Sinner, sono 17 in fila: superata l'epopea di Panatta del 1976

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Sinner, sono 17 in fila: superata l’epopea di Panatta del 1976

Nell’anno dei trionfi a Roma e Parigi Adriano si era fermato a 16. E Jannik può allungare ancora

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Tutti i record sono fatti per essere battuti“, il classico motto che accomuna i pessimisti di ogni epoca, corretto dalla giusta dose di maniavantismo. Eppure è vero, è fisiologico, è così. Non se ne adonterà Adriano Panatta, che in un paio di giorni si è visto prima raggiunto, poi superato da Jannik Sinner nella classifica dei giocatori italiani con più vittorie consecutive nella storia: adesso siamo 17-16 per il kid di Sesto Pusteria, uno che di record e affini, se si parla di tennis italiano, promette di sbriciolarne ancora parecchi. Del resto Adriano si era più volte augurato che arrivasse qualcuno a rimpolpare la collezione d’argenteria nazionale, in buona parte conservata appunto nelle vetrine del salotto di casa Panatta e comprendente: la miglior classifica mai raggiunta da un giocatore azzurro al numero 4 ATP, la conquista della Coppa Davis in Cile nel 1976, uno Slam nello stesso anno di grazia al Roland Garros e infine, per tornare a noi, la striscia più lunga di partite vinte, 16. Nel giro di cinque mesi, dopo quasi mezzo secolo di alterne fortune per la racchetta al maschile di casa nostra, Jannik ha raggiunto l’Adrianone nazionale tra i detentori dell’insalatiera e in mezzo ai campioni Slam, e l’ha addirittura superato per miglior classifica (oggi è numero 3, con concrete chance di salire al numero due tra nemmeno troppi giorni) e vittorie consecutive, che ora sono, come dicevamo, 17.

Il match vinto ieri contro Jan-Lennart Struff nel terzo turno di Indian Wells assume quindi una portata storica che il pathos offerto dal match medesimo, vinto da Sinner con sommo agio, in teoria non avrebbe giustificato. L’accelerata impressa dal Nostro alla propria carriera negli ultimi tempi è stata onestamente detonante: Jannik, che non perde un match ufficiale dal 19 novembre, la domenica dell’atto conclusivo delle Finals vinte da Novak Djokovic, ha aperto la sequenza di successi qualche giorno dopo, in occasione delle Final Eight di Coppa Davis a Malaga: tre singolari vinti contro Griekspoor, Djokovic e De Minaur con il bonus della vendetta al sapore di nemesi offerta a Nole, al quale annullò tre match point consecutivi prima di batterlo nella strada verso il coppone. Il resto è storia di quest’anno: il trionfo di Melbourne con la pazzesca rimonta su Medvedev in finale, quello di Rotterdam a ruota e adesso va da sé, si esplorano le possibilità in California, dove domani notte Jannik proverà ad allungare la striscia e a centrare i quarti nella sfida a Ben Shelton, uno dei pochi colleghi a stringere la mano di Jannik da vincitore negli ultimi sei mesi: anche quella volta erano ottavi di finale, ma il Tour faceva tappa a Shanghai.

Adriano Panatta, talento eccentrico dalla mano fatata, aveva già incantato il mondo a sprazzi, prima di quel leggendario 1976. In particolare cognito dalle parti di Avenue Gordon Bennett, Adriano aveva già raccolto due semifinali al Roland Garros, nel 1973 e nel 1975. Deflagrò l’anno successivo, e ripercorrendo il calendario di quella stagione viene da sorridere, ma anche da rimanere un po’ straniati. L’agenda di Panatta era un ottovolante, con un programma di lavoro faticosissimo a causa di cambi di superficie e, soprattutto, spostamenti trans-continentali. Da febbraio a maggio, andò più o meno così: tappa indoor dei defunti World Tennis Championships a Roma, prima parte della stagione su terra tra Barcellona, Nizza e Montecarlo, altra tappa dei WTC sul Carpet a Stoccolma, Coppa Davis con la Polonia e ATP di Firenze di nuovo sul mattone tritato, trasvolata oceanica verso il torneo sul cemento di Las Vegas, dove fu battuto in due set nei quarti di finale da Ken Rosewall. L’ultima sconfitta, per tornare dopo un lungo giro a dove eravamo partiti, prima del famoso record ieri abbattuto dopo quasi 48 anni di fiera resistenza.

Tutto partì dal tie di Davis contro la Jugoslavia, durante il quale Panatta vinse entrambi i sui incontri di singolare: il primo contro Zeljko Franulovic – l’apprezzato ex direttore del torneo di Montecarlo sarà destinato a ricomparire nel prosieguo di questa storia – il secondo contro Nikola Pilic. Poi fu il momento dell’apoteosi romana e delle sei vittorie messe in fila contro Kim Warwick, Antonio Zugarelli, Zeljko Franulovic, per l’appunto, Harold Solomon, John Newcombe e Guillermo Vilas, il grande favorito della vigilia e prima testa di serie in gara. Particolari menzioni, tutte le volte che si ripassa il libro di storia, meritano sempre il match d’esordio strappato a Warwick annullando undici match point di cui dieci in risposta, e il quarto di finale con Solomon, polemicamente ritiratosi in seguito a una chiamata dubbia del giudice di linea mentre stava servendo per la partita sul 5-4 al terzo.

L’accoppiata con Parigi, destinata per l’eternità a essere conservata nella memoria collettiva, si materializzò di lì a due settimane, non essendo al tempo previsti i canonici sette giorni di stacco tra Internazionali e Roland Garros. Il primo turno, contro il bizzarro cecoslovacco Pavel Hutka, uno che colpiva di dritto e rovescio con la destra ma serviva e schiacciava con la sinistra, presentò un singolare parallelismo con il primo round degli Internazionali soffiato da sotto il naso a Warwick: anche al Bois de Boulogne Adriano giocò a sprazzi, e si trovò a dover annullare un match point, se non altro solo uno, sul 10-9 al quinto: lo fece con una volée in tuffo passata alla storia per poi abbattere in sequenza Jun Kuki, Jiri Hrebec, Zeljko Franulovic – ancora! – e Bjorn Borg, nei quarti di finale: val sempre la pena di ricordare che Borg vinse sei volte il Roland Garros in otto partecipazioni, subendo le uniche due sconfitte per mano di Panatta, che lo batté anche nel 1973 al quarto turno. La semifinale con Eddie Dibbs filò via liscia come l’olio, un utile riscaldamento prima del trionfo in finale con Harold Solomon, l’altro protagonista principe del racconto. Tra i due, dopo le sceneggiate, le proteste, la corrida inscenata dal pubblico e il ritiro di Solomon poco fa narrato durante i quarti di Roma, non correva buon sangue. Panatta non si peritò di usare tale malanimo a suo favore, e negli spogliatoi, prima della partita, forse per darsi coraggio si fece beffe della non sensazionale prestanza fisica dell’avversario rivolgendogli la graziosa frase “pensi di potermi battere da quell’altezza?“. I dati ufficiali misuravano Harold attorno al metro e sessantotto.

Finita la stagione su terra, come tradizione ci si trasferì sul verde, torneo di Nottingham, preparazione a Wimbledon che sarebbe iniziato la settimana successiva. Arrivò l’ultima vittoria della mitologica striscia, al primo turno, contro il pakistano Haroon Rahim. Lo stop arrivò nel round successivo: a sparecchiare la tavola fu Mike Estep, texano dalle discrete propensioni erbivore che in carriera mise insieme due titoli in singolare, sette in doppio, un quarto turno a Wimbledon ’75 e che dopo il ritiro allenò per tre anni Martina Navratilova dal 1983 al 1986.

Due viaggi certo entusiasmanti, forse un pizzico più lineare quello percorso da Sinner, e nella storia del gioco c’è ovviamente posto per entrambi. Il record è però destinato a rimanere unico, e Jannik l’ha sottratto ad Adriano, appena quarantotto anni dopo. Adriano che, come già abbiamo supposto, non se la prenderà. “Era l’ora, è passato quasi mezzo secolo“, l’abbiamo sentito spesso dire mano a mano che Sinner migliorava a pezzettini quei risultati a lungo insuperati. Siamo ragionevolmente certi che avrà pensato la stessa cosa ieri notte, quando Jannik ha stretto la mano di Struff.

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