Il secondo turno di Wimbledon: Sofia Kenin e la sindrome del sophomore

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Il secondo turno di Wimbledon: Sofia Kenin e la sindrome del sophomore

La campionessa dell’Australian Open 2020, oltre che finalista al Roland Garros, sta attraversando una crisi non del tutto imprevedibile

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Sofia Kenin - Wimbledon 2021 (credit AELTC/Simon Bruty)
 

Madison Brengle, la giocatrice che serve più lentamente fra le attuali Top 100 (sotto le 85 miglia orarie, anche a causa di un cronico problema al braccio), nei primi due turni di Wimbledon ha sperimentato diversi modi di vincere contro connazionali in crisi di fiducia.

Al primo turno ha incontrato Christina McHale, che è reduce da un periodo complicato (2 vittorie e 8 sconfitte negli ultimi dieci match). McHale, avanti 5-3 in tutti e tre i set, è riuscita ad aggiudicarsi solo il primo parziale. Negli altri due è stata incapace di chiudere i punti decisivi, facendosi ogni volta rimontare, sino al 3-6, 7-5, 10-8. Nel terzo set McHale ha mancato 4 match point, due di questi con dei doppi falli. Sono state due ore e 42 di lotta, distribuite su due giorni a causa della pioggia e della oscurità.

Al secondo turno Brengle ha affrontato di nuovo una tennista statunitense in profonda crisi, ma ben più famosa: Sofia Kenin. Questa ha volta ha vinto senza faticare; sono bastati 45 minuti, quasi un record, perchè la testa di serie numero 4 dovesse lasciare il torneo (6-2, 6-4). Le statistiche del match parlano da sole: Brengle 6 vincenti e 7 errori non forzati, Kenin 20 vincenti e ben 41 errori non forzati. In pratica Sofia ha chiuso con un saldo disastroso di -21. E visto che Brengle ha conquistato in totale 55 punti, significa che la gran parte sono derivati dai gratuiti di Kenin (41 su 55).

In questo Wimbledon sembrano lontanissimi i tempi della Kenin rampante e di successo. Quella era una giocatrice che nelle partite decisive contro Barty e Muguruza grazie alla solidità mentale era stata capace di di conquistare l’Australian Open 2020, e poi di arrivare in finale al Roland Garros dell’ottobre scorso. Sono passati pochi mesi e tutto sembra rovesciato. Kenin sta vivendo quelle difficoltà nella professione che, in un articolo di qualche anno fa, avevo provato a definire come “Sindrome del Sophomore”.

Si tratta di una fase ben precisa di carriera, che segue uno schema ormai consolidato e conosciuto. La sequenza di fasi funziona all’incirca così: si entra nel circuito WTA da giovane promessa, e si bruciano le tappe. Grazie all’entusiasmo e alla sfrontatezza si vincono molte partite, e spesso è proprio la leggerezza mentale a permettere i grandi risultati.

I grandi risultati si traducono in una vita molto differente: fama, ricchezza, impegni fuori dal campo con media e sponsor. Ma anche un enorme aumento delle aspettative. A questo punto arrivano le difficoltà: si devono confermare quei traguardi, raggiunti però quando nessuno li esigeva. E se le aspettative diventano soverchianti, comincia la crisi. Si perde sempre più spesso e, di fallimento in fallimento, vengono a mancare tutte le certezze, sino a prendere una decisione che non è quasi mai solo tecnica: il cambio di allenatore.

È esattamente il percorso attraversato da Sofia Kenin, con un aspetto che rende la situazione ancora più acuta: il coach che Sofia ha “licenziato”, è suo padre, che l’ha accompagnata sin da quando ha preso in mano la racchetta per la prima volta.

Oggi sono passati circa due mesi dalla separazione, ma i risultati continuano a latitare: Kenin non è ancora guarita dalla sindrome. Al momento non sappiamo come e quando, ma è ragionevole pensare che Sofia riuscirà a superare la fase della crisi più profonda. Una volta guarita dalla sindrome, comincerà una terza fase di carriera, nella quale probabilmente scopriremo in modo definitivo il vero carattere e l’autentico valore della tennista Sofia Kenin.

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