Lamine Ouahab e la storia del miracolo di Marrakech

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Lamine Ouahab e la storia del miracolo di Marrakech

Sono passati sei anni dalla serata di gloria del n. 617: il racconto di una delle più grandi imprese della storia recente ATP, il talento puro di un tennista part-time, la vittoria a Wimbledon su Nadal, l’inferno dei Futures, il cambio di nazionalità

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Lamine Ouahab e Philipp Kohlschreiber - Marrakech 2018 (foto via Facebook, @FRMT - Fédération Royale Marocaine de Tennis)
 

“Non so voi, ma io erano anni che non mi divertivo così”

La “A” di anni vive di vita propria, si allunga da sola, spinta dalla boria dell’accento milanese, Fabrizio Bentivoglio se ne accorge, e poi sorride. Stiamo parlando di Marrakech Express, un film del 1989 di Gabriele Salvatores, probabilmente il migliore della cosiddetta tetralogia della fuga del regista premio Oscar (gli altri: Turnè del 1990, Mediterraneo del 1991 e Puerto Escondido del 1992). La fuga dalla realtà, la fuga che non diventa necessariamente scorciatoia ma al limite sopravvivenza, la fuga dal vuoto, la fuga come difesa e come sogno. Erano anni che Fabrizio Bentivoglio non si divertiva così, e quel dialogo con Diego Abatantuono diventò immediatamente una scena cult.

Lamine Ouahab costruì la sua personale fuga dalla realtà in un pomeriggio di inizio primavera del 2018: il giocatore algerino, che dal 2013 era diventato marocchino per ragioni di opportunità, aveva ricevuto una wild card per il torneo di “casa” di Marrakech e il sorteggio del tabellone non gli aveva proprio dato una mano. Al primo turno avrebbe dovuto infatti affrontare la testa di serie numero 2 Philipp Kohlschreiber.

LA VITTORIA CON NADAL, L’INFERNO DEI FUTURES E IL CAMBIO DI PASSAPORTO

Ouahab era il classico talento puro ma inespresso, l’ex promessa incompresa e non mantenuta che però ti rubava l’occhio e per certi versi anche il cuore: da junior aveva raggiunto un ranking di numero 4 del mondo, spingendosi, nel 2002, addirittura fino alla finale di Wimbledon, e in quel torneo aveva battuto un certo Rafael Nadal. La carriera da professionista non era stata altrettanto ricca di soddisfazioni: Ouahab era diventato un fantasma del circuito ATP, uno di quelli che non meritano nemmeno la dignità di una foto sul sito ufficiale. Lamine era il classico turista dell’inferno dei tornei Futures (a fine carriera ne avrà vinti addirittura 33, un record), eventi minori che rappresentano la cantina del circuito, la porta che nessuno vuole aprire. La fuga come sopravvivenza. 

Si era regalato il lusso dolce-amaro della comparsata nel mondo dei Challenger, vincendone addirittura tre (un paio nel 2006 e un altro nel 2015) e nel 2009 aveva tentato la scalata al ranking mondiale, qualificandosi per l’unico Slam della carriera (Australian Open) e siglando contemporaneamente il proprio best ranking di numero 114. Una carriera da fantasma, un nome senza faccia, una bandierina che era cambiata all’improvviso grazie alla moglie marocchina: lui, algerino, aveva scelto il colore del passaporto di una nazione “rivale”, a caccia di qualche wild card e di un sostegno economico più solido di quello inesistente della sua federazione di origine. 

MARRAKECH 2018: IL FISICO PESANTE E IL TALENTO DEL FANTASMA CON LE MANI DA PIANISTA

Nel 2018 si era presentato al torneo ATP 250 di Marrakech da numero 617 del mondo: portava malissimo i suoi 33 anni ma, se possibile, i 90 (e più) chili del suo corpo erano distribuiti anche peggio. Diciamo che non aveva esattamente il fisico dell’atleta professionista: Ouhab perdeva in partenza la lotta con la forza di gravità senza nemmeno puntare al pareggio, non riusciva letteralmente ad alzare i piedi da terra, il salto (siamo generosi) con cui accompagnava il movimento del servizio mostrava la pancetta del tennista da circolo (eccoci qui) e un’orrenda mutanda di fantozziana memoria. Ouahab non era reduce da un infortunio, Ouahab non era un giovane in ascesa che tentava di muovere i primi passi da professionista, Ouahab era semplicemente il numero 617 del mondo, e basta.

Il 33enne marocchino aveva la barba incolta e brizzolata di chi ne aveva viste tante e di chi sapeva che avrebbe dovuto vederne ancora molte altre, la faccia era stanca e non si concedeva il lusso di una vera e propria espressione, in poche parole per completare il mosaico dei luoghi comuni del talento da divano gli mancava solamente il tassello della canotta balneare bianca e macchiata di sugo: però poi lo vedevi colpire la palla, e quel fantasma senza fotografia diventava un pianista delicato. 

L’incubo di Philipp Kohlschreiber, all’epoca numero 34 del ranking mondiale e finalista in carica dell’evento, stava per cominciare.

Kohli era reduce e segnato da una delle tante sconfitte epiche della sua carriera: pochi giorni prima aveva infatti perso il singolare decisivo della sfida di Coppa Davis con la Spagna, battuto 7-5 al quinto da David Ferrer, e non avevamo dubbi. Il tedesco è stato un tennista stupendo e necessario, il classico “tuttocampista” di talento: rovescio sublime, che gli apriva il campo e lo spazio per i suoi meravigliosi attacchi in controtempo, un tennis nel complesso fantasioso ed elegante, limitato e tradito solamente da un fisico leggero e dalla faccia sbagliata. Kohli era infatti la spalla perfetta per le storie degli altri: se c’era bisogno di perdere lui non si tirava indietro, con quel volto che sembrava volerti dire “Massì guarda ho perso ma davvero non c’è problema, si vede che oggi doveva andare così”

E come doveva andare l’11 aprile del 2018?

Kohlschreiber dominò il primo set, 6 giochi a 2, con la serenità della normale amministrazione, ma le scorie della Coppa Davis erano pronte a bussare alle porte della testa e delle gambe del tedesco, che non trovò la forza di rimontare l’iniziale svantaggio del secondo set, regalandolo con il punteggio di 6-0. 

Gli highlights di quel match ci raccontano di un Ouahab stravolto dopo tre soli game: il suo grunting non era quello cattivo e entusiasta di Alcaraz, il suo era un grunting pigro e disperato. Ad un certo punto un rovescio vincente di Kohli venne in qualche modo rallentato dal nastro e Ouahab, che aveva già accettato di perdere il punto, reagì con i suoi tempi e con uno scatto indolente: i grandi campioni odiano la sconfitta, Ouahab odiava gli scatti.

Kohli, che aveva verosimilmente la testa da un’altra parte, commise l’errore di lasciare via libera alla fuga dell’avversario e Ouahab prese le scale, ne approfittò e si arrampicò sulla nuvola del suo talento: un veterano con il braccio fluido, un po’ di pancetta e la propensione naturale per la smorzata. Non avevamo nient’altro da chiedere. 

Il problema del tedesco è che questa tipologia di giocatori- in particolare se sorretta dalla bolgia dello stadio di casa- quando trova la nuvola giusta diventa praticamente ingiocabile: Kohlschreiber reagì e si portò sul 5 a 2 nel terzo set, ma la sceneggiatura della partita aveva un epilogo inevitabile e le sceneggiature se ne fregano del punteggio. Stava per succedere una cosa.

LA RIMONTA VINCENTE E L’IMPRESA DELLA CARRIERA

Ouahab completò la rimonta della vita, disegnando il gioco con la sua classe: smorzate, lob, cambi di ritmo e di impugnature. La naturalezza del rovescio bimane di Lamine era sconvolgente: un movimento breve, simile a quello di Nick Kyrgyos, che nascondeva fino all’ultimo la direzione del colpo. Il marocchino rincorse goffamente tutti gli angoli del campo ma alla fine vinse il tie break decisivo– grazie a soluzioni tecniche allo stesso tempo naturali ed estemporanee- con il punteggio di 7 punti a 3 e un paio di giorni dopo sfiorò perfino una nuova impresa con Nikoloz Basilashvili (ex top 20 e ai tempi numero 86 del ranking ATP), perdendo solamente in volata con il punteggio di 7-6 5-7 6-3. 

La carriera di Ouahab si è conclusa ufficialmente nel 2022 ma per molti anni è stata la carriera di un tennista part-time: scorrendo l’almanacco della vita sportiva di Lamine si scoprono delle stagioni di vera e propria pausa, nel corso delle quali disputava solamente una manciata di tornei, tutti in Marocco.

A livello juniores vinse coi coetanei (o quasi) Soderling, Berdych e Gasquet

Nel 2015 si spinse fino ai quarti proprio del Grand Prix Hassan II, che ai tempi non si disputava a Marrakech ma a Casablanca: eliminò prima Haase (numero 88) e poi Garcia Lopez (numero 24) mentre nel 2020 il suo nome ricomparve all’improvviso nelle cronache delle cantine del circuito grazie al torneo ITF di Villena, dove eliminò in tre set il giovanissimo Holger Rune.

Nelle storie dei talenti sprecati ad un certo punto arriva la svolta, il sorriso, la persona giusta, la redenzione: non è il caso di Lamine Ouahab, che è rimasto appeso per tutta la vita al filo dell’inferno economico dei tornei ITF. Possiamo probabilmente definirlo come il miglior braccio della storia recente del tennis a non essere mai entrato nella top 100 del ranking mondiale. Un professionista che non era ossessionato dal tennis e che forse non ha mai trovato l’entusiasmo e il dinamismo per dedicarsi completamente agli allenamenti. Ouahab è stato frenato anche dalle problematiche burocratiche legate ai visti: questioni di mero contorno per un giocatore occidentale ma che invece possono rappresentare un freno alla sviluppo della carriera di un atleta arabo: “Una volta non ho potuto partecipare a Wimbledon”. E non sanno che cosa si sono persi.

Il miracolo di Marrakech 2018 di Lamine Ouahab è stato un lampo improvviso che non sapeva di speranza ma solamente di tennis, il guizzo estemporaneo che ci ha ricordato che cosa sarebbe potuto essere e che cosa invece non è stato, un guizzo che ha regalato a lui e agli appassionati di nicchia di tutto il mondo la fuga dalla realtà più esaltante del circuito ATP degli ultimi tempi.

“Non so voi, ma io erano anni che non mi divertivo così”

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