Wimbledon attende il Barty-party. "Se sono qui è per tutto quello che ho passato"

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Wimbledon attende il Barty-party. “Se sono qui è per tutto quello che ho passato”

Il trionfo da Junior, le sconfitte brucianti da adulta. Oggi la grande chance con Karolina Pliskova, per riportare il titolo in Australia quarantuno anni dopo Evonne Goolagong. “Tutto concorre a formare una finalista ai Championships”

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Ashleigh Barty - Wimbledon 2021 (via Twitter, @Wimbledon)
 

Giocherà la prima finale della sua vita a Wimbledon, la seconda in carriera in uno Slam. Incredibilmente, considerata la vistosa propensione al tennis sui prati, finora i ciuffi di Church Road l’avevano sempre respinta addirittura prima dei quarti di finale. Ashleigh Barty si sta rifacendo con gli interessi: contenderà il titolo a Karolina Pliskova in coda a un percorso perlomeno convincente, grossomodo passeggiato avendo ceduto appena un set nel commovente addio ai prati di Carla Suarez Navarro e restituendo una costante sensazione di placido controllo delle avversarie.

L’ultimo ostacolo saltato, quell’Angie Kerber già campionessa ai Championships improvvisamente ridestatasi da un lunghissimo letargo, peraltro battuta in due rimontando un secondo set messosi malissimo, ha confermato le sensazioni percepite lungo gli ultimi quindici giorni: nella costante imprevedibilità del tennis femminile una volta caduto il regno di Serena Williams, Ash è una numero uno solida, in grado di sostenere il gravoso fardello del pronostico favorevole. Chiusa, si spera definitivamente, la parentesi pandemica, Barty si è espressa su livelli altissimi, e gli infortuni nell’intralciarla hanno potuto più delle colleghe. Per la corona, e un importante passo nella storia del tennis moderno, manca un passo. Ma il momento plastico in cui si è cristallizzato il nuovissimo status di finalista ai Championships, quello si può già riporre con cura nel cassetto, insieme ai ricordi belli.

L’ultimo punto, le mani nei capelli, la pelle d’oca. “Cosa ho provato un secondo dopo aver chiuso il match? Direi sollievo, soprattutto sollievo. Poi una gioia incredibile, avvolgente, totale. Voglio dire, mi sono resa conto in quell’istante di avere per davvero agguantato la finale di Wimbledon, una cosa pazzesca. Ho tenuto un gran livello per tutto il match, forse uno dei migliori della mia vita. Ho accelerato quando ne ho avuta l’opportunità, controllato gli scambi quando ne ho sentita la necessità. Dopo l’ultimo punto la sensazione è stata incredibile“.

 

Standard certamente eccellenti per la capoclassifica, per nulla turbata dall’elevatissimo peso della posta in palio. “Credo di essere scesa in campo pronta a non farmi condizionare dall’importanza del momento. Durante l’anno lavoriamo tanto sulla gestione mentale delle varie situazioni di gioco, ma ammetto di essere abbastanza brava a fare un passo indietro, a distaccarmi dalla tensione, a pensare che dopotutto sto affrontando una partita di tennis. Prima di sbucare sul Centrale mi sono imposta di divertirmi, godermi il momento. Quando ne sono uscita in effetti mi ero divertita e avevo dato tutto. Sarei stata felice e contenta in ogni caso“.

La faccenda simbolica, quella che maggiormente coinvolge e affascina, riguarda sempre l’eredità di Evonne Goolagong, l’ultima giocatrice aussie a imporsi a Wimbledon, quarantuno anni fa. Il misticismo in qualche modo si lega anche alla fatidica cifra tonda: cancellata dalla pandemia l’edizione 2020, di anni tennistici dal celebre trionfo ne sono trascorsi quaranta. “Ho sentito Evonne prima dell’inizio del torneo, in coincidenza di un anniversario tanto importante rappresenta un grande privilegio aver l’opportunità di tributarle qualche vittoria, sperando di poterle dedicare quella più importante“.

Sarebbe un trionfo eclatante, più di quanto non lo possa essere un’ordinaria cavalcata vincente all’All England Club, considerati gli ostacoli affrontati in fase d’avvicinamento. Soprattutto nella seconda parte della stagione su terra, culminata con il ritiro al secondo turno del Roland Garros forzato da un problema al fianco e alla coscia sinistra. “Ho avuto un’ottima annata, ma anche qualche infortunio di troppo. Dal momento in cui ho tristemente dovuto abbandonare Parigi al mio esordio qui a Wimbledon sono trascorsi solo ventitré o ventiquattro giorni: francamente poco per rimettere in sesto il mio corpo. Posso contare sul migliore staff al mondo, questo sì, ma se tre settimane fa mi avessero detto che avrei giocato la finale di Wimbledon li avrei presi per pazzi!“.

Pazzi o no, Ash è in finale, un sogno. Ma favole a parte, la transizione dall’onirismo puro alla concreta chance di afferrare le ambizioni non avviene per magia. “Occorre fare dei passi, porsi mano a mano nelle condizioni di avvicinare gli obiettivi, mettendo in conto qualche rovinosa caduta, che spesso è salutare. Ho varcato per la prima volta questi cancelli dieci anni fa, da Junior, ed è stata un’esperienza decisiva, lo sarebbe stata anche qualora non avessi vinto il titolo. Allo stesso modo sono state importantissime le sconfitte del 2018 e 2019 (rispettivamente al terzo turno contro Daria Kasatkina e al quarto con Alison Riske, NdR): non ho giocato bene in quelle occasioni, tutt’altro. Tuttavia, sono fermamente convinta della necessità di passare attraverso momenti bui per crescere, conoscere sé stessi, evitare di ripetere quelle esperienze in futuro. Ogni cosa ha concorso a formare la persona che sono, la finalista di Wimbledon di oggi“.

Ha giocato un gran torneo Ashleigh, dando la netta sensazione – fisiologici cali transitori a parte – di avere tennis e spalle sufficientemente larghe per poter onorare il ruolo di favorita e di più alta graduata in corsa. L’ultimo passo di un Major fa sempre storia a sé, ma l’avvicinamento è stato grandioso, e resterà tale comunque vada. “Rispetto agli scorsi anni ho messo insieme una formazione più ampia e articolata. Come detto, ogni evento nel tennis, bello o brutto che sia, concorre a costruire un giocatore e una persona, in genere migliorandola. Nello specifico, in quest’edizione penso di aver giocato bene, di aver fatto tesoro delle precedenti esperienze: soprattutto a Wimbledon è un fattore decisivo, di grande importanza, perché occorre sapersi adattare come in nessun altro luogo. Le condizioni di gioco cambiano di giorno in giorno, il campo diventa mano a mano più duro, più veloce. È un posto unico, speciale anche per questo, lo capisci entrando per la prima volta da quei cancelli e ogni volta la magia è la stessa“.

Accresciuta dalle esperienze precedenti, of course. Sarà favorita, Barty, nella finalissima di oggi (ore 15): per ranking, tennis e momento storico. È anche vero che nessuno aspettava Karolina Pliskova, eppure. Una finale è una finale, ma come ci siamo azzardati a scrivere commentando il successo della numero uno nei quarti con Krejcikova, con questi lumi di luna per Ash non sollevare il Rosewater Dish (è il nome del piatto riservato alla vincitrice di Wimbledon) non dovrebbe essere un’opzione.

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Coppa Davis

Coppa Davis – Il “caso” Nazionale: io penso che Sinner meriti l’assoluzione

L’opinione del direttore di Ubitennis. “Non la merita chi lo ha sollevato”. Fossi Volandri convocherei serenamente un Sinner disponibile. Binaghi e la Real Politik di Otto von Bismark

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Jannik Sinner - Toronto 2023 (foto Twitter @atptour)
Jannik Sinner - Toronto 2023 (foto Twitter @atptour)

La prendo larga per sostenere che secondo me Jannik Sinner non merita proprio di essere lapidato, già proprio preso a pietre in faccia come è accaduto, a seguito di alcuni interventi – da Nicola Pietrangeli e Adriano Panatta, sollecitati dalla linea editoriale della Gazzetta che ha sollecitato le reazioni scandalizzate di campioni di altri sport con una campagna di stampa massiccia, quasi feroce – e da tutti i colpevolisti che si sono scagliati virulentemente contro la decisione di Jannik di saltare il girone di Coppa Davis di Bologna.

A Bologna, cioè laddove  – almeno sulla carta anche se poi non è stato così – l’Italia avrebbe dovuto passare in carrozza alle finali di Malaga trovandosi alle prese con 3 squadre che (unica eccezione il Cile per via di Jarry) per quattro quinti non potevano schierare tennisti compresi fra i primi 100/150 del mondo.

Sostengo l’innocenza di Jannik anche se lì per lì mi è certo dispiaciuto che non ci fosse a Bologna –  anche ma non solo per coerenza con quanto sostenni 15 anni fa nel “caso Bolelli”.

 

E mi trovo semmai un po’ in imbarazzo per capire come dovrei reagire nel registrare invece una certa assenza di coerenza in chi vorrebbe applicare due pesi e due misure, cioè regole che valgono per alcuni e non per altri.

Regole diverse infatti sembrano valere per i tennisti molto forti, Jannik Sinner, n.7 del mondo e n.4 della Race, ma non per quelli più deboli, meno noti e con un impatto mediatico meno “forte”, Bolelli n.34, Seppi n.46 e altri condannati obbligati senza sconti a passare sotto le Forche Caudine. E’ anche vero però che si sta parlando di regole “pensate” e applicate fra il 2008 e il 2010

LA RAGION DI STATO

Tutto ciò, anche se alla fin fine anch’io accetto in parte laRagion di Stato che ha certamente ispirato recentemente Angelo Binaghi. Cioè quella “ragione” che può permettere soluzioni pragmatiche che sacrifichino la morale e la coerenza pur di risolvere in modo vincente un problema.

Si tratta…almeno un po’, senza lasciarsi prendere troppo dall’irriverente confronto, come fu per la Ost Politik del cancelliere tedesco e social democratico Willy Brandt che non era davvero comunista, ma “aprì” ragionevolmente alla Germania dell’Est e meritò anni dopo di essere insignito di un Premio Nobel per la pace. Brandt proseguiva nella tradizione della “Real Politik” dell’altro cancelliere tedesco Otto von Bismark (1815-1898), che decise di privilegiare  la politica concreta fondata sugli interessi del Paese e sulla realtà (interna e internazionale) del momento e non sui sentimenti, le ideologie, i principi.

Insomma capisco oggi anche l’atteggiamento di Binaghi, così come non lo capii 15 anni fa.

L’ANTICA STORIA DI QUANDO IL SOTTOSCRITTO ERA LO…”ZIO” DI BINAGHI

Occorre fare un po’ di storia, anche personale, prima di arrivare al “caso” Sinner e a come viene affrontato oggi rispetto a come sarebbe stato una affrontato una volta.

Neppure chi legge Ubitennis da tempo e apprezza la nostra linea giornalistica sempre autonoma, orgogliosamente indipendente dai poteri forti ATP, WTA, ITF, 4 SLAM (più in Italia FITP) e quindi esposta a correre fastidiosi rischi e brutte conseguenze, probabilmente immagina e sa che fino al 2008, il presidente federale Angelo Binaghi in carica dal 2000 a oggi, considerava – incredibile dictu! – il sottoscritto persona cui affidarsi, cui poteva convenire chiedere consiglio in virtù della sua maggiore età, esperienza e conoscenza del tennis internazionale, anche per certi aspetti comunicazionali.

Esperienze e conoscenze maturate e coltivate 30 anni prima della sua prima elezione a presidente FIT. Quindi fin dall’inizio degli anni Settanta, quando ancora – sebbene modesto giocatore – riuscivo grazie ai miei risultati da doppista fra i seconda categoria a qualificarmi per affrontare i “prima” agli Assoluti Nazionali, a vincere con il C.T. Firenze uno scudetto tricolore a squadre di prima categoria, prima di “sopravvivere” per oltre  mezzo secolo fra i giornalisti, frequentando non solo i più grandi tennisti di 6 decadi, ma anche i più grandi dirigenti dei grandi tornei e delle federazioni (un nome per tutti Philippe Chatrier),  tanti manager del tennis mondiale (Mark McCormack, Donald Dell), non senza aver avuto anche qualche piccola esperienza come promoter di qualche weekend tennistico (come l’evento similDavis Italia-Stati Uniti grazie al quale misi di fronte Adriano Panatta e Paolo Bertolucci a due mostri sacri come Arthur Ashe e Vitas Gerulaitis in Toscana), come per più anni organizzatore/direttore del torneo ATP di Firenze, quando ancor giovanissimo ero diventato amministratore delegato di una agenzia di pubblicità, D&A, Design&Advertising.

Angelo Binaghi usava allora chiamarmi allora “zio” e mi consultava con una certa frequenza su svariati argomenti. Conservo sul mio cellulare i suoi messaggi. Fui anche consulente FIT e KPMG per una ricerca affidata all’Istituto per il Credito Sportivo.

QUANDO CONSIGLIAI ALLA FIT DI PROCURARSI UNO SPAZIO TV PER IL TENNIS

Inciso inedito: fra i vari suggerimenti che potei dare allora – ricordo che accadde nel corso di un viaggio in treno con Binaghi da Firenze a Bologna – ci fu anche quello di studiare il modo di “conquistare” uno spazio televisivo per il tennis, comprando spazi settimanali in un qualche network privato economicamente “raggiungibile”. Parlammo allora di piccoli network nazionali.

I fatturati FIT di allora non permettevano voli pindarici di altro tipo. Con meno di 30 milioni di fatturato annuo non era come averne 180 e, almeno secondo me, la FIT doveva prima di ogni cosa sistemare il settore tecnico maschile e rivedere la sua politica nei confronti dei team privati, per diversi anni per nulla incentivati, quando non addirittura osteggiati. Perfino le mie modeste conoscenze in termini di costi tv mi permettevano di escludere che una TV federale potesse chiudere i conti col break-even in tre anni, come fu invece annunciato all’esordio di Supertennis. Chiudo l’inciso, sennò dimentico Sinner e la sua presunta innocenza…

QUANDO I RAPPORTI IDILLIACI CON IL PRESIDENTE FIT CROLLARONO

Tutti questi rapporti idilliaci con Angelo Binaghi durarono dunque soltanto per i suoi primi 8 anni di presidenza. Fino al 2008. Ma che cosa accadde nel 2008?

Accadde che, settembre 2008, l’Italia di Coppa Davis doveva giocare a Montecatini per la permanenza in serie B (nel gruppo EuroAfricano) contro la Lettonia di Gulbis e…nessun altro!  Beh sì, il n.2 lettone era tale Andis Juska, n.394 del mondo…e non valeva più del suo ranking. Non avrebbe vinto contro nessuno dei primi 20 tennisti italiani.

Difatti perse i suoi due singolari senza vincere un set con Seppi e Starace. Inevitabilmente trascinò alla sconfitta in doppio anche il talentuoso Gulbis che in singolare aveva dominato nettamente Fognini in prima giornata (7-6,6-1,6-1) e avrebbe poi rimontato Seppi al quinto in terza dopo aver perso i primi due set.

Era stato anche in virtù di questa scontata debolezza del team lettone, che Simone Bolelli – consigliato dal suo coach Claudio Pistolesi – aveva osato dir di no alla convocazione in Davis emessa dal capitano Corrado Barazzutti.

C’era stato un precedente. L’anno prima Filippo Volandri, quando l’ItalDavis doveva affrontare un’altra squadretta ancor più debole, il Lussemburgo, su un campo in cemento approntato ad Alghero, fu concesso a Filippo di disertare l’evento in terra sarda, visto che voleva prepararsi per un torneo sulla terra battuta (Stoccarda?).

Bolelli era allora n.36 ATP. L’obiettivo che lui e il suo coach volevano centrare nell’autunno di quel 2008, era riuscire a rientrare almeno fra i primi 32 in modo da assicurarsi un posto fra le teste di serie all’Australian Open. Una legittima valvola di sicurezza per evitare di affrontare i più forti nei primi 2 turni.

C’erano due tornei in Oriente, Bangkok e Tokyo a settembre dove Simone era convinto di poter fare bene e conquistare punti preziosi. Ma per lui le cose non andarono come per Volandri. Il “gran rifiuto” di Bolelli scatenò un putiferio.

Nicola Pietrangeli (che giocava la Coppa Davis quando quella era molto più importante degli Slam) arrivò a dire che Bolelli “aveva sputato sulla bandiera”, la FIT proclamò una squalifica di 4 anni (poi rientrata), Binaghi disse che Bolelli non avrebbe mai più giocato in Coppa Davis (“Finchè sarò io presidente”, ma anch’esso fu provvedimento rimangiato quando Bolelli abbandonò il suo coach Pistolesi). Per un certo periodo gli fu impedito di allenarsi nei circoli italiani affiliati alla FIT.

Io avvertii Binaghi – che avrebbe desiderato il mio sostegno in quella battaglia sbagliata – che non lo avrei sostenuto perché non ero per nulla d’accordo.

Cercai di fargli presente che Connors aveva giocato in oltre 20 anni in Davis soltanto nel ’75, nell’81 e nell’84 (con pessimi risultati…perché era un gran individualista e non un uomo squadra come il suo “nemico” McEnroe).

Gli ricordai che l’ATP era nata sulla protesta e il boicottaggio di Wimbledon 1973 da parte di un’ottantina di tennisti per il “caso” di Nikki Pilic che era stata squalificato dalla federazione jugoslava perché aveva scelto di giocare il “mondiale” di doppio a Montreal anziché la Coppa Davis.

Ricordai che non solo ai tennisti USA veniva chiesta all’inizio di ogni anno una disponibilità “contrattualizzata” a giocare la Davis.

Ricordai come l’Argentina non fu quasi mai in grado di schierare contemporaneamente le sue due star top-5, Vilas e Clerc perchè un anno non accettava di giocarla l’uno e un altro anno l’altro…e via dicendo….-e del resto ben più recentemente, nel 2014, Juan Martin del Potro scatenò una guerra contro la federazione argentina e il proprio capitano di Coppa Davis Martin Jaite dicendo che non avrebbe difeso i colori albiceleste “Ho deciso che non giocherò la Coppa Davis quest’anno

https://www.ubitennis.com/sport/tennis/2014/02/17/1027226-guerra_potro_ricorda_altre.shtml

Fatto sta che Bolelli rimase talmente sconvolto da tutte le sanzioni e le polemiche che seguirono al suo presunto “oltraggio alla bandiera” che la sua tournee asiatica si risolse in un disastro. Perse al secondo turno a Bangkok e al primo (da Suzuki n.593 ATP) a Tokyo.

Ma la FIT proseguì sulla sua strada. Due anni dopo Andreas Seppi fu costretto a fare il giro del mondo per presentarsi a capo chino a Castellaneta Marina (non la località più semplice da raggiungere) alla vigilia di Italia-Bielorussia che schierava il solo (e già vecchio) Mirnyi. Un’inutile costrizione alle forche caudine. 

Lì i rapporti fra chi scrive e Binaghi si incrinarono pesantemente. Successivamente le mie forti critiche alle modifiche statutarie che lui apportò nell’autunno 2009 e che gli hanno astutamente consentito di non avere più candidature alternative alla sua presidenza FIT per quasi tutte le elezioni successive dal 2008 in poi, dettero il colpo di grazia ai nostri rapporti.

Per me Binaghi era il miglior dirigente possibile per quegli anni, e magari anche per quelli successivi, ma non trovavo giustificabile che un dirigente, per quanto bravo, potesse brevettare statutariamente un sistema per diventare “imperatore” a vita. E lo scrissi chiaramente inimicandomelo per sempre. (n.b. per sempre perchè quello è il suo carattere).

Riguardo alla Davis e alla Fed Cup, però, l’atteggiamento federale è poi mutato nel tempo. E nella stessa direzione che avevo indicato.  Francesca Schiavone chiese di “saltare” una convocazione di FED CUP in cui avrebbe dovuto far da riserva alle più giovani Pennetta, Errani e Vinci. Le fu concesso “per meriti sportivi acquisiti”. Fabio Fognini giocò un torneo a Belgrado nella stessa settimana in cui disse di non sentirsi in grado di giocare la Davis (dopo una pesante sconfitta a Roma 2010, 6-0,6-3 con Seppi). Nove anni dopo Fognini non rimase in Australia per andare con il resto del team in India per la Davis 2019, ma – sconfitto per la sesta volta di fila dalla sua bestia nera Carreno Busta (6-2,6-4,2-6,6-2) – chiese e ottenne di poter tornare in Italia.

Capisco bene quindi che oggi Binaghi, e lo stesso Volandri, non si sentano di mettere in discussione le scelte professionali del nostro miglior giocatore, di colui che più di ogni altro potrebbe rappresentare il nostro tennis ai massimi livelli per i prossimi 10 anni.

Non mi sarei messo contro Volandri, Bolelli, Seppi, Fognini, Schiavone, professionisti liberi di fare le proprie scelte, anche perché sono loro stessi i soli a conoscere davvero le proprie situazioni fisiche e i propri calendari spesso collegati a tante variabili, superfici, continenti….

Quindi trovo abbastanza normale che Binaghi abbia detto stavolta di “condividere” le scelte di Sinner e del suo team, “tenendo conto degli altri obiettivi di carriera di un tennista che è n.4 nella Race e che mira a vincere uno Slam”.

E Sinner conosce il suo corpo (ad oggi un corpo…non straordinario se paragonato a quello di un Djokovic, ma anche di un Alcaraz, di uno Tsitsipas i suoi primi e più forti rivali) meglio di chiunque altro.

Sinner ha spesso sofferto di problemi fisici, perfino nel suo ultimo match con Evans, ma anche di stress psicofisici, all’indomani di una sconfitta pesante o perfino di una vittoria importante.

Quando lo scorso anno in Davis a Bologna perse dallo svedese Mikael Ymer, n.98 del mondo scrissi in un mio editoriale.

“Confesso che sono rimasto un po’ disorientato per la sconfitta patita da Sinner con Mikael Ymer. E’ chiaro che Jannik non aveva recuperato appieno dal trauma della partita (persa nei quarti all’US Open 2022) con il matchpoint con Alcaraz (poi vittorioso nel suo primo Slam)”. Eppure era trascorsa una decina di giorni. Più o meno gli stessi giorni che sarebbero intercorsi fra la maratona di 4 ore e 40 persa quest’anno a New York con Zverev e l’incontro che avrebbe potuto giocare a Bologna contro il Canada.

Quella negativa esperienza “Ymer-after Alcaraz”  ha probabilmente portato consiglio al team Sinner.

Quando Jannik ha vinto il suo primo Masters 1000 quest’estate in Canada, poi ha giocato subito dopo Cincinnati e ha perso al suo primo ostacolo con Lajovic.

Simile storia era accaduta quando in Australia Jannik vinse un ATP 250 a Melbourne ma poi pochi giorni dopo perse al primo turno con Shapovalov all’Australian Open.

Insomma è legittimo, alla fine, che Jannik prenda le sue precauzioni. Anche se sembrano egoistiche, individualiste come lo sport che pratica da campione – un top 4 dell’anno lo è – poco simpatiche, apparentemente poco permeate di spirito di squadra.

Berrettini, infortunato, si è fatto vedere a bordocampo a Bologna, a sostenere la squadra. E tutti lo hanno apprezzato. Ma Matteo non doveva prepararsi per giocare i tornei cinesi che invece Jannik sta disputando.

Quindi chi ha sottolineato i diversi comportamenti di Jannik e Matteo avrebbe dovuto rendersi conto anche delle diverse situazioni. Che in buona parte sono state riprese e argomentate nei due articoli che sono usciti su Ubitennis, scritti da Michelangelo Sottili (“per me Sinner è colpevole”) e Federico Bertelli (“per me Sinner è innocente“), per fotografare la situazione di un “caso” su cui sono “saltati sopra” Gazzetta dello Sport in primis, ma anche tanti campioni di altre epoche (Pietrangeli, Panatta), di altre Davis, di altri sport ben diversi da quello che è oggi il tennis professionistico.

Ecco perchè ho trovato pretestuose le pesanti critiche che sono state scagliate come frecce avvelenate sul corpo di Jannik Sinner, un patrimonio tennistico da proteggere. Ecco perchè non vedo perchè Volandri dovrebbe rinunciare tafazzianamente a convocare il nostro tennista più forte a Malaga quando avremmo le possibilità per rivincere finalmente quella Coppa Davis che ci è sempre sfuggita dal 1976 a oggi, anche se questa Coppa Davis non è davvero quella che era una volta. Ma tutto cambia e magari – spero -cambierà ancora. E se si dovesse vincere la Coppa Davis quest’anno, come io credo sia possibile, tutte le polemiche suscitate dalla Gazzetta e dagli altri verranno offuscate e dimenticate.

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WTA Pechino, il tabellone: Sabalenka e Rybakina nella parte alta. Swiatek e Gauff al debutto in Cina

I quattro bye del torneo sono stati assegnati alle quattro semifinaliste del Toray Pan Pacific Open: Pegula, Maria Sakkari, Veronika Kudermetova e Anastasia Pavlyuchenkova.

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Aryna Sabalenka - US Open 2023 (Twitter @usopen

È stato sorteggiato il tabellone del China Open, l’ultimo evento WTA 1000 della stagione in programma da sabato 30 settembre. Tra conferme e attesi ritorni si rivedono tutte e quattro le prime teste di serie del ranking, a partire dalla numero 1 al mondo Aryna Sabalenka, assieme a Iga Swiatek, Coco Gauff e Jessica Pegula. Swiatek e Gauff sono pronte a fare il loro debutto in Cina. I quattro bye del torneo sono stati assegnati alle quattro semifinaliste del Toray Pan Pacific Open: Pegula, Maria Sakkari, Veronika Kudermetova e Anastasia Pavlyuchenkova.


Nella prima parte di tabellone svetta Aryna Sabalenka, al suo primo torneo come nuova numero 1 del mondo. Assieme a lei, in questa porzione di tabellone, troviamo la campionessa di Wimbledon 2022 Elena Rybakina, la campionessa di San Diego Barbora Krejcikova, e la quindicesima testa di serie Beatriz Haddad Maia. Sabalenka aprirà il suo torneo contro la rediviva Sofia Kenin. Kenin ha già vinto quest’anno su Sabalenka, battendo l’allora numero 2 nel secondo turno di Roma.

 

Nella seconda parte di tabellone troviamo la testa di serie numero 4 Jessica Pegula insieme alla testa di serie numero 7 Ons Jabeur. La tunisina ha vissuto una settimana intensa a Ningbo, dove ha raggiunto la sua prima finale da Wimbledon e la prima su un campo in cemento dagli US Open del 2022. Grazie al Bye Pegula inizierà il secondo turno contro Donna Vekic o Anna Blinkova. Oltre a loro le teste di serie numero 12 Petra Kvitova e Jelena Ostapenko, testa di serie numero 13.

La terza porzione di tabellone vede protagonista la campionessa degli US Open Coco Gauff, che giocherà il suo primo evento da campionessa major. La numero tre del mondo affronterà Ekaterina Alexandrova al primo turno. In questa sezione ci sono anche la campionessa di Guadalajara Sakkari e Kudermetova, che hanno dei bye al primo turno. Nella parte bassa, al suo debutto nel torneo, la numero 2 del mondo Iga Swiatek guida l’ultimo quarto del tabellone. Con lei c’è anche la campionessa di Wimbledon Marketa Vondrousova e le uniche due ex campionesse presenti nel sorteggio, Caroline Garcia (2017) e Victoria Azarenka (2012). La Swiatek aprirà contro la spagnola Sara Sorribes Tormo.

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ATP Pechino: bel colpo di un Musetti in crescita. Khachanov sconfitto in tre set, ora super sfida Alcaraz

Lorenzo Musetti pare aver ritrovato buone sensazioni e vince alla distanza un match per larghi tratti ben giocato contro Karen Khachanov. Ora lo attende il N.1 del tabellone

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Lorenzo Musetti - US Open 2023 (Twitter @federtennis)

L. Musetti b. K. Khachanov 6-3 1-6 6-2

Lorenzo Musetti batte Karen Khachanov per 6-3 1-6 6-2 in 1 ora e 54 minuti nel primo turno del China Open a Pechino. Una partita che lo vedeva sfavorito da pronostico, anche perché il russo veniva da un torneo vinto a Zhuhai e Lorenzo da un periodo non troppo positivo, ma l’italiano ha dimostrato, perlomeno nel primo e soprattutto nel terzo set, di essere comunque in crescita sia a livello di fiducia che di tennis. Forse la semifinale della scorsa settimana a Chengdu lo ha aiutato a ritrovare buone sensazioni, mentre il lungo periodo di inattività del russo prima del torneo conquistato lo ha probabilmente stancato alla distanza, favorendo la classe del carrarino, autore nel terzo parziale di una performance convincente come non se ne vedevano da tempo. A Lorenzo ora non resta che attendere il vincente dell’incontro tra Carlos Alcaraz e Yannick Hanfmann per conoscere il suo avversario di ottavi di finale.  

Primo set: si va a strappi, ma quello decisivo premia Musetti

Khachanov vince il sorteggio e sceglie di ricevere, ma Musetti non ha alcun problema a incassare il primo gioco a -15. Un buon inizio per Lorenzo, che tiene i colpi profondi e non soffre le pallate piatte del russo, soprattutto sulla diagonale del rovescio. E gli effetti di questo splendido start si vedono subito, con un break immediato ottenuto ai vantaggi e alla seconda chance, dopo una rimonta da 40-0, un passante di rovescio sontuoso solo di polso e un dritto inside-in che lascia fermo l’avversario.

 

Ma l’allungo sul 3-0 è un’illusione, perché il moscovita, prese le misure del campo e limitati i gratuiti, rientra sul 3-3, approfittando di un vistoso calo dell’italiano, tra doppi folli e poca precisione nel palleggio. È l’ultimo scossone del parziale? Neanche per idea, perché il n° 2 d’Italia si aggiudica nuovamente tre game di fila e intasca al contempo il set. Un ulteriore strappo arrivato grazie al miglior punto della partita sulla palla break che vale a Musetti il 5-3, con una serie di recuperi sulle bordate di Karen e, una volta ribaltato lo scambio, con una smorzata sulla quale il russo arriva senza fiato. È lo scambio che porta Musetti a servire per il set, e il game di battuta tenuto a -30 è la ciliegina sulla torta di un parziale nel complesso molto ben giocato dall’azzurro.

Secondo set: Khachanov cambia marcia, 6-1 per lui

Il secondo set è però tutta un’altra storia. Se avevamo detto, fin qui, di come si fosse andati di tre game in tre game, per l’uno o per l’altro giocatore, l’inizio di un nuovo parziale non sembra cambiare tale tendenza. A riuscire però questa volta a breakkare subito è il russo, che decide di imporre un altro ritmo alla partita e agli scambi, evitando di concedere il fianco alle accelerazioni di dritto dell’avversario, che lo avevano fatto penare, e parecchio, nel parziale iniziale.

Musetti prova a rimanere agganciato sul 3-1, ma non riesce più a contenere a dovere gli attacchi da fondo dell’ex top-ten. Quest’ultimo trova addirittura il modo di portarsi avanti di due break, tornando quello che la settimana scorsa aveva trionfato ad Astana grazie al servizio, alla costanza e al ritmo da dietro. Solo due punti persi in quattro turni di battuta, 13 su 13 con la prima in campo: numeri che testimoniano un dominio nel parziale e spiegano il netto 6-1 finale.

Terzo set: Musetti gioca il miglior parziale da parecchio tempo a questa parte e approda al secondo turno

Tra secondo e terzo set, Musetti chiede l’intervento del medico per un problema alla vista, per il quale gli vengono applicate delle gocce. Una magagna che non gli impedisce comunque di ripartire con un game al servizio incoraggiante e incamerato a -30, complice qualche aiutino di Khachanov che non guasta mai. E proprio il carrarino ha la prima mini-occasione del parziale decisivo, sul 2-1 e 0-30 in suo favore, ma il servizio e il dritto del russo non sono più quelli traballanti del primo set e lo aiutano a rimontare e ad agganciare Lorenzo sul 2-2.

La qualità dei colpi, non così alta fino al terzo set e soprattutto troppo altalenante tra i due giocatori, aumenta esponenzialmente nel momento topico. Lorenzo, ormai lontano parente di quello del secondo parziale, gioca un game di livello eccelso per prendersi il break che lo porta sul 4-2 – il rovescio lungolinea con cui chiude il gioco è magico – e conferma l’allungo sul 5-2, uscendo da un game complicato ai vantaggi con un ace e un punto manovrato alla perfezione partendo da una smorzata. È l’allungo decisivo per il toscano, nonché quello che manda definitivamente al tappeto Karen, fiaccato anche dalle fatiche della scorsa settimana. 6-2 per Lorenzo e sottavi di finale ottenuti, con urlo liberatorio finale annesso, per una partita che può infondergli grande fiducia in vista del finale di stagione.

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