Editoriali del Direttore
Next Gen ATP Finals, un torneo che odora di giovane e fresco. Show godibile, più pregi che difetti. Qualità tecnica indubbia
MILANO – Se Korda e Alcaraz sono già quasi campioni oggi, almeno tre degli altri lo diventeranno. La dolente nota di Sinner fuori dai top-ten

Dopo due giorni vissuti all’interno del Next Gen all’Allianz Cloud ammirando alcuni campioni del domani con la sensazione che almeno un paio lo siano quasi già oggi, Alcaraz e Korda su tutti, provo a trasmettervi qualche altra impressione.
Comincio dall’ex Palalido. È un palazzetto per certi versi fantastico, una chicca, direbbero i ragazzi. E per altri inadeguato. Ma la percezione cambia a seconda che uno ci vada per vedere giocare a tennis, gli spettatori quindi, e chi invece ci debba lavorare o passare 12 ore. La priorità è il pubblico che paga. E non poco, perché i biglietti sono carucci assai. Però il modo in cui si vede il tennis è splendido e se i tennisti sono all’altezza, come stanno quasi tutti dimostrando in questi giorni, lo spettacolo vale il prezzo del biglietto. Almeno mi pare. Anche perché i match sembrano accorciati dalla regola del set che si chiude alla conquista del quarto game, anziché del sesto, ma alla fine trattandosi di match tre set su cinque, le partite durano più o meno come quelle tradizionali, salvo che un giocatore domini in 3 set. Ma vere passeggiate vincenti per ora non mi sembra di averle viste, neppure quando Alcaraz appariva decisamente (ma non così nettamente), più forte dei due avversari finora incontrati.
Il match assolutamente godibile lungo 5 set tra Lorenzo Musetti e Hugo Gaston e vinto dal toscano in un susseguirsi di emozioni, di scambi e colpi assolutamente straordinari, è durato 2 ore e 33 minuti, è stato super godibile e un bellissimo spot per il tennis. Fortunati coloro che lo hanno vissuto dal vivo all’Allianz Cloud – salvo magari quelli che avevano posti dietro all’ingombrante seggio dell’arbitro; perché non studiarne uno trasparente? – ma privilegiati anche coloro che si sono sintonizzati sui vari canali tv che lo hanno trasmesso fino ai dintorni di mezzanotte.
Prima di accennare al tennis giocato, va fatta una necessaria premessa: questo è un torneo giocato da giovani e pensato con un approccio decisamente rivolto ai giovani. Si giustifica, anzi si apprezza perfino, il disc jockey a bordo campo, gli annunci e la musica a palla che farebbero accapponare la pelle agli spettatori del Queen’s, la cui ambientazione è ancora più chic di quella di Wimbledon, ma d’altra parte è il club della Regina. Il pubblico, specie in queste prime giornate, probabilmente grazie anche al coinvolgimento di scuole e di circoli, è in gran parte fatto di giovani. E giovanissimi. I ragazzini ne sono entusiasti e potendo muoversi da una parte all’altra dell’impianto anche quando al piano basso i giocatori scambiano missili, corrono da una parte all’altra per raggiungere bar, toilettes, amici, senza in realtà disturbare più di tanto. Non ho l’impressione che i giocatori se ne accorgano. Le tribune sono allestite in modo tale che quelle corse a volte sfrenate dal basso non si vedono. E gli spettatori più anziani accettano quelle novità – che come sapete non sono le sole – con rassegnata condiscendenza. Senza lamentarsene troppo.
Personalmente mi pare di rivivere certe atmosfere da me scoperte a Bondi Beach per il primo torneo olimpico (anno 2000, Giochi di Sydney) di beach-volley che ebbi la ventura di seguire prima di quelli di Atene 2004, Pechino 2008, Londra 2012 (magnifica la location londinese accanto all’Horse Guard Parade, la piazza delle Guardie a cavallo vicino Westminster, Lupo e Nicolai divennero i miei eroi), Rio 2016 (l’Arena de Volei de Praia lungo la spiaggia di Copacabana, e ho detto tutto), mentre allo Shiozake Park nella baia di Tokyo quest’anno non sono andato perché pur avendo i giapponesi fatto trasportare 3.500 tonnellate di sabbia dal Vietnam, l’idea che non ci fosse il pubblico e l’atmosfera gioiosa delle precedenti Olimpiadi me ne hanno tenuto lontano.
Scusandomi per la digressione vorrei soffermarmi sull’eccellente coreografia del NextGen. Ne godono certamente gli sponsor, il title sponsor Intesa Sanpaolo in primis, perché la cartellonistica digitale (ma si chiama così?) grazie anche a una fantastica grafica, è visibilissima e direi perfino bella. Dai piccoli riflettori che fanno risaltare sulla rete il logo di Emirates, dalle panchine illuminate dei giocatori ai cambi campo con il logo delle BMW a fianco delle ghiacciaie della Valmora – e per dar conto della velocità dei servizi che viaggiano quasi sempre intorno ai 190/200 km orari (e anche più), beh, mi pare giusto che lo sponsor sia BMW che non punta a vendere più modelli sportivi che non utilitarie da centro cittadino con il divieto di superare i 40 km – all’immancabile Rolex che scandisce il tempo, al castelletto di palle Dunlop vicino al seggio dell’arbitro, insomma siamo arrivati a un livello di comunicazione commerciale ai limiti dell’insuperabile.
Strano che non abbia trovato sponsor ancora lo shot clock per il rispetto della regola dei 25 secondi, mentre ho visto con un po’ di ritardo che c’è Valmora anche sulla zona asciugamani che ha avuto il grandissimo merito di costringere anche i giocatori più viziati ad andarseli a prendere da soli – almeno qualcosa di buono l’orribile Covid ci ha portato – evitando quell’odiosa umiliazione a ragazzini e ragazzine raccattapalle che dovevano porgerli tutti sudacchiati anche dopo il primo 15 di un match. Uno sconcio cui si è finalmente posto fine. Anche se poi si è subito approfittato della neonata zona asciugamani per farla diventare area coaching: i tennisti vanno a prendersi l’asciugamano e lì dietro ci sono i coach a dispensare consigli, senza più quell’americanata delle cuffie degli anni passati. Ma senza nemmeno costringere gli allenatori a lisciarsi i baffi per suggerire un attacco (penso a Ion Tiriac), a fare un segno con la testa a destra oppure a sinistra per dire dove servire (penso a Mouratoglou), a toccarsi il naso per dire non so più cosa (e penso a tutti).
Giusto, non giusto? Non saprei: di certo è un’opportunità di visibilità in più per i coach. Ma sarà sempre conveniente per loro? Ne ho conosciuti alcuni, anche italiani e non faccio nomi, che molto più di “Dai, Forza, Fiducia!” non sembravano saper dire. Vero che il coaching è ufficialmente ancora sanzionabile nel circuito maggiore. Mi ha riferito il telecronista di Sky Pietro Nicolodi che però lassù in alto in cabina tv non arrivava il suono del campo, dell’impatto delle palle sul piatto corde, né le parole dei coach ai loro assistiti. Beh, questi non sono dettagli che dovrebbero sfuggire agli addetti (i tecnici) ai lavori. Magari da oggi in poi avranno rimediato.
Chissà che il NextGen non sia stato il… cavallo di Troia per introdurre il coaching anche per il tennis maschile, come già esiste per quello femminile. Anche se altre regole “trasferibili” maggiormente prioritarie a parer mio dovrebbero essere quella di un solo MTO (Medical Time Out e con minutaggio limitato; se qualcuno si è procurato un infortunio così grave da stare fermo dieci minuti sul campo o negli spogliatoi, pazienza, sfortuna, non è sempre detto che the show must go on) e soprattutto un solo toilette-break cronometrato e regolamentato (tenendo conto della distanza del campo dal bagno).
Mi piace anche “l’occhio di bue” che illumina costantemente la scritta Milano a fondo campo, un paio di metri oltre la riga. Mi pare che non ci sarebbe stato male accanto anche l’anno, 2021. Perché se fra qualche anno si mostreranno le immagini di qualche protagonista, di qualche scambio bellissimo – e in questi primi giorni ce ne sono stati parecchi – sarebbe meglio che si sapesse a quale anno si riferivano. E sono certamente coinvolgenti anche le scritte che appaiono a bordo campo, e che avevo visto per la prima volta forse alla 02Arena di Greenwich per la prima delle 12 ATP Finals di Londra: ace, breakpoint, setpoint, matchpoint, scandite da suoni tambureggianti, e non le ricordo nemmeno tutte, ma compaiono quelle che ricordano la situazione di punteggio, il punto no-ad, certe regole che possono risultare sconosciute al grande pubblico. Quello presente sulle tribune, quello sul divano di casa davanti alla tv.
Un discorso a parte merita l’acustica. È massimamente coinvolgente per certi versi: invece che 2.000 spettatori sembra ce ne siano 20.000, un piccolo Maracanà. Bello, applausi, standing ovation, atmosfera allegrissima, davvero giovanile. Però per tutto ciò che sono le interviste sul campo ai giocatori a fine partite, fatte di solito da Diego Nargiso, in quattro quinti dell’ex Palalido non si sente nulla. Arrivano suoni rimbombanti e indistinguibili. Ovviamente se a parlare è Musetti ci si può raccapezzare improvvisando un puzzle di frasi, ma per gli stranieri – di sei nazioni diverse – l’ascolto è solo ricco di suspense e frustrazione.
Qualche telespettatore mi ha scritto lamentandosi per la scarsa visibilità delle palle, soprattutto nelle traiettorie dei servizi esterni perché ci sarebbe una rifrazione della luce che crea un’area non ben definita nei contrasti fra palla e superficie. In effetti ho constatato che due zone impercettibilmente illuminate in modo diverso ci sarebbero. Però per quel che si vede a casa non saprei: può anche essere che dipenda però dalla minore o maggiore definizione dei vari apparecchi televisivi.
Sulle linee elettroniche e la scomparsa “umana” dei giudici di linea mi sono espresso in uno dei miei videoaneddoti pubblicati nella rubrica “Sottorete” che potete trovare sul sito di Intesa Sanpaolo. Sono una dozzina e racconto un po’ di tutto, lungo gli oltre 40 Masters di fine anno (o ATP Finals che dir si voglia) che ho seguito dal 1970 al… prossimo a Torino.
Ieri sera anche l’elettronica una volta ha combinato uno scherzetto: una voce metallica ha “sparato” con so quanti decibel un “out” in un momento in cui la palla volteggiava a mezzo campo. Si è fermato il gioco, naturalmente, e si è ripreso come quando nel calcio l’arbitro viene colpito da un pallone. No problem. Succede anche alle migliori tecnologie di avere un momento di panne. Il tabellone segnapunti in alto che ripropone le fasi salienti di un punto appena concluso, un replay insomma, è utile e piacevole. Gli stessi giocatori lo guardano spesso, e non solo per sincerarsi nel caso delle close call se il loro colpo era effettivamente buono o fuori. Hugo Gaston lo guardava più degli altri. Spesso per i punti più belli e spettacolari. Più spesso per i propri vincenti. Quasi a compiacersene. So’ ragazzi. Come non capirli?
Ragazzi che giocano davvero bene. Tanti erano venuti all’Allianz Cloud attratti dalla presenza di Musetti e augurandosi un bis del miracolo Sinner. Ma è difficile, molto difficile che si ripeta. Già è stata complicatissima la vittoria su Gaston che gli ha giocato 1000 palle corte, com’era prevedibile, approfittando dell’abitudine di Lorenzo a rispondere e giocare da molto lontano. Però ieri sera ha cercato di stare più vicino e certe risposte anticipate di rovescio lungolinea sui punti dispari nel finale del match sono state da “strappa-applausi”.
E con Korda è dura, durissima, perché Korda mi è sembrato il meno di junior di tutti i partecipanti. Infatti con i suoi 21 anni è il più anziano. Ed è anche il più solido. Sbaglia pochissimo. Mentre gli altri, compreso il fenomenale Alcaraz – l’altro tennista più atteso e più “vendi-biglietti” – alternano colpi altamente spettacolari e così difficili da apparire improbabili, a non pochi regali di gioventù. Però è un tennis fresco, rischioso come è giusto che rischino i giovani più incoscienti. Però è il loro bello. È un torneo giovane giocato da giovani e si vede. Ma è piacevolissimo spettacolo, davvero. Ho visto scambi incredibilmente spettacolari, prolungati, da alzarsi in piedi alla fine. Meglio di molte partite del vero ATP Tour. Non so se sia anche la formula a favorire questo genere di show.
Il punto no-Ad, ad esempio, indubbiamente crea grande attenzionalità. Certo io appartengo alla generazione dei vantaggi, dei dieci breakpoint in un game, quindi faccio fatica ad adeguarmi, però per questo torneo anomalo ci può stare. Anche se a un certo punto l’ATP dovrebbe forse decidere se interrompere quegli sperimenti che poi non si sente di adottare. Proprio per restituire la massima credibilità tecnica a questa manifestazione di cui non si conosce il futuro. La si giocherà ancora l’anno prossimo? E a Milano oppure a Torino dove si potrebbero fare economie di scala? Prima o poi ce lo faranno sapere. Meglio prima no?
Parlando infine del livello tecnico del torneo direi che le prime tre edizioni parlano per esso: dei 21 partecipanti degli anni 2017, 2018 e 2019, otto sono approdati fra i primi 10 del mondo. Non solo Sinner che purtroppo ne è appena uscito ed è stato n.9 sia pure per una sola settimana fin qui – una brutta notizia che commento dopo – ma Medvedev che è n.2, Tsitsipas che è stato n.3, così come Rublev n.5, Khachanov e Ruud n.8, Hurkacz n.9, Shapovalov n.10. Ci sarebbero poi due tennisti, Zverev n.3 e Berrettini n.7, che alle NextGen non hanno giocato e il tedesco venne per giocare soltanto un’esibizione dal momento che la settimana successiva doveva giocare le ATP Finals a Londra – e sappiamo come le giocò – mentre Berrettini perse al primo turno da Baldi (allora n.459 ATP) nel torneo dello Sporting Milano 3 che doveva assegnare una wild card a un italiano.
Se Korda e Alcaraz sono già quasi campioni oggi, e li vedo probabilissimi top 10 (nel caso dello spagnolo se dico top-3 sbaglierò?) almeno 4 degli altri 6 partecipanti milanesi, secondo me hanno la qualità per entrare fra i top 20 e magari più su. Penso (mi auguro non sia soltanto una speranza) al nostro Musetti che certo sarebbe stato maggiormente favorito da un circuito ATP che avesse un maggior numero di tornei sulla terra battuta. Penso a Baez che non conoscevo abbastanza e che mi ha molto impressionato anche per intelligenza tennistica oltre che per una agilità pazzesca: ogni tanto sbarella di dritto, ma può arrivare a fare quel che ha fatto Schwartzman. A rete mi sembra già oggi superiore, anche perché ci va quasi sempre con una perfetta scelta di timing.
Penso a Rune: ragazzi è classe 2003 e vince già a Bergamo. Vi ricorda qualcuno?. Ha personalità da vendere e puro talento. Il suo primo set contro Alcaraz lo ha dimostrato anche a chi non lo aveva visto altrove. Penso a Gaston che ha un talento degno di Santoro e gambe infinitamente superiori. Un pochino meno mi entusiasma Nakashima e ancor meno Cerundolo, ma quando si scrive di giovanissimi gli errori nelle previsioni sono dietro l’angolo. Sono troppi i fattori imprevedibili nella crescita, nella costruzione tecnica di un giocatore. Il talento nel colpire la palla è solo un fattore, ma ce ne sono tanti altri.
Insomma chapeau a questo torneo NextGen inaugurato quattro anni fa nel quasi generale scetticismo e poi invece decollato tecnicamente a ottimi livelli. Che poi i giornalisti siano confinati in un bunker, tipo catacombe, difficilmente vivibile e con connessioni telefoniche quasi impraticabili, senza altro che le bottigliette d’acqua della Valmora (meno male!) e pochi paninucci pochissimo appetitosi e comunque in quantità miserrime (alle 13 sono finiti per tutto il giorno e si sta a lavorare sulle partite serali fino a dopo mezzanotte: l’unica è andare all’Esselunga a 600 metri di quei, oppure imbottirsi di hotdog nei 2 minibar dell’Allianz Clud o a quella tenda da stadio fuori del palasport) e comunque interessa solo a noi e non vale neppure la pena di chiedere per il futuro un pochino di maggiore attenzione anche ai problemi di chi debba comunicare all’esterno il torneo. La logistica forse non consente granché di meglio ed è chiaro che la priorità venga sempre assegnata a chi investe soldi e ha necessità di utilizzare il torneo e gli spazi migliori per operazioni di pubbliche relazioni. Accade ovunque. Con l’ATP che ti scrive papale papale che “ricevere un accredito non è un diritto, ma un privilegio”. Bei tempi quelli nei quali invece gli organizzatori quasi ti imploravano perché tu “coprissi” un torneo. Era quando non tutto veniva dominato dalla tv e chi scriveva fin da giorni (e anche mesi) prima di un torneo veniva corteggiato perché la promozione a mezzo stampa veniva considerata assai diversamente. Il torneo si considerava privilegiato dalla presenza non virtuale della stampa. Per comunicare meglio il torneo, per vendere i biglietti, per valorizzare in anticipo la presenza degli sponsor.
Restando in termini comunicazionali accenno alla dolente nota proveniente da Stoccolma. La sconfitta di Sinner con Murray, e la conseguente uscita di Jannik dai top-ten, non cambierà la vita del tennista altoatesino. Che peccato però!
Però a livello comunicazione sciupa un pochino quello che ci sarebbe piaciuto scrivere per tutti i prossimi giorni fino all’Australia (salvo che Sinner riesca a giocare un match e a far punti a Torino dove, come sapete, è la prima riserva). Però mi sa che difficilmente potremo dire ancora che l’Italia chiude il 2021 con due top-ten. A pensarci bene i soli che forse non se ne lamenteranno troppo saranno gli sponsor. E Sinner ne ha tanti, tantissimi. I bonus previsti dal suo management per un top-ten a fine anno, non saranno stati modestissimi. Almeno credo. Ci hanno guadagnato loro, gli sponsor, ci ha rimesso quindi Sinner, e i suoi agenti che viaggiano a percentuale, ma credo che quella economica sia l’ultima delle sue preoccupazioni.
Chiudo con lo scenario della NextGen a conclusione della seconda giornata. Nel gruppo A Alcaraz è già qualificato per le semifinali. Il vincitore di Nakashima-Rune sarà il n.2 del Gruppo A. E ha vinto Nakashima, nonostante il tifo della maggior parte dei ragazzini fosse per il più giovane danese, 18 anni contro 20, 3-4 (3),4-1-4-1,4-3 (1)Per il gruppo B tutto molto più complicato: sette possibili situazioni!
- se Korda batte Musetti e Gaston batte Baez, Korda sarà n.1 del gruppo e Gaston n.2
- se Korda batte Musetti e Baez batte Gaston, Korda sarà n.1 del gruppo e Baez 2
- se Musetti batte Korda e Gaston batte Baez, Musetti sarà n.1 del gruppo e Korda n.2
- se Musetti batte Korda in 3 o 4 set e Baez batte Gaston in 3, Baez vincerà il gruppo e Musetti sarà n.2
- se Musetti batte Korda in 5 set e Baez batte Gaston, Korda vince il gruppo e Baez è il qualificato n.2
- se Musetti batte Korda in 3 set e Baez batte Gaston in 4 o 5 set, Musetti vince il gruppo e Korda sarà il n.2
- se Musetti batte Korda in 4 set e Baez batte Gaston in 4 o 5 set, Korda vince il gruppo e Baez si qualifica come numero 2.
Piaciuto il rompicapo?
Editoriali del Direttore
È morto Roberto Mazzanti, per 20 anni direttore di Matchball, la Bibbia dei veri appassionati di tennis
Tennis e giornalismo i suoi grandi amori. Sotto la sua guida saggia ed equilibrata hanno lavorato Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, Viviano Vespignani, un giovanissimo Scanagatta. un imberbe Stefano Semeraro, il boy Luca Marianantoni e tanti altri. Era impossibile litigarci

Aveva 82 anni, era stato colpito da un malore a gennaio. Purtroppo non si più ripreso Roberto Mazzanti, uno dei pochi, pochissimi giornalisti davvero signori, con i quali era impossibile litigare. Un uomo per bene. E non lo scrivo perchè ci ha lasciato, ma perchè è vero. E lo può dire e confermare chiunque lo abbia conosciuto.
Roberto era stato negli anni Settanta il direttore di Matchball (in edicola dal 1970 al 1996), la seconda rivista di tennis – dopo “Tennis Club” diretta da Rino Tommasi – per la quale poco più che ventenne avevo cominciato a collaborare, spinto dalla mia inesauribile passione per il tennis e per il giornalismo, gli stessi due grandi amori di Roberto. Per lui, come per me, era una passione romantica, senza mai l’ambizione di arricchirsi, ad alimentare quei due eterni amori.
Lui, bolognese, era cresciuto all’interno del Resto del Carlino dove era stato assunto inizialmente come correttore di bozze. Infatti, diventato poi redattore professionista del quotidiano bolognese, dividendosi fra le pagine della cronaca cittadina come dello sport – come sarebbe successo anche a chi scrive – non avrebbe mai sopportato i refusi.
Non l’ho mai visto arrabbiato, mai perdere il controllo, mai alzare la voce. Un gentiluomo con aplomb british, mascherato da un moderato accento emiliano. Adorava guardare il tennis, non solo quello dei grandi – venne anche a vedermi giocare la finale di doppio dei campionati italiani di Seconda Categoria al Circolo Tennis Giardini Margherita, lui che frequentava la Virtus del presidente (anche FIT) Giorgio Neri – ma gli piaceva anche giocarlo. E lo ha fatto da dilettante fino a tempi anche recenti, sebbene avesse scoperto anche il golf e, negli anni, gli fosse venuta anche la passione per le automobili, la tecnologia, il loro evolversi.
Lavoravamo per lo stesso gruppo editoriale, la Poligrafici, ma io – più giovane e scapolo mentre lui era sposato – ero più disponibile a sacrificare ferie e vacanze (a caccia di ospitalità o alberghi a due stelle) per andare a seguire il tennis nel maggior numero possibile di tornei.
Quindi per Nazione e “Carlino” accadeva che lui mi lasciasse il passo per gli Slam e che io lo lasciassi a lui per la Coppa Davis …che allora era una cosa seria, ma si esauriva in alcuni long-weekend e che potevano essere anche 5, 6 o 7 in un anno se l’Italia andava in finale come accadde per quattro anni su cinque fra il ’76 e l’80. Accadde anche che con quei ripetuti exploit dei nostri 4 moschettieri azzurri io mi ritrovassi a seguire insieme a Roberto anche quegli eventi a squadre.
Non esisteva Internet, né la composizione digital-elettronica e Matchball optò, anche per contrapporsi a “Il Tennis Italiano” che era un mensile, una cadenza quattordicinale. Usciva in edicole (sì, esistevano ancora…) ogni due martedì e sotto la guida di Roberto scrivevamo i nostri articoli Roberto, Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, il sottoscritto, Paolo Francia, Viviano Vespignani e (diversi anni dopo) si sarebbe aggiunto, fra i tanti, anche Luca Marianantoni con tutti i numeri che si portava appresso. In redazione due giovani di belle speranze, Stefano Semeraro e Enrico Schiavina., Al lunedì mattina Matchball doveva essere “chiuso” in tipografia. La domenica sera…si finiva per scrivere editoriali, pagelle, statistiche, a notte inoltrata. Sempre facendo le corse, perché magari le partite, ai più diversi fusi orari, finivano tardissimo e la copertura era massiccia. Per merito di tutto il team Matchball diventò ben presto la rivista leader e tale restò fino a che l’avvento di Internet, delle notizie on line, delle coperture televisive di più network, fece strage di gran parte delle riviste cartacee, impossibilitate a reggere la concorrenza sul piano della tempestività dell’informazione.
Roberto, giornalista elegante ed equilibrato, prediligeva i tennisti dal bel braccio, McEnroe, Panatta, Bertolucci (e più recentemente inevitabilmente Federer), Rino era prima innamorato di Rosewall e poi di Edberg, io stravedevo per l’arte e l’imprevedibilità di Nastase, per la grinta e i limiti tecnici di Connors oltre che per Boris Becker (per far da contraltare a Rino), quando sarebbe arrivato Luca avremmo annoverato nel team di Matchball anche un grande fan di Lendl.
Vabbè, vedete, anche adesso che Roberto ci ha improvvisamente lasciato affiorano nella mia mente tanti ricordi, tanti amichevoli dibattiti e lui che, con fare quasi ecumenico, mi diceva: “Dai Ubaldo scrivi le tue pagelle, falle un po’ tecniche, un po’ironiche, senza infierire mai troppo…anche se lo sappiamo tutti che se devi scrivere di promossi e bocciati, ai lettori piaceranno sempre più i voti bassi che quelli alti, quelli più critici che quelli pieni di elogi. Il mondo va così” diceva chiaramente dispiacendosene. E a quei tempi non esistevano ancora i leoni da tastiera, gli “webeti”. Che la terra ti sia lieve caro amico. E che tua moglie Anna, tuo figlio Luca, la tua nipotina adorata, sopportino con forza e coraggio il vuoto che lasci a loro e a tutti quelli che ti hanno stimato e voluto bene.
Australian Open
Australian Open: Il fenomeno Djokovic è di un altro pianeta. Tsitsipas non poteva fare di più. Non è la parola fine sul GOAT
I fenomeni non sono stati solo tre, Djokovic, Federer e Nadal. Perché se si dà peso primario ai titoli Slam, Rosewall e Laver non possono essere ignorati. E perchè un solo anno, e non sempre, laurea il vero n.1

Il resto del video, che qui potete vedere in anteprima, è disponibile sul sito di Intesa Sanpaolo, partner di Ubitennis.
Clicca QUI per vedere il video completo!
Non ho mai pensato che potesse finire diversamente. L’unico momento di dubbio l’ho avuto – insieme a Djokovic – quando entrambi abbiamo temuto che il suo problema alla coscia fosse un problema serio.
Così come gli altri due fenomeni, Federer e Nadal (elencati, a scanso equivoci, in ordine alfabetico), Novak Djokovic è di un altro pianeta rispetto a tutti gli altri contendenti. Come fenomeni sono stati nello sport più popolare – se cito soltanto i fenomeni del calcio, anziché altre discipline sportive, è perché è più facile che quasi tutti capiscano di che cosa parlo – Pelè a cavallo degli anni 60/70, Maradona un ventennio dopo, Messi e Cristiano Ronaldo nel terzo millennio.
Djokovic, Federer e Nadal (ancora in ordine alfabetico) hanno lasciato le briciole a tutti gli altri tennisti loro contemporanei. E l’hanno fatto con una continuità spaventosa, in un arco temporale inimmaginabile che ha spaziato fra i 15 e i 20 anni. Davvero incredibile.
Mentre i campioni Slam del passato una volta superati i 30 anni difficilmente riuscivano a restare competitivi per più anni,– salvo rarissime eccezioni: Rosewall, Connors, Agassi su tutti – mentre qualche straordinario campione come Borg o McEnroe ha smesso di giocare o di vincere già a 26 anni – questi tre hanno continuato a dominare il resto della concorrenza come se fosse la cosa più normale del mondo. E tutti a sorprendersi, a meravigliarsi con infinito stupore quando ciò, a uno dei tre, ma mai a tutti e tre insieme, non succedeva.
Nel conquistare il meritato appellativo di “fenomeni” i tre supercampioni non si sono limitati a registrare un record dopo l’altro pur dovendosi affrontare fra le 50 e le 60 volte in pazzeschi testa a testa, dopo essersi inseguiti come i celebri duellanti di Conrad ai tempi di Napoleone ai 5 angoli/continenti del mondo sulle più varie superfici. Ma tutti e tre hanno dato dimostrazione di formidabili e superiori doti tecniche, atletiche, caratteriali, intellettuali, morali, umane. Ho forse dimenticato un qualche aspetto?
A trovar loro un vero difetto, come campioni e come uomini, personalmente ho sempre fatto fatica. Anche perché li ho conosciuti tutti da vicino e fin da quando hanno cominciato a cogliere i loro primi stupefacenti successi, quasi imberbi, a 16 e 17 anni. Quando anche un “parvenu” del tennis avrebbe intravisto le loro eccezionali qualità. Personalità intelligenza, simpatia, resilienza, determinazione, avevano tutto fin da subito. Le si potevano scorgere a occhio nudo, senza farsi condizionare dalla semplice precocità.
Forse proprio Djokovic, il più giovane dei tre e colui che sembra destinato a restare sulla breccia più a lungo degli altri, è quello – anche per le sue posizioni NOVAX (peraltro coerenti al massimo, diversamente da chi ha presentato certificati falsi assolutamente imperdonabili) – che ha sollevato più casi controversi. Talvolta nemmeno interamente per sue responsabilità. Il background della sua famiglia, l’educazione, lo stile di vita, sono stati diversi da quelli di Federer e Nadal.
Eppoi lui è arrivato dopo di loro, quasi un intruso, in un mondo che tennisticamente si era diviso all’80% fra federeriani e nadaliani. Per conquistarsi un posto, ha dovuto farsi spazio fra loro, impossessandosi di quel 20% che era rimasto ai neutrali. E dovendo giocare dappertutto con folle di tifosi più ostili che amiche. In patria è diventato un simbolo, un eroe, un semiDio. Fuori no. E’ stata dura, molto più dura che per gli altri due fenomeni conquistarsi un suo pubblico, un suo status internazionale. Lo ha potuto fare nel solo modo che lo sport consente: i risultati. Risultati assolutamente straordinari. Pian piano ha battuto i suoi leggendari rivali più volte di quanto di avesse perso. Pian piano ha autorizzato i suoi estimatori a inserirlo nell’eterno dibattito sul GOAT, sul più forte giocatore di tutti i tempi.
Non si metteranno mai d’accordo i tifosi dei tre fenomeni. Tutti avranno buoni motivi per sponsorizzare il loro fenomeno d’elezione. Chi privilegerà un’epoca ad un’altra, una strong era a una weak era (e qualche vuoto pneumatico al top dei competitor c’è stato per tutti e tre), chi lo stile e l’eleganza, chi la forza e la garra, chi la completezza, chi una superficie o un’altra. E qualunque conclusione verrà raggiunta sarà sempre ingiusta. Anche perché se in uno stesso anno possono cambiare in maniera pazzesca le cose – pensate solo al 2016 con i primi 6 mesi di Djokovic e i secondi 6 mesi di Murray – e figurarsi da un anno all’altro – pensate al 2017 e ai 4 Slam divisi fra i “risorti” Federer e Nadal che molti avevano già dati per finiti – se si dovessero confrontare pacchetti di più anni, in cui sono magari cambiate le attrezzature, le superfici, ogni paragone fra epoche diverse condurrebbe a emettere verdetti assolutamente discutibili, comunque superficiali.
Oggi, e chiudo questo lunga premessa, i fan di Djokovic ebbri di gioia per i 22 Slam che hanno consentito a Nole di eguagliare i 22 di Rafa Nadal e di “staccare” definitivamente i 20 di Federer sembrano aver buon gioco a sostenere che chi vincerà più Slam a fine carriera potrà tappare la bocca a tutti gi altri pretendenti al GOAT.
Ma non è così. Ken Rosewall, cui abbiamo dedicato un bell’articolo in questi giorni, ha vinto 8 Slam ma ne ha dovuti saltare – perché professionista per 11 anni – ben 44. E Rod Laver, unico campione ad aver realizzato due volte il Grande Slam (1962 e 1969, a sette anni di distanza, i suoi migliori 7 anni…), ha vinto 11 Slam dovendo saltare 20 Slam fra il 1963 e il 1967. Non potevano essere loro i GOAT? I fenomeni del tennis non sono stati solo tre.
Quelle ultime due lettere, A e T, stanno per ALL TIME. Se allora ALL TIME, per i motivi su esposti, non si può dire, limitiamoci allora a dire chi sia stato il miglior tennista del mondo anno per anno. E solo in quel caso è più probabile che non ci si sbagli, anche se – ripetendo l’esempio fatto poc’anzi – se si prende in esame un anno come il 2016 nel quale Novak domina i rimi sei mesi, Andy Murray i secondi sei, e il computer ATP assegna il numero uno year-ending a Murray perché vince la finale del Masters…beh anche in quel caso siamo così sicuri che il verdetto fosse così inequivocabile, inappellabile? Una sola partita può decidere chi sia il miglior tennista di tutto l’anno, solo perché lo dice un computer che – cito per l’ennesima volta Rino Tommasi – “sa far di conto, ma il tennis non lo capisce?”.
Vabbè, torno sulla finale e sulla superiorità disarmante di Djokovic perfino al termine di un match non immune da pecche, da errori evitabili, da nervosismi quasi inesplicabili come quello che lo ha colto a metà del secondo set quando avrebbe potuto continuare a gestire tranquillamente il match come aveva fatto fino ad allora.
Tsitsipas non poteva far molto di più, salvo che – nel tiebreak del secondo set – evitare quei quattro errori di dritto, il suo colpo migliore andato improvvisamente…in barca.
Ma Djokovic, che è indiscutibilmente da anni il miglior ribattitore del mondo – e qui, su questo giudizio, credo possano essere d’accordo perfino i tifosi di Federer e Nadal – era stato ingiocabile sui propri servizi. Fino a quel game in cui Tsitsipas è riuscito – sul 4-5 del secondo set- a conquistarsi contemporaneamente sia la prima palla break che l’unico setpoint Djokovic, aveva lasciato al più temibile dei suoi avversari la miseria di sei punti nel primo set in cinque turni di battuta (la sola volta che Stefanos era arrivato a 30 però Novak era avanti già 3-1 e 40-0) e nel secondo set 5 punti nei quattro turni di servizio. Mai Tsitsipas era ancora arrivato a 40.
Ok? Bene: c’è arrivato in quel frangente e sulla pallabreak-setpoint che fa Djokovic? Prima di servizio e dritto vincente.
Poi un tiebreak giocato maluccio da entrambi, perché sul 4-1 per Nole frutto di tre minibreak seguiti a 3 inattesi errori di dritto di Tsitsipas Nole ha prima regalato un insolito rovescio per lui banalissimo e poi ha fatto anche il secondo doppio fallo del suo match. Ma sul 4 pari ecco di nuovo Tsitsipas, evidentemente teso come una corda di violino, sbagliare un quarto dritto! Djokovic non se l’è fatto dire due volte e dal 4 pari al 7-4 è stato un gioco da ragazzi.
Qualcuno poteva illudersi che dopo il toilette break e l’unico servizio perso da Nole all’inizio del terzo set le cose potessero cambiare? Forse neppure l’irriducibile Tsitsipas.
Dal 2 a 2 in poi Djokovic – che ribadisco essere il miglior ribattitore del mondo – tiene per 4 volte consecutive il servizio a zero: 17 punti di fila (contando l’ultimo che gli aveva dato il 2-1 in un game vinto a 15). Cui seguiranno gli altri primi tre del tiebreak che decide l’ultimo tiebreak in cui, giusto per non illudere Tsitsi e le migliaia di fan greci che non smettevano di gridare “Tsitsipas, Tsitsipas” – mentre fuori dal centrale la stragrande maggioranza nel garden davanti al mega schermo era invece serba (mica facile procurarsi i biglietti…) – Djokovic sale sul 5-0, subisce dopo 20 punti conquistati con il servizio un mini-break, ma poco dopo chiude con un dritto vincente sul terzo matchpoint.
Sì, mi scuso, ho riscritto una cronaca che Cipriano Colonna aveva già scritto brillantemente chiudendola su Ubitennis nei 5 minuti successivi alla conclusione, ma solo per sottolineare come oggi perfino un Djokovic che ha giocato senza fare troppe cose straordinarie, è stato assolutamente ingiocabile in 12 turni di servizio su 14 (salvo che sul 4-5 e sul primo gae del terzo set) ed è sempre stato fortissimo – sì, proprio come sempre – quando doveva rispondere.
I suoi record li abbiamo già ricordati dappertutto. Non credo serva scriverli ancora, prima di cominciare a pensare a che cosa potrà accadere nel regno di Nadal al Roland Garros. Novak ha perso un solo set nel torneo, ma perché con Couacaud al secondo turno gli faceva male la coscia sinistra. Però se fossi stato a Melbourne tutti i suoi dieci trionfi, i 22, i 93, le 374 settimane da n.1 (verso le 377 di Steffi Graf) magari avrei trovato un modo per ricordarglieli in conferenza stampa.
Qua dico soltanto….davvero not too bad! carissimo fenomeno Djokodiecivic.
Australian Open
Australian Open: Sabalenka sugli scudi. Ha vinto il miglior servizio o il miglior dritto? E l’assenza di inno e bandiere bielorusse ha senso?
Hanno vinto…gli studi biomeccanici della regina 2022 dei doppi falli. Ma fra dritto e rovescio, quale è il colpo da fondo di solito più decisivo? Il duello Djokovic-Tsitsipas suggerisce una risposta sbagliata

La nuova campionessa dell’Australian Open, Aryna Sabalenka, è una ragazza che l’anno scorso aveva vinto…la classifica di chi aveva fatto più doppi falli fra tutte le prime 100 tenniste della WTA.
Roba da far arrossire Sascha Zverev. Aryna, che diventa la seconda bielorussa a vincere uno Slam in Australia dieci anni dopo Vika Azarenka, di doppi falli ne aveva commessi ben 427 nel 2022, a una media di 8 a match. Ma lo scorso anno, durante lo US Open, subito dopo aver perso dalla Swiatek, lei che ama farsi chiamare “Tigre” –e che si è fatta fare un tatuaggio di una tigre sull’avambraccio sinistro “perché mi deve ricordare di lottare sempre come una tigre…”- aveva deciso di mettersi a studiare la tecnica della sua battuta con uno specialista di biomeccanica, con due obiettivi: 1) ritrovare percentuali migliori sulle prime palle di servizio 2) servire seconde palle meno aleatorie.
Prima della finale il coach della Rybakina Stefano Vukov aveva dato l’aria di mettere le mani avanti, quasi anche a voler mettere maggior pressione su Aryna: “Il risultato dipenderà da chi servirà meglio”.
E quello della Sabalenka, Anton Dubrov: “Vincerà chi saprà controllare meglio le proprie emozioni”. Anche questo, per la verità, sembrava più un messaggio rivolto alla sua “assistita” piuttosto che a Elena Rybakova, ragazza piuttosto introversa che sembra spesso anche fin troppo in controllo dei suoi nervi. Almeno all’apparenza, perché oggi l’ho vista spesso parlare con se stessa dopo alcuni errori.
Beh, in questa finale vinta 4-6,6-3,6-4, Aryna ha perso il primo set della finale e il primo dell’anno, ma dopo è riuscita abbastanza bene a controllare le proprie emozioni fino a quando – a seguito dell’ennesimo dritto lungo della Rybakina (decisamente il colpo più incerto della kazaka) sul suo quarto matchpoint e dopo che sul primo aveva commesso un doppio fallo – si è lasciata andare lungo distesa sul campo centrale della Rod Laver Arena coprendosi il volto e piangendo come un vitellino, con tutto il petto percorso da sussulti irrefrenabili.
Direi che lo studio ha pagato – soprattutto in percentuale di prime palle, il 65% contro la Rybakina che si è fermata al 59%; la seconda palla invece secondo me necessità di studi ulteriori: è troppo piatta, c’è poco lift – perché durante tutto l’Australian Open di doppi falli Iryna ne ha fatti “soltanto” 29 in 7 partite. Quindi è scesa a 4 di media a match.
Vero, però, che le prime sei Aryna le ha vinte tutte in due set e sempre perdendo pochi game, così come aveva vinto in due set tutte le partite giocate al torneo di Adelaide. Oggi che la partita è durata 2h e 29 minuti per 3 set, i doppi falli sono stati 7, non pochissimi, però sono stati bilanciati da 17 ace (mentre la Rybakina ne ha fatti 9 e un solo doppio fallo: insomma la forbice dice +10 per gli ace a favore della ragazza bielorussa, + 6 a favore per i doppi falli a favore della kazaka) e poi non so dirvi quanti siano stati i servizi immediatamente vincenti, ma in quelle 70 volte in cui ha messo direttamente la prima ha fatto 50 punti. Sospetto che i servizi vincenti che siano stati parecchi.
Quindi il servizio ha svolto un ruolo importante in un match caratterizzato da pochi break, cinque in tutto in 29 game, come vediamo di solito accadere più in un match di uomini piuttosto che di donne.
D’altra parte le due ragazze finaliste hanno un fisico non così comune per il tennis femminile: un metro e 84 centimetri la Rybakina, un metro e 82 la Sabalenka che ha anche due spalle e una potenza che non tanti tennisti di sesso maschili possono vantare e disporre.
I servizi della Sabalenka sfiorano i 200 km orari e fanno male. Se un numero sufficiente di battute le sta dentro, strapparle il servizio è tutt’altro che semplice. Infatti la Rybakina c’è riuscita solo due volte pur essendosi procurata 7 pallebreak, entrambe nel primo set. E poi più.
Con le sue possenti, fracassanti risposte, invece la Sabalenka di palle break ne ha conquistate 13 e dopo l’inutile break del primo set per risalire dal 2-4 al 4 pari, un break a set nei due set successivi le sono bastati per vincere il match e conquistare il suo primo Slam alla sua prima finale e dopo tre stop in tre precedenti semifinali Slam.
Di solito, se fra due giocatrici di simile livello (ma vale forse ancor più per i giocatori) una ha un grandissimo dritto e l’altra ha un grandissimo rovescio, dai tempi di Steffi Graf (anche se Chris Evert potrebbe aver argomenti validi per obiettare), vince quella con il miglior dritto.
Il dritto, in genere, procura più punti. Tant’è che salvo poche eccezioni se a un tennista si offre una palla a mezza altezza e a metà campo, è più normale che il tennista giri attorno alla palla per schiaffeggiarla con il dritto piuttosto che con il rovescio. Il dritto è un colpo più dirompente. E’ più normale schiacciarlo dando anche una spallata. Ma su questa tesi sono più che aperto ad aprire un fronte di discussione e contradditorio…
Ora ci sarà chi, alla vigilia della finale maschile fra Djokovic e Tsitsipas mi obietterà che Djokovic è il favorito anche se il greco ha il miglior dritto e il serbo il miglior rovescio, ma io a mia volta potrò controbattere che Nole fa comunque di solito più punti vincenti con il dritto che con il rovescio. Vedremo domani (ore 9,30 su Discovery-plus).
Intanto chiudo il discorso sulla finale femminile osservando che la bielorussa Sabalenka non ha potuto godere né dell’inno nazionale a celebrare il suo trionfo, né della bandiera bielorussia sul tabellone e sul palmares dell’Australian Open accanto al suo nome. Magari fra qualche anno ricomparirà al posto di una bandiera bianca. E chissà poi che cosa deciderà Wimbledon quest’anno. Molti auspicano un ripensamento. Non i tennisti ucraini. La Kostyuk, sconfitta in semifinale nel doppio femminile, ha chiesto agli inglesi di non fare marcia indietro.
Io ripenso con piacere a quando l’indiano Bopanna e il pakistano Qureshi si sono messi a giocare il doppio assieme.
Ma fra Russia-Bielorussia e Ucraina la guerra è ancora purtroppo così terribilmente virulenta, orribile oggi perché possano essere dei tennisti i primi a soprassedervi, a non farci caso. Anche se potrebbe essere un gran bel messaggio.
La newsletter Slalom.it di Angelo Carotenuto ha riportato un articolo del Sydney Morning Herald secondo cui “Sopprimendo le loro bandiere (di russi e bielorussi), i dirigenti maldestri offrono solo più fiato al loro vittimismo. Che si tratti di Australia, Parigi, Londra o New York, l’anno scorso ha dimostrato che più bandiere vengono bandite dagli eventi sportivi, maggiore è la sfida che producono. Quanto più il mondo condanna il nazionalismo, tanto più acquistano forza coloro che ci credono. Chiediamolo agli ucraini”
Comunque sia quando hanno chiesto a Aryna Sabalenkaq, nuovamente n.2 del mondo “nel giorno più bello della mia vita” (la Rybakina sarà top-ten, ma sarebbe stata top-five se avesse potuto contare anche i 2.000 punti di Wimbledon 2022) se non le sembrasse strano aver vinto uno Slam senza una sola bandiera bielorussa e neppure una menzione alla bielorussa, lei ha risposto con un sorriso: “Credo che tutto il mondo sappia che sono bielorussa, non vale la pena di aggiungerlo”.