New York 1977, tennis e follie (Azzolini)

Rassegna stampa

New York 1977, tennis e follie (Azzolini)

La rassegna stampa di domenica 28 febbraio 2021

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New York 1977, tennis e follie (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Al centro di Pennsylvania Plaza, sulla 7a Avenue che gli scorre davanti, il Madison Square Garden ha la forma di un panettone. Vetri scuri a doppia tonalità e infissi in alluminio anodizzato. E’ il quarto della serie, ricostruito nel 1969 con una spesa di 200 milioni di dollari e ormai lontano dalla Madison Avenue di cui conserva gelosamente il nome, che ospitò le prime due arene (1879-1889, 1890-1924). Più semplicemente, the Garden, per i newyorker, che ne fecero il centro della boxe mondiale e della Nba del basket, ma anche una sala da musica e una sala da tennis. La sede più naturale del Masters, l’unica che potesse narrare i ricordi già lontani dei tornei professionali anni Cinquanta e raccordarli con l’avvento dei campioni della Nuova Era, quella del tennis aperto. Il torneo dei più forti vi giunse nel 1977. «La storia di un’estate, di una città, di tennis e di spari, di sommosse e di saccheggi, di soavi palline bianchissime. Una storia di gentiluomini e di malfattori, di assassini e di sopravvissuti, di palazzi che bruciarono fino alle fondamenta», scrive Corrado Erba nelle pagine iniziali del suo bel libro “Tennis e Follia a New York” (Edizioni Slam, Absolutely Free Libri). Furono i mesi degli incendi nel Bronx, dei Guerrieri della Notte che agivano come truppe scelte, della sofferenza di interi quartieri che il sindaco Beame giudicò irrecuperabili e lasciò andare a se stessi. Anche il tennis partecipò attivamente al clima di follia che sembrava essersi impossessato della città. Il 1977 vide l’ultimo US Open sui campi in terra verde e grigia del West Side Tennis Club a Forest Hills, fra le proteste dei cittadini del piccolo borgo dei ricchi, con le case più belle affacciate sull’Oceano Atlantico, che sfilavano con cartelli e slogan per evitare che il torneo migrasse verso Manhattan, nella sede attuale di Flushing Meadows. Nei giorni del torneo, un colpo di pistola venne sparato dai piani alti delle tribune del Centrale e ferì al piede uno spettatore, i tennisti protestarono a lungo per la decisione di far giocare due set su tre fino ai quarti, per poi passare a tre su cinque dalle semifinali. Era una richiesta della CBS, pagata milioni di dollari. Mike Fishback scese in campo con la sua Head munita di doppia incordatura e da tennista di umili origini si trasformò in una divinità vendicatrice, capace di stracciare Billy Martin e il primo vincitore del Masters, Stan Smith. Ma niente attrasse le polemiche come l’iscrizione al torneo di Renee Richards, prima transessuale a schierarsi nel tabellone femminile. Aveva ormai più di 40 anni, e da uomo, Richard Raskind, dentista a Los Angeles, non era mai andato oltre qualche onorevole torneo sociale. Alta più di un metro e novanta, Renee venne sconfitta subito in singolare da Virginia Wade, ma raggiunse la finale in doppio, scatenando l’ira di molte delle partecipanti. Fu l’inizio di una breve carriera nel circuito femminile, che la condusse alla conquista di sei trofei e al numero 20 della classifica, per poi diventare allenatrice di Martina Navratilova. Il torneo lo vinse Guillermo Vilas, e Jimmy Connors prese la sconfitta come un affronto personale. Aveva incassato il primo set e dava per scontato che il match sarebbe finito nella propria bacheca, già stracolma di allori. Ma Vilas seppe recuperarne i fili, e con i dritti pesanti e mancini cominciò a manovrare Jimbo da un lato all’altro, fino a stracciargli l’anima. L’ultima chance, quella su cui Connors si attaccò per decretare che il match gli fosse stato rubato, venne sul quarto match point. Guillermo cercò il passante sull’ennesima incursione di Jimbo a rete, e l’americano esplose una volée che sarebbe bastato accompagnare a mezza potenza per ottenere il punto. Palla vicino alla riga. Connors non ebbe dubbi: «Punto mio», disse. Anche Tiriac, coach di Vilas, lì vicino, non ebbe dubbi: «Punto suo», fece, indicando Guillermo. Il giudice di linea si prese il suo tempo, poi decise che il colpo fosse fuori. Connors rifiutò di restare in campo per la premiazione. «Per me questo match non è ancora finito», fece sapere, dimenticando che anche lui aveva qualcosa da farsi perdonare. In semifinale, contro Corrado Barazzutti, su una palla decisamente fuori che l’italiano si affannava a mostrare all’arbitro, chiedendo che scendesse dal trespolo per controllare, raggiunse Corrado alle spalle, quasi di soppiatto, poi gli sfilò davanti con movenze da marionetta, e cancellò con il piede il segno. «Signor Connors, certe cose non si fanno», disse bonario l’arbitro, mentre dalle tribune venivano giù salve di fischi. Era una palla che non avrebbe cambiato il match, saldamente nelle mani di Connors, ma forse lo avrebbe allungato. Magari solo di un po:.. […] A New York i tennisti erano di casa, e la loro casa era al numero 254 della 54a West, tra la 78 e l’88 Avenue, non così distante dal Madison Square Garden. L’indirizzo era quello dello Studio 54, dove si entrava solo se si era un bel po’ strani, molto ammanicati o molto famosi. La bellissima Bianca Jagger, moglie ormai a un passo dal divorzio da Mick Jagger, vi era entrata su un cavallo bianco, il ballerino Sterling St. Jacques si faceva accompagnare da Khaym the Cheetah, il suo ghepardo, al quale metà locale offriva champagne in una coppa d’argento, con le conseguenze che potete immaginare. Andy Warhol si divideva tra la sua Factory e le serate nella discoteca. Vitas Gerulaitis parcheggiava lì vicino la Rolls che faceva impazzire d’invidia John McEnroe («Lui viveva in questa villa incredibile a King’s Point, girava con una Rolls targata VITAS G, mentre io stavo dai miei e la mamma ancora mi faceva il bucato», confessò Mac anni dopo) e nel breve tratto a piedi fino all’ingresso dello Studio, sceglieva le ragazze più belle tra quelle in attesa davanti al portone. Le faceva entrare come sue accompagnatrici. Ilie Nastase aveva un tavolo fisso. «Se avete bisogno di me, sapete dove trovarmi», lasciava detto agli organizzatori, costretti a telefonare allo Studio 54 per comunicare al rumeno i turni di gara. Quando venne scelto il Madison Square Garden per rivitalizzare il Masters, che dopo Tokyo (Stan Smith) e Parigi (Ilie Nastase) era finito nel giro di città tutt’altro che glamour, come Barcellona (Nastase), Boston (Nastase), la lontanissima Melbourne (Vilas), Stoccolma (Nastase) e Houston (Orantes) dove più di un big preferì non andare, per i newyorker ancora affranti dal lungo anno orribile fu la conferma che il peggio era passato. La Grande Mela poteva tornare finalmente alla sua dimensione di metropoli di affari e di turismo, di spettacoli e grandi alberghi sempre sold out. […] Fu americano il primo torneo del Garden, vinto da un Connors in assetto da marine, pronto a cancellare i fischi dello US Open perso con Vilas, e lo fu anche il secondo, con il ragazzino di casa McEnroe che già tutti chiamavano Genio, anzi McGenius. Ma dalla terza stagione entrarono in scena i giganti europei, prima Borg, poi Lendl, infine Becker e Edberg. E al termine dei tredici anni in cui il Garden mantenne il Masters nel proprio cartellone di eventi, le vittorie americane furono appena quattro, una di Connors e tre di McEnroe, quelle europee addirittura nove, con cinque colpi di Ivan Lendl, due di Borg, e uno a testa per Becker e Edberg. Era giunto il momento di tentare l’avventura in Europa. Ma il Madison rimase per anni nel cuore del tennis, «il nostro chalet per l’inverno», come lo chiamava McGenius.

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