L’esperimento di Leo Borg: portare con leggerezza un nome pesante (da 'Slalom')

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L’esperimento di Leo Borg: portare con leggerezza un nome pesante (da ‘Slalom’)

Come accettare di essere un comune mortale quando tuo padre è stato un mostro sacro? Per molti nella Storia è stato impossibile: dal figlio di Mozart ai figli di Dante e Giotto. Leo Borg ci prova

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Leo Borg e Bjorn Borg
 

Il testo che vi proponiamo di seguito è tratto dalla newsletter ‘Slalom’, curata da Angelo Carotenuto – ex giornalista della Gazzetta dello Sport ed ex responsabile delle pagine Sport di Repubblica – della quale vi abbiamo già parlato qui. Se Slalom vi incuriosisce, si può ricevere in mail ogni mattina abbonandosi QUI.


Dei mille e più modi di essere figli e uccidere il padre, i fratelli Karamazov ebbero esperienza del meno metaforico di tutti. Le cose vanno da sempre così. Metti al mondo un bambino e lo condanni ad avere per sempre a che fare con te. Il pianista e compositore Franz Mozart si logorò tutta la vita nella consapevolezza di non poter raggiungere mai papà Wolfgang, del quale gli avevano pure dato il nome aggiungendolo al suo. Come se non bastasse, lo mandarono a scuola da Salieri. Francesco Bondone, figlio impavido di Giotto, fu pittore. Jacopo Alighieri si diede a commentare la Commedia e il fratello Pietro azzardò rime. Durante la sua drammatica esistenza, Christian Brando provò a scartare di lato e fu taglialegna, pescivendolo, muratore, macellaio, ma non ce la fece, recitò lui pure, per essere almeno un poco Marlon, in piccoli ruoli o da comparsa. Frank Sinatra non ebbe neppure la gioia di un nome tutto suo, fu per il mondo junior, e che poteva fare: duettò in giro per il mondo col papà.

Dei mille e più modi di essere figli, sul lato opposto del diagramma sta Judith Shakespeare, figlia di cotanto William, ma analfabeta. Sua sorella Susanna aveva a stento imparato a firmare, mentre Hamnet, il solo figlio maschio di casa, morì a 11 anni, lasciandoci con il dubbio se avesse qualcosa a che fare con Hamlet oppure no, e su cosa sarebbe un giorno diventato. Eduard Einstein ha scansato teorie e calcoli, fu psichiatra, mentre Deirdrie Barnard ha evitato i trapianti di cuore e si è data allo sci nautico, avendo il vantaggio di non dover fare i conti con quella roba fastidiosa del complesso di Edipo.

Ci sono quelli che cercano un compromesso. Jean Matisse fu scultore, come Jean-René Gauguin, e ci sono padri che hanno scelto di non guastare i figli nella maniera più infallibile: non avendone. Leonardo non ne lasciò e neppure Beethoven, non c’è notizia di un erede di Caravaggio, né di Michelangelo, di Donatello, di Van Gogh. E bravo George Clooney a evitare a un futuro ragazzino di terza media l’onta con quel cognome di farsi dire di no dalla più bella della scuola. 

Si è più facilmente dinastia nel capitalismo (Agnelli e Berlusconi) come al circo (Orfei e Togni), si è dinastia tra avvocati e notai, ma già slittando dal piano degli artisti agli artigiani, si scopre che i due più celebri falegnami al mondo – dai quali numerosi libri e molte teorie sulla paternità discendono – ebbero per eredi un burattino e un predicatore. Se anche nella famiglia che più di ogni altra avrebbe dovuto tenersi alla larga dall’argomento per non cadere nel tranello, se anche Anna Freud è stata psicanalista, perché allora Leo Borg non potrebbe giocare a tennis?

Leo Borg, di anni 17 ancora fino a maggio, si prepara al debutto nel circuito maggiore dei professionisti. Gli hanno dato una wild card per le qualificazioni del torneo ATP della prossima settimana a Marbella ma nel frattempo gioca da oggi nel cerchio inferiore dei challenger, sempre con un invito, contro il giapponese residente in Florida Taro Daniel, uno da 120esima posizione al mondo (la newsletter è stata scritta prima della partita contro Daniel; ecco, diciamo che non è andata benissimo per Leo).

Leo Borg non è semplicemente il figlio di un campione. Non è la stessa cosa di Sebastian Korda, erede del Piotr campione a Melbourne nel 1998 e qualificato per gli ottavi (adesso quarti, ndr) di Miami. Non è la solita questione dei figli d’arte. Leo Borg è un ragazzino dentro un gioco che è stato suo padre a reinventare. È come andare a vedere la recita a scuola del figlio di Stanislavski. Può sembrare un’impresa fuori misura, se nel 2020 con il tennis ha guadagnato in tutto 977 dollari giocando 4 partite nei tornei di medio livello, tutte perse. Meno della paghetta che gli darebbe di papà. Possiamo considerarlo incauto. Quando il ragazzino giocò la prima partita in un challenger, a Bergamo, Gaia Piccardi sul Corriere della sera scrisse che aveva più top spin, meno carisma. Gli stessi polpacci affilati, il naso a punta identico. Sotto, appostata tra labbro e narici, una peluria chiara, troppo timida per spuntare rigogliosa. E poi la camminata: passi svelti sotto spalle curve da giocatore di hockey imploso, La sensazione è che abbia fatto il tennista senza sapere che il karma è una cosa seria. Provare a replicare Borg, pur con gli stessi geni, dovrebbe essere vietato dalla legge.

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Oppure c’è un’altra lettura possibile, suggerita da uno sguardo al sito dell’ATP, dove la scheda del nuovo Borg non ha una sua foto, neppure dopo l’ingresso tra i primi 20 junior al mondo. Dice che la bio non è disponibile e alla voce relativa al suo gioco, sotto un cognome del genere, riferisce: destrorso, rovescio sconosciuto. Uno qualunque, un fantasma, un diciassettenne come un altro. Alla fine sarebbe questo il sogno suo, quando dice: «Giudicatemi per il mio tennis, non per il cognome che porto». 

Se questa è la piattaforma di partenza del figlio dell’uomo che ha imposto al mondo il rovescio a due mani, di Leo Borg allora dovremmo apprezzare l’evidente passione per il tennis in sé e l’accettazione del proprio limite. Capitò la stessa cosa a Robert Fleming. Non potendo reinventare la penicillina dopo suo padre, trovò la propria gratificazione da medico di base. Si può nascere figli di Zeus e vivere felici sapendo di essere mortali

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