Ubicommedia, quarta puntata: il Fraudolento e la Divina

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Ubicommedia, quarta puntata: il Fraudolento e la Divina

Quale miglior diversione dalle vicende australiane di un ultimo viaggio nell’Oltretennis?

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Data la natura dei due personaggi che Ubaldo descrive nella quarta e ultima parte del suo manoscritto, viene naturale dire: il diavolo e l’acqua santa.

IL FRAUDOLENTO: BRAD GILBERT

Per avere un’idea di cosa rappresentò Brad Gilbert in campo per i suoi avversari, lasciamo che sia lui stesso a dirlo attraverso le pagine del suo libro più celebre: “Winning Ugly”, in italiano tradotto con “Vincere sporco. Guerra mentale nel tennis”.

“John McEnroe stava vivendo il suo incubo peggiore. Solo che non era un incubo. Era il Master al Madison Square Garden [edizione 1985, ndr] davanti a migliaia di suoi leali, vocianti, rumorosi tifosi newyorkesi. Questa sera il campione in carica e numero 2 del mondo sta lentamente realizzando che perderà contro un giocatore che non gli piace e di cui disprezza il gioco. Quel giocatore ero io. Per lui era umiliante e stava scoppiando di rabbia. Prima gli partirono gli occhi; avevano lo sguardo di un ragazzino che ha dato fuoco al gatto del vicino: cattivi e spaventati. Il volto aveva quell’espressione carica di odio alla McEnroe. A un cambio di campo mi ringhiò ‘Gilbert, non meriti di essere sullo stesso campo con me’. Stava uscendo di testa. Ci passammo a fianco e nel caso non avessi capito bene aggiunse ‘Sei il peggiore. Il peggiore!‘”

Gilbert finì per vincere quell’incontro con il punteggio di 5-7 6-4 6-1. Per dovere di cronaca (e amore del tennis) aggiungiamo che i successivi sei confronti diretti furono tutti vinti da McEnroe (per un bilancio finale di 13-1), ma il brano citato rende l’idea del modo in cui Gilbert interpretava il gioco: una guerra mentale in cui tutto era lecito pur di destabilizzare l’avversario e vincere.

Brad Gilbert (Artwork by Andrea Bonzagni)

Non facciamoci però trarre in inganno dalle parole e dalle azioni di questo Belmondo del tennis; non si arriva ad occupare la quarta posizione mondiale, a vincere 20 tornei del circuito e un bronzo olimpico, nonché a battere 27 volte i Top 10 dell’epoca semplicemente tirando la sabbia negli occhi agli avversari. Gilbert era un atleta di prim’ordine, velocissimo e molto resistente e un tennista dotato di buoni fondamentali tecnici con i quali sopperiva alla mancanza di potenza. Con queste doti probabilmente un posto intorno alla ventesima posizione lo avrebbe raggiunto comunque; il suo approccio scientifico al tennis in un’epoca in cui era solo lui a farlo gliene regalò parecchie in più.

Con questi presupposti era facile immaginare per lui un futuro di successo come coach dopo il ritiro, e così avvenne. I migliori risultati in quella veste li ottenne come allenatore di Andre Agassi; sotto la sua guida Andre conquistò sei Major. Agassi definì Gilbert l’uomo che “mi ha insegnato come si gioca a tennis. È il miglior allenatore della storia”. Semplice coincidenza il fatto che Andy Roddick conquistò l’unico Slam della sua carriera – US Open 2003 – nel periodo in cui Gilbert era il suo coach? Ne dubitiamo.

Durissima la condanna inflittagli dal tribunale celeste: “Allenerà due giocatori e due soltanto sino  a quando non avranno messo la testa a posto: Nick Kyrgios e Benoit Paire”. In altre parole, fine pena: mai!

SCHEDA DEL GIOCATORE

NomeBrad Gilbert
Nato il09/08/1961
NazionalitàStatunitense
Titoli vinti20
Titoli Slam
Coppe Davis
Miglior Classifica4

LA DIVINA: SUZANNE LENGLEN

Gianni Clerici ha dedicato un libro a Suzanne Lenglen il cui titolo dice già tutto su di lei: “Divina. Suzanne Lenglen la più grande tennista del XX secolo” . Suzanne Lenglen non fu solo un’eccelsa campionessa, ma rappresentò in campo femminile ciò che Bill Tillden rappresentò per il tennis maschile: è l’atleta che trasformò un passatempo in uno sport.

Lasciamo alle parole dello Scriba il compito di introdurcela:

“Suzanne si passò sugli occhi le piccole dita nervose, intuendo nell’abituale cerimonia delle tende sollevate da sua madre la presenza insolita di papà. Mentre la figura massiccia ricoperta di lane grigiastre si stagliava nella luce violenta, Suzanne ricordò che era il giorno del suo tredicesimo compleanno, il 24 maggio 1912. Il viso di papà era sorridente le sue mani stringevano una splendida racchetta nuova, una fiammante Driva Champion. “Cara Suzanne il mio augurio per il prossimo anno è che tu impari la volèe alta di monsieur Caudery” (Gianni Clerici, 500 anni di tennis, p. 166)

Monsieur Caudery era il segretario di casa Lenglen, e siamo certi che la piccola Suzanne imparò rapidamente a eseguire la volée alta meglio di lui.

Sette anni dopo quel giorno arrivò il primo grande successo rappresentato dai Championships del 1919. Sotto gli occhi della regina Mary e di re Giorgio V,  Lenglen sconfisse in finale la Campionissima dei primi del ‘900, la quarantunenne Dorothea Douglass Chambers, detentrice di 7 titoli , con il punteggio 10-8 4-6 9-7.

Celebre l’episodio capitato sul 4-4 del secondo set: preda della fatica e dello stress, Suzanne si fece dare dal padre una fiaschetta contenente cognac e ne bevve due generosi sorsi che non la aiutarono però a salvare il set. Nel terzo, sul punteggio di 6-5, Dorothea ebbe due match point consecutivi (ricorda qualcosa o qualcuno?) ma Suzanne riuscì ad annullarli ed infine a vincere.

Suzanne Lenglen (Artwork by Andrea Bonzagni)

Da quel giorno e per i successivi sette anni fu quasi imbattibile. L’anno successivo a Wimbledon in finale concesse tre game a Dorothea Lambers- Chambers; alle olimpiadi di Anversa del 1920 perse quattro giochi su 64 disputati. Non si sa chi ebbe l’idea di soprannominarla “Divina”, ma come tale si comportò  anche fuori dal campo. I più grandi stilisti francesi se la contendevano al pari di alcuni sovrani europei che volevano averla al fianco nei doppi misti.

Torniamo al tennis giocato. Nei primi anni ’20 la sua avversaria più difficile fu una norvegese: Molla Mallory. Mallory la batté al loro primo incontro avvenuto allo US Open del 1921; Suzanne quel giorno era fisicamente debilitata e la sua vendetta non tardò a venire: 6-2 6-0 in 26 minuti nella finale di Wimbledon del 1922.

Tra il 1922 e il 1923 raggiunse il suo apogeo tennistico: 179 partite vinte consecutivamente e 45 titoli. Nel 1925 trionfò per la sesta ed ultima volta a Wimbledon perdendo cinque game in cinque partite. Il 1926 fu il suo ultimo anno da dilettante; a Cannes vinse in due set un incontro prontamente ribattezzato “il match del secolo” contro la futura dominatrice del tennis femminile: la statunitense Helen Wills Moody.

La sua storia d’amore con Wimbledon finì nel 1926 in maniera traumatica: la Divina rischiò di essere squalificata per non essersi presentata in tempo ad un incontro di singolare e – scossa dall’episodio – decise di ritirarsi dalla competizione.

Dopo una breve e ben remunerata tournée mondiale, Lenglen si ritirò dalle competizioni ed aprì a Parigi una scuola in cui il tennis veniva insegnato con le tecniche del balletto, il suo secondo grande amore. Morì di leucemia il 4 luglio 1938, pochi giorni dopo l’ottava vittoria a Wimbledon di Helen Wills Moody.

SCHEDA DELLA GIOCATRICE

NomeSuzanne Rachel Flore Lenglen
Nata il24/05/1899
Morta il04/07/1938
NazionalitàFrancese
Titoli vinti83
Titoli Slam12 (6 RG 6 W)
Oro Olimpico1 (1920)
Coppe Davis3
Miglior Classifica1

IL FRAUDOLENTO DANTESCO: GUIDO DA MONTEFELTRO (a cura di Gianmarco Gessi)

Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch’al fine de la terra il suono uscie

(Inferno, Canto XXVII, vv. 76-78)

La figura di Guido da Montefeltro  domina il XXVII° Canto della Commedia, in cui Dante incontra coloro i quali in vita si comportarono in modo fraudolento. Nel corso dell’incontro Guido non pronuncia mai il proprio nome, ma grazie agli elementi che fornisce sappiamo con certezza che è di lui che parla il Poeta.

Guido da Montefeltro fu un politico, condottiero e religioso signore della contea di Montefeltro ed importante esponente della fazione ghibellina, che mirava a rafforzare la monarchia e a limitare l’ingerenza ecclesiastica negli affari temporali, vissuto nel tredicesimo secolo. In veste di condottiero fu sovente alla testa delle truppe ghibelline con le quali riportò importanti vittorie contro i guelfi, prime fra tutte quella del 1275 di San Procolo contro i guelfi bolognesi e poi quella di Forlì del 1281 ricordata da Dante nel medesimo Canto.

I giorni di gloria militare per lui terminarono qui. Fu sconfitto in battaglia dall’esercito fedele al Papa guidato da Guido di Monforte e in cambio della vita dovette fare atto di sottomissione al Papa e accettare il confino ad Asti dove rimase inattivo per alcuni anni. Nel 1295 riuscì ad accattivarsi la stima e la fiducia del nuovo papa Bonifacio VIII, che lo investì della signoria di Forlì.

L’anno precedente, Guido da Montefeltro si era riappacificato con la Chiesa. Sul suo capo pendeva una scomunica risalente al 1282; nell’autunno del 1294 Guido rinunciò definitivamente a fare opposizione alla Santa Sede ed ottenne l’assoluzione da tutte le condanne. Sul finire del 1296 vestì l’abito francescano e si ritirò in convento ad Assisi, dove visse i suoi ultimi anni.

Il rapporto con Bonifacio VIII è all’origine della sua dannazione eterna.

Dante fa propria una notizia contenuta nelle Historiae di Riccobaldo da Ferrara, risalenti all’inizio del 1300, in cui quest’ultimo riferisce che Bonifacio VIII si rivolse a lui per avere un consiglio su come gestire i rapporti con i Cardinali  a lui avversi; questo il consiglio che gli diede: “multa promittite, pauca servate de promissis“, ovvero: “promettete molto e mantenete poco”. Consiglio puntualmente seguito – e con successo – dal Papa.

Tanto basta a far sì che egli sia condannato per l’eternità ad essere avvolto ed arso da una fiamma che ne nasconde completamente l’anima, così come lui in vita nascose i suoi inganni.

LA DIVINA DANTESCA: BEATRICE PORTINARI (a cura di Gianmarco Gessi)

“Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto quanto a la sua propia girazione quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la qual fu chiamata da molti Beatrice…” (Vita Nova, I, 2)

Benchè l’esistenza ne sia stata da tempo appurata, di Beatrice Portinari si hanno scarse evidenze storiche. Figlia del banchiere Folco Portinari, nacque nel 1265 o nel 1266, essendo sostanzialmente coetanea di Dante. Giovanissima, andò in sposa a Simone de’ Bardi e morì prematuramente nel 1290.

Rappresentando la prima grande figura femminile della letteratura italiana, Beatrice pervade gran parte dell’opera omnia dantesca, quasi senza soluzione di continuità: l’amore per la donna “gentile e onesta” pulsa ed evolve nella produzione letteraria del sommo poeta quale espressione del suo percorso di maturazione artistica, spirituale e morale.

Come narrato nella Vita Nova, il primo incontro con la ‘gloriosa donna’ avviene quando Dante aveva circa nove anni (‘nove fiate’), con un’apparizione (‘apparve’) che sembra presagire lo sconvolgimento dell’anima, i conflitti morali e il potere salvifico che la donna gli genererà.

Beatrice simboleggia l’Amore, che matura nella coscienza del poeta: evolve dall’‘amor cortese’ espresso nelle liriche giovanili, all’amore spirituale, cantato nelle lodi della superiorità morale della donna (“Donne che avete intelletto d’amore“, Vita Nova, XIX), sublimandosi infine nell’amore-virtù, celebrato, spesso con mistica contemplazione, nella Divina Commedia.

Già nei primi due canti dell’Inferno, Beatrice viene presentata come una figura eterea ma potente. È colei che per amore (‘amor mi mosse’, Canto II, v. 72) persuade Virgilio ad andare in soccorso dell’amico ‘e non de la ventura’, smarritosi nella ‘selva oscura’. È una creatura beata (‘loda di Dio vera’, Canto II, v. 103) che riflette la luce di Dio (“lucevan gli occhi suoi più che la stella“, Canto II, v. 55) e, come tale, si sostituirà al magnanimo latino nel Paradiso (“Anima fia a ciò di me più degna“, Canto I, v. 122).

Nel messaggio universale della Commedia, quale “donna di virtù sola per cui l’umana spezie eccede ogni contento” (Inferno, Canto II, vv. 76-77), Beatrice è figurazione della coscienza cristiana del poeta, etica e morale: è simbolo della teologia, scienza di fede che conduce a Dio, ma anche dell’amore-virtù, dal quale l’uomo prende slancio verso il bene e la salvezza morale, compiendo il destino per cui Dio l’ha creato (“fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”, sono le parole di Ulisse ai suoi, Inferno, XXVI, vv. 119-120).

Nella conclusione della Vita Nova, Dante si ripromette di cantare la donna “benedetta” solo quando potrà “più degnamente trattar di lei” e spera che, dopo la morte, la sua anima possa andare a contemplarla in Paradiso. Il poeta affida alla grazia di Dio un proposito e una speranza che sembrano presagire la stesura della Commedia.

Se certamente all’epoca del libello Dante non poteva aver già concepito la struttura del poema, altrettanto certamente l’epilogo della Vita Nova conferma l’unitarietà della coscienza di un uomo il cui “cammin letterario, intellettuale e morale trova espressione nella sorprendente “coesione evolutiva” delle sue opere. Un uomo per il quale la vita intellettuale e quella reale sono inscindibili, rappresentando l’una l’essenza dell’altra. Un’inscindibilità di cui la figura di Beatrice, simbolo di amore, virtù e conoscenza, rappresenta un’emblematica e suggestiva testimonianza.

“… io spero di dire di lei quello che mai non fue detto d’alcuna; e poi piaccia a Colui che è sire de la cortesia che la mia anima sen possa gire a vedere la gloria della sua donna…che gloriosamente mira nella faccia di Colui qui est per omnia secula benedictus…” (Vita Nova, XXXI, 2 e 3).

EPILOGO

Ubaldo: “L’incontro con Suzanne mi ha lasciato senza parole per l’emozione”.
Collins: “Controlla che quello con Brad non ti abbia lasciato senza portafoglio, Ubaldo”.
U: “No, no. C’è ancora. E adesso a chi tocca, Maestro?
C: “A tua moglie
U: “Cosa?!
C: “Non ti agitare. Intendo solo dire che tra pochi istanti ti sveglierai nel tuo letto al suo fianco”.
U: “Ah ecco….ma mia moglie può pazientare ancora un attimino. Io qui vedo vagare anime con le quali amerei conversare. Quello laggiù che pare un diavolo per esempio non è…”
C: “Kent Carlsson? Sì, è lui. Ma il tempo concessoti sta per scadere e devi tornare nel tuo mondo. Non ci sono deroghe”.
U: “Potrò tornare a trovarvi?
C: ”Dipende”.
U: “Da cosa?
C: “Dall’inappellabile giudizio emesso dal tribunale dei lettori di Ubitennis. Se a loro la tua avventura è piaciuta, allora il Capo potrebbe concederti la possibilità di fare un bis il prossimo anno”.
U: “Allora mi auguro che questo sia solo un arrivederci”.
C: “Me lo auguro anch’io, Ubaldo. Nel frattempo salutami Gianni e Rino”.
U: “Contaci Bud”.

…e quindi uscii a riveder le stelle.”

FINE

Nota dell’autore
Per scrivere il prologo e le quattro puntate che compongono l’UbiCommedia ho attinto a piene mani dalle idee e dai consigli degli amici ai quali a suo tempo parlai del progetto. Li ringrazio tutti. E sopra tutti ringrazio Gianmarco Gessi e Andrea Bonzagni: senza i ritratti dei personaggi danteschi di Gianmarco e i disegni di Andrea avrei dato alla luce un’ubicommediola.

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