Wimbledon: ho 'scoperto' l’incredibile mano di Matteo Berrettini. Non è quella di McEnroe, ma quasi

Editoriali del Direttore

Wimbledon: ho ‘scoperto’ l’incredibile mano di Matteo Berrettini. Non è quella di McEnroe, ma quasi

LONDRA – Berrettini non è solo servizio e dritto, come molti pensano. Parlano chiaro i risultati ed è evidente vedendolo da vicino. Da favorito con l’amico Auger-Aliassime

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Matteo Berrettini - Wimbledon 2021 (credit AELTC/Edward Whitaker)
 

Diffidate delle immagini televisive. Il tennis è bello guardarlo dal vivo. E vederlo da vicino è tutta un’altra cosa. Sarà una considerazione banale, banalissima, ma mi viene spontaneo farla dopo aver visto Matteo Berrettini battere agevolmente Ivashka dalla primissima fila del campo 12, sul lato lungo del rettangolo, proprio di faccia al seggio arbitrale.

Anche noi giornalisti, certo spettatori privilegiati perché non paghiamo il biglietto, ci ritroviamo sempre più spesso in posizioni dalle quali si vedono magari discretamente bene i giocatori e discretamente male la palla. I giornalisti della carta stampata vengono sistemati in posti sempre più alti, sempre più lontani dall’azione. Ovunque. A Flushing Meadows, stadio Arthur Ashe da 20.000 spettatori, chi sta in piccionaia deve avere una vista d’aquila per scorgere la palla che pare una pallina di ping-pong e, quando viene scagliata a 230 km/h come in certi servizi, beh, allora si vorrebbe avere una telecamera incorporata come quelle che riprendono le palline da golf che fanno un percorso di 200 metri.

Il mestiere naturalmente aiuta a scorgere traiettorie, velocità ed effetti che magari possono sfuggire allo spettatore meno avvezzo, più casuale. E a tutto ci si abitua. I giornalisti che seguono un grande evento, uno Slam, un Masters 1000 dove ci sono tanti incontri che si giocano contemporaneamente su più campi, spesso si fermano in sala stampa a guardare le partite di cui dovranno scrivere sui monitor di cui sono provvisti.

Ciò accade anche perchè le giornate di un evento tennistico sono lunghissime, durano anche 14-16 ore. E spesso si rinuncia a seguire tanti match dal vivo, magari da lontano, avendo a che fare con sole, vento, freddo, caldo, con l’incubo di dover tornare indietro di corsa in sala stampa perché c’è la conferenza stampa di questo o quello. Va già bene, oggi, che sui telefonini si sa tutto al volo, si vede una partita e se ne può seguire un’altra (almeno il punteggio) o anche più d’una. Un tempo bisognava mettersi d‘accordo con qualcuno che ti dicesse “guarda che sta arrivano Caio, guarda che si è fatto male Tizio…”. Quando poi si è in chiusura di articolo, a tarda serata, nessun giornalista può concedersi di andare in giro per campi e match.

Ma, tralasciando il discorso giornalisti (che importa solo a loro), la maggioranza degli spettatori che conquistano un biglietto a Parigi piuttosto che a Wimbledon, va al tennis più per poter dire “C’ero anch’io…” o per il desiderio di partecipare a un evento trendy, che per seguire una partita da così vicino (c’è anche il problema economico). Ma, anche se so – per aver cercato a volte biglietti per familiari e amici – che trovare posti nelle prime fila di un evento tennistico rappresenta un vero salasso economico che non è alla portata di tutte le borse, devo però dire che quel che si vede e si può notare guardando una partita da vicino è tutta un’altra cosa.

Come detto sopra non capita quasi mai neppure a me. Il mio campo prediletto era il vecchio, e smantellato, Court One di Wimbledon. I posti stampa erano rasoerba, quasi imbucati, potevi leggere il logo sulle scarpe dei tennisti. Magari non vedevi benissimo la riga di fondocampo del lato più lontano, ma apprezzavi in modo incredibile tutti i gesti tecnici dei giocatori. E imparavi molto di più che guardando le partite da 15/20/30,  metri più in alto.

Normalmente, se mi trovo a poter scegliere da quale lato guardare una partita opto per il lato corto del rettangolo, come del resto insegna la posizione delle telecamere. Si inquadrano meglio gli spostamenti, i contropiedi, le aperture di angoli che un tennista si è procurato. Ma ieri per il match che Berrettini ha condotto magistralmente contro Ivaska, che ha qualità non indifferenti secondo me, il posto che ho trovato era – come dicevo – sul lato lungo proprio di faccia a dove si sedeva Matteo ai cambi campo. Di faccia quindi anche all’arbitro. Mai sedercisi dietro a quel seggio, se non sei il coach che vuol fare segni al giocatore senza essere visto, perché il seggio e il resto ti coprono parecchio la migliore visuale.

Ebbene, da quella posizione che non avrei scelto, ho potuto ammirare giocate e aspetti tecnici di Matteo che mi hanno lasciato basito. Eppure quante volte lo avrò visto giocare ormai? Più vicine alle 100 che a 50. Come tutti ho sempre apprezzato la potenza e la precisione di certi dritti, di certi servizi (anche ieri sparati a 133 miglia orarie, 214 km), l’efficacia di certe smorzate. Ma mai come ieri ho potuto scorgere da meno di cinque metri e con la testa all’altezza del paletto della rete, certi suoi tocchi, dropshot e contro-dropshot, dritti davanti a sé come incrociati, il riflesso della reazione di fronte a un rimbalzo che all’ultimo costringeva a una correzione del polso assolutamente imprescindibile.

L’erba del campo 12, e lo avrebbe raccontato lo stesso Matteo nella rituale intervista post match, è più lenta. A volte la palla si acquattava improvvisamente, proprio nei pressi della rete. E la qualità delle reazioni di Matteo, insieme al tocco di palla che mi ha fatto vedere in quelle situazioni che sono state diverse, mi ha fatto scoprire un Berrettini per me inedito. Mai descritto prima, né dal sottoscritto né da altri. Certo qualcun altro ha sottolineato il suo tocco di palla, apprezzandone certe smorzate improvvise, ma io ieri gli ho visto tirar su anche con il rovescio a una mano palle che non si alzavano dall’erba per giocare slice rasorete pazzeschi, veloci e non puramente rallentati come sono in genere quelli quelli solo difensivi, e in grado di calare subito dopo aver superato la rete fino a cadere sulle stringhe di Ivashka che si era precipitato a rete. E vi assicuro che forse solo il miglior Federer sarebbe riuscito a replicare ad alcuni di quei passanti.Passante calante, punto vincente!” soleva dire Maestro Rino Tommasi.

Per carità Matteo non ha ancora, né avrà mai anche perché le racchette non sono più quelle di una volta, la mano di John McEnroe. Quella che spinse Gianni Clerici a dire in una famosa telecronaca che oggi verrebbe forse censurata perché non abbastanza politically correct: “Anche senza essere gay, da uno che ha una mano così mi farei certamente accarezzare!”. Con Rino Tommasi al suo fianco che trasalì, rimanendo per una volta senza parole!

Matteo Berrettini – Wimbledon 2021 (via Twitter, @Wimbledon)

Quando si segue un match in TV, ci si distrae spesso, si sente dire il punteggio, non ci si sofferma sulle squisitezze tecniche. Ed è perfino peggio quando si segue un match in tribuna stampa, dove non si può godere nemmeno del replay televisivo… che peraltro solo il bravo regista espetto di tennis è capace di cogliere se il punto è stato tecnicamente superlativo. Inoltre il replay ti mostra quasi sempre, per esigenze di tempo, le fasi finali del punto, ma non è detto che la prodezza tecnica – se non è un tweener sul quale anche il regista più sprovveduto è avvertito – non sia sfuggita.

Ecco, io ieri ero entusiasta di certe cose che ho visto fare da Matteo. Anche al volo, sia chiaro. Ma le drop-volley sono già un patrimonio più comune fra i top-player. E mentre le vedevo mi spiegavo tante cose, come fra le altre prerogative tanta sua costanza nell’ottenere quei risultati che sui giornali d’oggi tutti riassumono ed evidenziano. Primo italiano nei quarti dopo Sanguinetti (’98), dopo De Morpurgo, Pietrangeli (2 volte), Panatta e Sanguinetti, primo italiano nei quarti in tre superfici diverse. Precisando che de Morpurgo e Pietrangeli (come Rod Laver campione di 2 Grand Slam) non avrebbero comunque potuto riuscirci in tempi in cui 3 Slam su 4 si giocavano sull’erba. Lui comunque sull’erba ha anche vinto Stoccarda (che nessuno dei vecchi quartofinalisti poteva vincere) e il Queen’s (e lì sì che avrebbero potuto, ma non ci sono andati neppure vicino).

I soliti ricercatori del… pelo nell’uovo sosterranno magari che in fondo Matteo ha semplicemente onorato il suo status di testa di serie n.7, affrontando e battendo sempre giocatori di ranking inferiore. Essi paiono dimenticare però che quel seeding i giocatori se lo conquistano in 12 mesi di prestazioni. Se Berrettini è n.7 lo è perché merita di essere n.7 e quindi di non incontrare  prima dei quarti nessuno classificato meglio di lui. Poi, certo, poteva trovare a Wimbledon avversari con un ranking fra il 33 e il 40, invece che fra il 59 e l’80, idem negli altri Slam dove ha fatto così bene. Però, come diceva non ricordo più chi, uno può battere soltanto gli avversari che gli si parano davanti. E anche i discorsi sulle “weak era”, avanzati in altre situazioni e per altri giocatori (quasi sempre dai tifosi di un tennista e detrattore di un altro), lasciano il tempo che trovano.

Piuttosto, e già prima ancora che Felix Auger Aliassime mettesse a nudo ancora una volta certe fragilità mentali e probabilmente anche tecniche di Sasha Zverev che ha un primo servizio da fenomeno e un secondo servizio inaffidabile e quindi alla resa dei conti modestissimo – Zverev non ha mai battuto un top-10 in uno Slam (neanche Berrettini per la verità, che sinora è 0-4): proprio sicuri che sia un caso? – mi chiedevo ancora sul campo 12: ma quanti tennisti contemporanei hanno oggi la la mano vellutata di Matteo?

Non sarà anche questo aspetto, oltre al gran servizio (che può ancora progredire in termini di percentuale) e il formidabile dritto (idem), l’ottimo senso della posizione a rete quando decide di scendere (mai ancora serve&volley fin qui, è un altro piccolo aspetto migliorabile, servirebbe a prendere di sorpresa un avversario che si limiti ogni tanto a cercare di rispondere preoccupandosi di evitare solo il dritto di Matteo…) a renderlo più forte di tanti? Forse anche di alcuni, come Zverev appunto (ma anche Thiem se non Tsitsipas), che lo precedono?

Auger-Aliassime, suo prossimo avversario, saprebbe fare quel che sa fare Matteo? Mentre mi pongo questo interrogativo al momento la mia risposta sarebbe: no! Poi però prendo un attimo le distanze da me stesso, perché mi rendo conto che il mio giudizio è magari influenzato da un match giocato in discesa contro Ivashka. Quando sei più tranquillo, anche se momenti critici ci sono sempre in quasi tutti i match, ti riescono più facilmente tutte le cose. Perfino a Federer contro Sonego sono riuscite nel secondo e nel terzo cose magiche prodezze che nel primo set non aveva mostrato. Tuttavia, secondo me, resta il fatto che – salvo situazioni mentali e di risultati non preventivabili – a diversi altri top 10 le cose che ho visto fare a Matteo non riuscirebbero.

Questo mercoledì gioca contro un giovincello che, incoraggiato dall’aver superato ostacoli temibili come Kyrgios e Zverev, sarà in piena fiducia ed eccitato all’idea di aver raggiunto per la prima volta un  quarto di finale in uno Slam, senza aver nulla da perdere contro l’italiano che lo aveva battuto nella finale di Stoccarda ed è molto meglio classificato di lui. Chi vivrà vedrà. Consentitemi di essere ottimista almeno quanto Santopadre – a breve sarà online l’intervista che gli ho fatto ieri – e Matteo.

E in fondo non credo che possa costituire motivo di distrazione per Matteo l’impegno di Ajla Tomljanovic, che stasera sfida da sfavorita la numero uno del mondo Ash Barty. Durante il match vinto da Tomljanovic contro Raducanu (che si è ritirata per problemi respiratori), Matteo era in tribuna a interpretare il ruolo di primo tifoso. Probabilmente sarà così anche oggi, per prendersi una piccola pausa prima di dedicarsi anima e – soprattutto – corpo alla sfida contro Auger-Aliassime, che vale una semifinale a Wimbledon.

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