14 al quinto.

Proprio di quella partita è tornato a parlare Roddick nel corso di una diretta Facebook con la Hall of Fame di Newport. Quel giorno si trovò dal lato sbagliato della storia, lui che di finali a Wimbledon ne aveva già perse due, sempre contro Roger, e che col senno di poi quella coppa con l’ananas l’avrebbe senza dubbio meritata. Di là dalla rete però Federer era a caccia di uno storico sorpasso. Vincendo quell’incontro raggiunse quota quindici Slam, staccando Pete Sampras nella classifica dei plurivincitori. Forse anche un po’ questo tipo di pressione, quella strana sensazione di essere per tutti il cattivo della situazione, ha pesato nell’economia del match. “Il Royal Box, in termini del calibro degli ex giocatori che erano lì per assistere all’impresa di Roger, mi ha fatto sentire come il tipo che stava cercando di sparare a Bambi, quel giorno“, ha scherzato a tal proposito Roddick. “Esci e vedi che Sampras è lì, e sai che è lì perché lui e Roger hanno entrambi 14 titoli del Grande Slam. Sicuramente senti il ​​peso del momento“.

Roddick però non è certo il tipo che piange sul latte versato, anzi con la sua solita ironia (e forse anche una punta di amarezza) decreta ufficialmente quella partita come suo personalissimo “tormentone da Starbucks“, ovvero la storia che un qualunque fan incontrato in un caffè vorrebbe approfondire. “Se sei fortunato come tennista, hai quel momento in cui vai in qualsiasi Starbucks e le persone vogliono saperne di più. Questa è la mia partita da Starbucks. Non lo sono né gli US Open né finire l’anno da numero uno del mondo“.

Nel corso della chiacchierata, Roddick ha anche svelato la genesi del suo colpo distintivo: il servizio. Per anni rispondere alla sua battuta è stato l’incubo di tutti sul circuito, anche per via di un movimento brevissimo e un po’ ‘scattoso’ di non semplice lettura. La storia alla base della nascita del mito di A-Rod è davvero inaspettata e divertente: “Mi stavo allenando al liceo con Mardy Fish e mi stava rullando. Mi sono un po’ inalberato, quindi ho fatto questo piccolo mezzo movimento e il servizio è entrato. Poi il successivo è entrato abbastanza forte ed è così che è iniziata”, ha detto Roddick. “Non era intenzionale, non stavo cercando di essere creativo o innovativo. Ero arrabbiato ed è successo in una sorta di scatto d’ira“.

Il ritiro di Andy nel 2012, a 30 anni, visto con gli standard odierni sembra prematuro, ma i casi di Federer e Nadal sono eccezioni e soprattutto sono frutto di una programmazione oculata, al limite del maniacale. “Quando mi infortunavo e mi dicevano di stare fuori per sei settimane, provavo sempre a tornare dopo tre o quattro. Prendiamo ad esempio il precedente che Roger e Rafa hanno creato, cioè il tornare a giocare solo quando si è completamente ristabiliti e in forma, cercando il picco di prestazione in determinati periodi… si mettono il paraocchi e decidono cosa è meglio per loro“. Guardandosi indietro forse qualche accorgimento simile avrebbe potuto allungare la sua carriera, ma in fondo Roddick non sembra crederci poi molto. “Probabilmente ero un po’ troppo insicuro delle mie capacità per sedermi in disparte e provare a pianificare bene. Penso che sarei stato in grado di giocare un po’ di più se mi fossi dato un certo ritmo di allenamenti e fossi stato un po’ più intelligente nella programmazione“.

L’onore di entrare a far parte della Hall of Fame, in quella ristretta cerchia di “immortali” del tennis, rimane e rimarrà il miglior premio possibile alla carriera di Roddick. Il suo ricordo più bello di quel momento però non riguarda la cerimonia in sé, ma la sera prima, trascorsa con i vecchi compagni di viaggio e la famiglia. “Quando ti ritiri, tutti quelli che orbitavano intorno al tuo tennis passano alla fase successiva, che sia la famiglia o alcuni di loro che rimangono sul Tour“, ha detto Roddick. “Avere avuto una scusa per riunire tutti, bere una birra e giocare a ping-pong la sera prima con tutti quelli che mi hanno aiutato lungo il cammino, è probabilmente uno dei miei ricordi preferiti“.

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