Cambia il film a New York. I nuovi Fantastici Quattro (Crivelli). C'è un orso a New York. E si chiama Medvedev! (Azzolini). Geniali, allegri, rissosi: l'altro Peppino di Capri racconta i re del tennis (Il Mattino)

Rassegna stampa

Cambia il film a New York. I nuovi Fantastici Quattro (Crivelli). C’è un orso a New York. E si chiama Medvedev! (Azzolini). Geniali, allegri, rissosi: l’altro Peppino di Capri racconta i re del tennis (Il Mattino)

La rassegna stampa di venerdì 11 settembre 2020

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Cambia il film a New York. I nuovi Fantastici Quattro (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Il Favorito. Il Maturato. Il Predestinato. L’Imbucato. Il film dell’edizione più surreale, causa pandemia, degli Us Open ha scremato i suoi protagonisti, e per la prima volta dopo sei anni assisteremo a una scena madre, cioè a una partita per il titolo, che ci darà un nuovo campione Slam. Era dal 2014, quando Cilic si impose proprio a New York, che uno dei quattro tornei più importanti non incoronava una matricola: evidentemente ci volevano la straordinarietà del Covid e la piccola follia della pallata di Djokovic per scrivere una pagina diversa del romanzo. La vera finale? Il Favorito della storia è Dominator Thiem, perché e il più alto in classifica rimasto (numero 3) e perché alle spalle ha già tre finali Slam (due a Parigi e una in Australia) perse contro Nadal e Djokovic: siccome i Fab Three, tra scelte personali (Rafa), infortuni (Federer) e gesti inconsulti (Nole) hanno lasciato la strada libera, è ovvio spostare lo sguardo sull’austriaco.

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con un crescendo degno dei compositori suoi connazionali, Thiem agli Us Open ha acquisito fiducia e condizione col passare delle partite, fino all’esecuzione perfetta nei quarti contro De Minaur, travolto con 43 vincenti e uno straordinario rendimento alla risposta

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Ora però viene il bello, in quella sorte di finale anticipata contro il Maturato, al secolo Daniil Medvedev, il russo finalista un anno fa che conferma il grande sentimento con Flushing Meadows e non ha ancora perso un set. Dominator gli riserva parole al miele: «Mi sembra sia vicino al rendimento di Djokovic e Nadal, sarà una battaglia durissima». Medvedev è uscito dal match con Rublev un po’ ammaccato a una spalla, ma non mette limiti ai suoi orizzonti di gloria: «Solo stanchezza, dopo tanti mesi di stop è stato difficile gestire la condizione atletica». Di lui, oltre alle solite capacità di adattamento alle caratteristiche degli avversari, ha colpito fin qui la serenità con cui ha affrontato la pressione che ormai lo accompagna

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L’altra sfida L’attenzione della semifinale nobile toglierà luce, ma pure tensioni, all’altra, quella tra il Predestinato Zverev, approdato dove tutti lo pronosticavano da ragazzino, e l’Imbucato Carreño Busta, che però una semifinale a New York l’ha già giocata nel 2017 e non avrà nulla da perdere.

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C’è un orso a New York. E si chiama Medvedev! (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Se gioco bene, posso battere chiunque». Banale? Forse. La frase in effetti è abusata. In tanti, nel tennis, la spargono per mari e monti, e ugualmente fa Daniil Medvedev quando parla di sé, con quell’aria di chi ha finito da poco di annoiarsi e teme fortemente che le domande cui dovrà rispondere finiranno per annoiarlo anche di più. Eppure, il seguito è interessante. «Attenti, però…», mette in guardia, «Quando gioco male, non tutti riescono a battermi». È un ragazzo in fiducia, il russo trasferitosi tre anni fa sulla Croisette. Gilles Cervara, che lo sopporta nel tour e lo supporta allenandolo sui campi dei Giardini di Cannes, lo descrive come uno dai mille volti, uno che sa trasformare se stesso in corso d’opera. Zelig, il riferimento più ovvio.

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E invece nasconde risorse infinite, autentici calembour stilistici, nei quali – come nei giochi di parole – i colpi si presentano in forma sempre rinnovata, e mai vista prima Un grande prestigiatore, Daniil. Un po’ annoiato, ma pazienza. Pochi ciuffi sulla testa, più simili a baffoni migrati ai piani superiori, Daniil ha un’aria da intellettuale e una moglie silente. Lei si chiama Daria, si sono sposati due anni fa L’unica frase che le sia stata attribuita dice così: «Io e Bear ci vediamo molto meno di quanto si vedano lui e Cervara». Bear è il nickname casalingo di Daniil, facilmente spiegabile. Orso in russo si dice medved. Finalista un anno fa, prima travolto da Nadal, poi capace di riprendere il match e portarlo al quinto, Daniil sembra il favorito dei quattro che si giocano le semifinali di questo Slam nella bolla

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Anche Thiem è stato finalista Slam (a Parigi e in Australia), ma sul cemento Medvedev si lascia preferire, e sa come rendere viscida e saponosa la palla che Dominic ama colpire a tutto braccio. Due a uno per l’austriaco, i precedenti, ma l’ultimo, sul cemento canadese, un anno fa, è stato per il russo. E a mani basse. Non basta .. Daniil è l’unico in questo Slam ad aver segnato finora un percorso netto. Cinque vittorie in tre set. Le prime quattro all’apparenza facili, si dirà, ma la regola è valsa anche contro Andrey Rublev, nei quarti. E Rublev era dato in grande forma Thiem invece un set l’ha lasciato andare, contro Cilic, e in primo turno ha usufruito di un ritiro, contro Munax allievo della Nadal Academy.

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Una vittoria di Thiem spingerà l’austriaco a una manciata di punti da Nadal. Medvedev invece può scavalcare Federer e relegarlo sulla quinta poltrona. Meno attraente l’altra semifinale, fra Sascha Zvereve Pablo Carreno Busta, lo spagnolo che non gioca come Rafa (fra i pochi a non eccedere nello spin). Sascha ha voglia di salire in alto, di provare l’ebbrezza di un ruolo da protagonista. Ha vinto una Finale Atp, sembrava pronto per il grande passo, ma continua a ripetere errori banali (giocare due metri dietro la linea di fondo, per uno con i suoi colpi, e davvero incomprensibile) e ha ottenuto finora assai poco negli Slam. Giusto una semifinale, a gennaio, in Australia (battuto da Thiem). Davanti a sé dunque, c’è il match della svolta

Geniali, allegri e rissosi: l’altro Peppino di Capri racconta i re del tennis (Il Mattino)

L’altro Peppino di Capri ha cominciato a girare il mondo giovanissimo. E non per cantare. Prima per imparare le lingue (ne parla cinque) e lavorare, poi per i grandi tornei di tennis. Giuseppe Di Stefano a 73 anni ha raccontato la sua storia di arbitro internazionale – oltre 5000 partite dal 1974 al 2012 – nel libro “Sotto la sedia” (pag. 224, euro 12,50, LeVarie), scritto con la collaborazione dei giornalisti Marco Caiazzo e Marco Lobasso e la prefazione di Nicola Pietrangeli. Un lungo viaggio cominciato 46 anni fa iscrivendosi a un corso per giudice di linea. Ne ha fatta di strada, il caprese piccolo di statura, dalla parlantina sciolta e dal sorriso largo. Tanti e gustosi i particolari raccontati da Di Stefano, alcuni anche piccanti, come l’ammirazione non solo tennistica per Lea Pericoli

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Del rapporto con Martina Navratilova, invece, ricorda un altro particolare: «La sua stretta di mano: ci volevano due delle mie». John McEnroe, una delizia per il pubblico e una croce per gli arbitri, in una finale a Stoccarda contro Ivan Lendl contestò con violenza una decisione di Di Stefano e ruppe una racchetta

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McEnroe lo chiamava Pipino, Lendl invece Peppe. il rapporto con Ivan fu spesso teso, anche se l’ex arbitro aveva intuito che le proteste e le perdite di tempo erano soprattutto una strategia per innervosire l’avversario. Ma una volta il giudice perse il suo aplomb e convocò Ivan alla sedia, per dirgli: «Adesso taci, mi hai rotto le palle, chiudiamola qui». Ion Tiriac lo chiamava “Spaghetti napoletano” con un beffardo sorriso. Un matto, il romeno, che una volta sfilò la scarpa dell’arbitro in segno di protesta. Coinvolgente l’allegria di Noah, che dopo la vittoria della Francia in Davis provò a gettare Di Stefano in piscina. La tristezza per il ricordo di Michael Westhphal, il primo tennista morto di Aids, a 26 anni, nel 1991. «Abbandonò durante un match: “Non ce la faccio”. Pochi mesi dopo morì». E poi l’affetto per Panatta. «Quel coro “Adriano Adriano” agli Internazionali di Roma non avrei potuto interromperlo neanche se fosse durato cinque minuti».

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Di Stefano, che sui campi di tutto il mondo era presentato dagli speaker come l’arbitro che arrivava “dal sole dell’isola di Capri, Italia”. E Borg? «Come Edberg, quando qualcosa non gli andava a genio mi guardava con una faccia che diceva molto di più di un’arrabbiatura».

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