Momenti di tennis (ma non solo): da Karatsev a Dustin Brown, passando per John Lennon

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Momenti di tennis (ma non solo): da Karatsev a Dustin Brown, passando per John Lennon

Perché una canzone diventa un successo senza tempo? Perché Brown batte Nadal in meno di un’ora? Perché Karatsev diventa un campione in pochi mesi? Questione di momenti

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Aslan Karatsev - Australian Open 2021 (via Twitter, @AustralianOpen)
 

Arriva all’improvviso il giorno in cui quel che è torto diventa ragione, quel che è illogico assume senso, quel che è fuori dal coro, intonato. Il punto che chiude il cerchio, la nota che finisce la canzone, la parola mancante che da vita alla poesia. Come ci si sente quando i 1000 pezzi scombinati del puzzle della nostra vita si incastrano alla perfezione, concludendo noi stessi? 

Cosa deve aver pensato Aslan Karatsev quando i suoi colpi da mestierante della racchetta son divenuti seriali vincenti, quando la bizzarria gli si è trasformata in cinismo? Campo secondario, Australian Open. L’italiano Mager incontra un qualificato. Le riprese TV sono da schifo. Quel che si capisce è che uno dei due non fa toccare palla all’altro, lasciandolo immobile come in uno shooting. Il fotografo è Karatsev. Avrebbe continuato a scattar foto fino alla semifinale e per due mesi e mezzo ancora. Una sconfitta in Qatar contro Thiem, sì, ma non prima di aver tirato un tweener passante a velocità folle per il colpo dell’anno. Poi la vittoria a Dubai, dieci giorni dopo, quindi la finale a Belgrado – su tutt’altra superficie.

Non bisogna mai chiedere ad un fotografo come scatta le foto, perché vengono così e per quanto ancora sarà. Le scatta e basta.

John Lennon aveva una canzone in testa. La fece ascoltare a Paul, George e Ringo suonandola con una chitarra acustica. Paul aggiunse il suono del mellotron e l’introduzione iniziale seguita dal ritornello. L’originale partiva con “living is easy whith eyes closed”. John chiese a George Martin di farne un arrangiamento orchestrale, la voleva visionaria e così gli sembrava duretta, poi, di unire questo alla versione con le aggiunte di Paul e vedere cosa veniva fuori. “Let me take you down ‘cause I’m going to strawberry fields, nothing is real and nothing to get hung about, Strawberry Fileds Forever“. La canzone in testa era quella, divenne un’altra restando la stessa.

Cedric Pioline, bel giovane e bel tennista. Un’onesta carriera di botto mutata. Gestualità elegante che inizia a disegnare traiettorie giuste, un tennis accademico a modino che inizia a far male. Arriva a numero 5 del mondo e a perdere due finali Slam tra New York e Londra senza vincere un set. Nel 1989, Alberto Mancini, fisico da toro, pedalatore dal braccio veloce e gioco pesante, inizia a mietere vittime sul rosso cannonando tutti. Fino ad allora nulla più che un seriale terraiolo sudamericano. Vince Montecarlo e Roma e stremato e felice, si ferma ai quarti al Roland Garros. Clark Kent a diventare Superman ci mette un attimo.

12 giugno 2014. Dustin Brown scende in campo per il secondo turno al torneo di Halle. Ne esce 59 minuti dopo con un 6-4 6-1 in suo favore. Lo sconfitto è Rafael Nadal. Quel giorno a Brown obbediscono le leggi dell’impossibile, il sogno e il delirio. I suoi capelli rimandano a canzoni di riscatto e pace, ma entra in campo cantando “Please allow me to introduce myself, I’m man of wealth and taste”. L’anno successivo, l’indemoniato Brown dà tre set a uno a Nadal, sull’erba di Wimbledon. Solo Sua Maestà il diavolo poteva mettere assieme tutte le pentole di cui la batteria Brown era composta. Non sarebbe ritornato per i coperchi.

Luci della ribalta che illuminano un palco, al centro l’attore per anni relegato a comparsa, il cantantucolo ballerino uscito dal gruppo ora pop star internazionale, il tecnico di lunga carriera, ministro, l’anatroccolo, cigno. Non nasce la farfalla da un bruco? Non sempre quel che è lascia pensare di essere stato altro.

26 giugno 2013. Roger Federer perde al secondo turno a Wimbledon. Reo della violazione di domicilio e lesa maestà è l’ucraino Sergiy Stakhowsky che quel giorno imbrocca tutto. Federer non riesce a “federerare” con l’avversario che gli leva il tempo e gli va a rete su ogni palla. Solo due anni prima, a ‘s- Hertogembosh, Sergiy aveva giocato un tennis di pari livello. Ne sarebbe bastato la metà per avere conto in banca migliore.

A soli 17 anni, nel 1993, Francesca Bentivoglio (numero 329 del ranking) passa le qualificazioni a Roma dove ha ricevuto una wild card ed entra nel tabellone principale. Passa il primo turno e al secondo fa fuori la numero nove al mondo, Jana Novotna . Al terzo batte Natasha Zvereva e ai quarti se la gioca con la regina del Foro, Gabriela Sabatini. Rimedia un game per set, ma è nata una stella. L’anno dopo si ritira dal tennis agonistico. 

Momenti che cambiano una vita, momenti in cui tutto è diverso. Momenti più o meno lunghi, più o meno corti, che lasciano il segno, che non lasciano traccia. Momenti da cui si parte per altri uguali, diversi, momenti che non ritornano. La vita non ha rispetto dei binari su cui sembra essere incanalata, a volte devia, deraglia o semplicemente dà spazio a qualcosa che si nasconde, che non vuol farsi trovare.

 “Roger Federer è uno di quei rari atleti preternaturali che sembrano esenti, almeno in parte, da certe leggi fisiche” scrive David Foster Wallace a proposito di quello che lui chiama i “momenti Federer”. Una volta, anche solo per dieci secondi, ognuno di noi ha vissuto il “proprio momento”, quello in cui tutto all’improvviso va come non è mai andato, oltre la logica, la consuetudine, al di là dello spazio, fuori dal tempo.

Questo piccolo excursus è dedicato “a chi ha cercato la maniera e non l’ha trovata mai”, a quelli che l’hanno trovata, tenuta per poco, a quelli che l’hanno persa subito dopo. 

La grandezza arriva, a Dio piacendo, come una bella giornata” (A. Camus)

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