La definizione più centrata di cosa sia stato il protagonista di questo articolo ci viene rivelata nei momenti finali della proiezione, di quello che è senza dubbio alcuno uno dei migliori documentari sportivi mai prodotti dall’avvento del nuovo secolo: l’inventore di un tennis surrealista, o se preferite, colui che ha introdotto il surrealismo nel tennis. Centoquattro minuti che scorrono via piacevolmente, tenendoti attaccato allo schermo tra aneddoti, immagini a colori e filmati in bianco nero di un mondo che non ritornerà più.
La figura di Ilie Nastase è stata rivoluzione, punto di svolta: segno indelebile di un cambiamento irreversibile partorito in un contesto sociale ma anche politico unico, distante anni luce dalle dinamiche umane che scandiscono il tempo ai nostri giorni. In poche parole, quella dicotomia ossimorica che ha dato il là ad una nuova fase dello sport che amiamo.
Il primo numero uno ATP della storia che delinea marcatamente la nascita dell’Era Open: talento smisurato, pittorica personalità. Un mix ineguagliabile in grado di contornare la prima grande Star, concepita come da manuale dei confini odierni, della storia tennistica – anche se in tal senso è giusto fare una piccola postilla per Pancho Gonzales, il primo vero divo del tennis un po’ l’ Arthur Friedenreich del calcio brasiliano prima dello sbarco di Pelè che come Nastase ha poi condotto questo fenomeno su lidi fin lì inespugnati – Quel atleta che travalica il perimetro di appartenenza, diventando icona trasversale e soprattutto autentica. Perché se c’è un valore incontestabile da affiancare al genio ribelle di Nastase, è proprio la verità. Ilie non fingeva: le sue esasperazioni, le sue esternazioni, i suoi eccessi, la sua creatività, la sua capacità di attrarre in campo tanto quanto – e forse ancora di più – al di fuori del rettangolo di gioco erano tutte conseguenze del proprio modo di vivere l’esistenza.
Una postura nello stare al mondo, ineluttabilmente figlia di quegli anni.
Il racconto, di uno dei personaggi sportivi più polarizzanti che il ventennio dal ’60 all’80 del novecento abbia mai conosciuto, coglie inoltre l’occasione per esporsi come il manifesto di un tennis dannatamente affasciante: per certi versi molto più vicino empaticamente agli appassionati, quel segreto di Pulcinella che ad esempio rende perennemente impareggiabile l’Italia di Spagna ’82 trapiantato nel tennis. Un tennis, come viene accuratamente spiegato nella pellicola, di cameratismo e fusione in un corpo solo. Erano giocatori di tennis, non macchine programmate per uccidere e oleate scientificamente anche nel più minuzioso e – alla vista di quegli occhi – irritante dettaglio. Come è naturale che sia, nello sport come nella vita tutto si è trasformato, ha mutato pelle: le migliorie atletiche a rendere i tennisti atleti straordinari, che possono ora affiancarsi di stuoli di professionisti in ogni ambito. All’epoca invece non esisteva, tranne che in rarissime eccezioni, neppure la figura del coach. Si cresceva insieme, ci si aiutava a vicenda anche se l’indomani ci si trovava uno di fronte all’altro. Si condivideva lo stesso spogliatoio, numero uno con numero 100 al contrario del presente in cui le aziende delle potenze mondiali non si sfiorano mai con i piccoli mestieranti.
Nasty ci parla di un globo devastato da guerre e conflitti ad ogni latitudine: dalla latente tensione che contrapponeva il blocco comunista dell’Est Europa al capitalismo statunitense, passando per la rivoluzione romena del 1989 che provocò la fine del regime dittatoriale di Ceausescu e durante la quale Nastase, nel rapportarsi con ciò che era situato oltre la Cortina di Ferro, assunse la rappresentanza della ribellione di un popolo stanco di soprusi. Ebbene in un contesto del genere non si poteva che dare luce a uomini di sport che approcciassero alla loro disciplina in modo scanzonato, leggero a quello che in fondo è un gioco.
Abbandonando per un attimo il panorama nella sua totalità e concentrandoci esclusivamente sul cuore pulsante della narrazione, non si può non evidenziare l’eccentricità o le striature caratteriali fumantine ed irrequiete che più del proprio tennis hanno consolidato proseliti in ogni angolo del pianeta. Nastase è stato antesignano e anticipatore delle vesti che lo sport avrebbe indossato nel futuro: l’intrattenimento, uno spettacolo a tutto tondo. Le burlate, gli scherzi, le prese in giro, le veementi proteste, i nomignoli; tutti causa e conseguenza di un ardire più elevato: fare show, o anche trash talking come si direbbe oggigiorno in ambito yankee.
Ilie poi era un comico nato, possedeva istintivamente tempi comici fuori dal comune. E’ stato colui che maggiormente ha ispirato e influenzato la personalità di altri che come e dopo di lui si sarebbero distinti per la loro esondante indole: racchetta in mano ma “matti come cavalli”. Questo suo estro caratteriale, che abbinava frangenti di focoso temperamento dove ne aveva per tutti i gusti – diti medi, insulti gratuiti, lunghi e irrazionali dibattiti con i giudici di sedia tra un turpiloquio e un illogico gesto di trance adrenalinica che sfociava in calzini abbassati, pacche affettuose, spintoni e chi più ne ha ne metta – ad attimi di pura decontrazione professionistica in cui d’un tratto si svestiva dei panni del tennista per indossare quegli dell’impertinente donnaiolo, celava due lati della stessa medaglia. La volontà di piegare a sé ogni comparto agonistico: per cui l’indirizzamento psicologico dell’arbitraggio, il condizionamento degli spalti a suo piacimento e un’asfissiante pressione mentale sull’avversario al fine di stanarlo e ridurlo figurativamente a brandelli senza nemmeno dover più di tanto pescare dalle sue infinite qualità tecniche. Insomma un modus operandi di mourinhista memoria per i calciofili alla lettura.
Ma questo comportamento sempre al limite, con i nervi continuamente tesi a fior di pelle, era anche il segno in campo di una certa fragilità emotiva che in particolare in alcune tappe della carriera – vedi la finale di Wimbledon ’72 persa con Stan Smith – si rivelò deleteria. Altresì, in altre circostanze era quel surplus di energia di cui necessitava per sedimentarsi verso il successo: il modello Djokovic per intendersi, che trae forza dal battibeccare con pubblico e giudici.
I Fratelli di Nastase
La visione del docufilm, proiettata presso la Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica intitolato ad Ennio Morricone, si incentra nell’individuazione di due fratelli Nastase: uno di sangue, l’altro di vissuto. Se infatti abbiamo avuto Ilie Nastase, lo dobbiamo per gran parte a Costantin Nastase di 13 anni più grande.
E’ stato infatti Costant a far entrare il tennis a casa Nastase, riempiendola di cimeli tennistici e trasmettendo così l’amore per questo sport al fratello minore sin lì amante anche del pallone. Gli intervistati ci descrivono il Nastase senior, come un autentico prodigio dell’applicazione mentale, dell’abilità di stare sul pezzo, di un’intrinseca e ferrea abnegazione all’allenamento. Se soltanto Costantin avesse avuto solo il 10% del talento di Ilie, avrebbe sicuramente scritto pagine significative di storia nel tennis: ci dice il fratello di vita, vale a dire Ion Tiriac. I gemelli diversi del tennis rumeno, capaci di proiettarlo a vette mai più neanche sospirate: assieme vinsero il Roland Garros del 1970, la coppia perfetta. Ion la mente: riflessivo, astuto, tattico. Ilie la classe del talento: sregolata, istintiva, imprevedibile ma irrimediabilmente dirompente.
Un connubio unico di fratellanza, di amicizia incrollabile: Tiriac di 8 anni più vecio dell’irrefrenabile Nastase, fu per Ilie quasi un padre sportivo che seppe indicargli il sentiero e rimetterlo sulla retta via quando la smarriva. Tuttavia non mancarono dissidi e dissapori, come quando impiccarono le loro possibilità di diventare Eroi Eterni nel doppio della finale di Coppa Davis del ’72. Passarono l’intero match ad insultarsi a vicenda, spianando la strada agli Stati Uniti di Smith. Quella finale, la terza ed ultima – tutte perse – della Romania, era l’occasione irripetibile: in casa sulla lentissima terra rossa di Bucarest dove nulla avrebbe potuto il servizio di Stan, ma proprio nel doppio naufragarono le speranze rumene. La domenica, un Tiriac trentatreenne svuotato dalle 5 ore del venerdì nulla poté contro Smith al quinto set del match decisivo.
Nel presente, due uomini compassati con capelli e barba che danzano fra il bianco e il grigio si guardano intensamente. Prende la parola il vecchio Ion: “quella finale è ancora oggi per me un dramma personale, per lui – indicando Ilie – non ha mai avuto la stessa valenza perché ha vinto Slam ed in fondo è un individualista. Io invece provengo dall’Hockey e lì se non aiuti in difesa erano colpi di mazza“.
Semplicemente Ion e Ilie, fratelli dal destino diverso ma dal legame indissolubile.
I Figli di Nastase
Scovati i fratelli, le discendenze genealogiche della quercia Nastase si soffermano adesso sui “figli” tennistici di Ilie. Due che anno attinto a piene mani dalla sua personalità e dal modo di gestire i frastuoni emotivi delle partite: Jimmy Connors e John McEnore
JIMBO è stato però molto di più, sicuramente in parte “plagiato” – come lui stesso afferma nel documentario – sotto l’influenza dell’amico fraterno, è stato il completamento. La seconda metà mancante del medesimo levigato di pregiato legno: i loro match in coppia erano qualcosa che trascendeva l’umana comprensione del gioco del tennis, riappropriavano il tennis di un viscerale rapporto ancestrale con la pura goduria del divertimento. Due banditi alla riscossa.
Beh con John è uno ed uno solo l’avvenimento da citare: il secondo turno dello US Open 1979, prima sessione serale di sempre a Forest Hill. L’inimmaginabile che divenne realtà: il quieto Franck Hammond, primo grande giudice di sedia che il tennis abbia conosciuto, vide sfaldarsi lì la sua promettente carriera con qualcosa che non aveva precedenti e che non ha avuto successori: la sostituzione di Hammond con il direttore del torneo,dopo che Franck aveva chiamato il punteggio finale sfibrato dal miliardesimo invano tentativo di convincere Nastase a riprendere il gioco, il quale beatamente si crogiolava al suolo mentre veniva subissato di fischi e oggetti dagli alticci tifosi americani. Un clima surreale, che come racconta McEnroe, Nastase aveva voluto creare fin dal primo quindici consapevole che l’unico modo per raggiungere la vittoria era far sì che quella tutto dovesse essere tranne che una partita di tennis. Alla conclusione di quel ottovolante, al rientro negli spogliatoi, John era pronto a divorarsi Ilie: indiavolato nero per non avergli permesso di vincere sul campo. Ma proprio mentre McEnroe stava per apostrofare dolcemente il nemico giurato con “Brutto S…..” ecco che Nastase ti metteva lì un “MACARONI dove andiamo a cena stasera, ho due belle ragazze“.
Ecco, la centrifuga irrazionale di ciò che è stato Ilie Nastase.
L’unica partita della storia con due sconfitti e nessun vincitore
Stoccolma, 1975, quarti di finale. Arthur Ashe contro Ilie Nastase.
Il rumeno aveva vinto la finale a Forest Hill nel 1972, sventolando l’assegno davanti all’americano mentre quest’ultimo nel discorso di premiazione dichiarava: “Nastase è un giocatore molto forte, potrà fare un salto in avanti quando deciderà di comportarsi diversamente“. In quell’incontro svedese tutto precipitò nel momento in cui, in un paio di circostanze, l’arbitro chiese a Nastase di ripetere la prima perché Ashe non era pronto. Apriti cielo, Ilie si trasforma in una furia: comincia ad inveire chiedendo a gran voce provvedimenti contro l’avversario e invece è lui che inizia a collezionare warning. Completata oramai compiutamente la metamorfosi nell’attore teatrale con racchetta al seguito, Nastase comincia a sbeffeggiare il rivale con ripetute finte alla battuta accompagnate da improvvide smorfie del viso. Ad un certo punto anche uno impassibile come Ashe va in escandescenza decidendo in autonomia di abbandonare il campo prima ancora di essere squalificato. Rimasto solo sull’isola, Ilie va faccia a faccia con il giudice di sedia gridando a gola inferocita: “Non può fare questo“. Risultato? Pure lui sotto la doccia per squalifica. La mattina successiva nel Grand Hotel di Stoccolma, il buon Arthur seduto al tavolo adiacente alla finestra viene raggiunto da un mazzo di fiori alle cui spalle si scorge Nastase.
Ecco chi era il tennista rumeno più forte di tutti i tempi: un inguaribile romantico del tennis che si faceva beffe del politicamente corretto (Negroni Ashe, Macaroni McEnroe, Godzilla Smith alcuni dei suoi celebri soprannomi). Tale vena artistica e senza peli sulla lingua nell’incensare con appellativi che farebbero rabbrividire i social, non lo ha mai abbandonato: ma il mondo era ormai cambiato, e questo suo modo di fare lo ha pagato severamente nel 2017 quando da capitano di Fed Cup definì il pargolo di cui era in attesa Serena Williams col seguente epiteto: “Di che colore sarà? Tipo cioccolato con il latte?“. Quattro anni di squalifica.
Le ripercussioni sul regolamento
I fatti di Stoccolma 1975 e New York 1979 hanno fatto legge. Dopo quegli avvenimenti, infatti, la Federazione Internazionale fu costretta a mettere mano al regolamento rivelatosi totalmente debole nelle due occasioni. In particolare, troppo esigui erano i riferimenti al codice di condotta dei tennisti: si arrivò così a stilare un nuovo code of conduct che ancora oggi fa scuola e nello scriverlo ricoprì un ruolo essenziale proprio Ashe. Chi meglio di Arthur, spettatore oculare e vittima, poteva aiutare a redigerlo sfruttando anche le sue competenze in materia dopo la laurea all’Accademia di West Point. Se nel calcio abbiamo quindi avuto la sentenza Bosman ad individuare un prima e dopo, nel tennis questo ingrato compito è da affibbiare al buon Nastase.
Il Nastase tennista
Volendo invece tratteggiare le caratteristiche del Nastase giocatore, da un punto di vista squisitamente di campo: parliamo di un tennista dotato di grande mobilità e velocità negli spostamenti a cui abbinava una capacità nel sentire la palla occhio-braccio tipica dei talenti cristallini, come osserva Noah “il primo tennista a ‘giocare veramente a tennis“, in possesso di una visione oltre la norma. Fu anche perfezionista e corresponsabile della nascita di un nuovo colpo, che in quel tennis dove – a velocità ridotte – si potevano ammirare eleganza e manualità divenne un’esecuzione determinante: il lob in top spin, inventato da Manolo Santana ma da lui migliorato.
Consigliamo a tutti i più giovani, dunque, di fiondarsi nelle sale – a partire da novembre anche se non c’è ancora una data definitiva. Oggi intanto alle 19 prima replica nel Cinema Giulio Cesare di Roma. Ci sono inoltre contatti in corso con l’ATP per vedere se si riesce a far premiare Sinner come n°.1 di fine anno dal primo che il computer ha incoronato – per ammirare questa perla e scoprire un mondo del tennis che oggi appare lontanissimo, ma anche a quelli che hanno qualche anno in più sulla carta d’identità per rituffarsi in un nostalgico passato in grado certamente di smuovere qualcosa dentro.
Perché in fondo il fascino del maledetto è sempre il più attrattivo e stimolante: George Best, Ilie Nastase. “Vivere al limite ma sempre al massimo” espressioni in controtendenza ma che si manifestavano col cuore.
“Vedere i giocatori di un’altra epoca che sotto 15-40 alla Nastase giocavano un punto non conservativo ma una palla da rosso e nero balcanica, fuori o dentro. Ecco questi qua secondo me non ci sono più come certi tipi di calciatori degli anni ’70. Il termine osceno per descrivere genio e sregolatezza. Avevano una visione del mondo correlata a come si viveva diversamente. Oggi invece come ti direbbero in tanti di quell’epoca sembra che si guardino allo specchio prima di entrare in campo“. Ci lasciamo con le parole dell’avvocato Federico Buffa, come sempre in grado di condensare e narrare le leggende sportive.
Ilie Nastase, Nadia Comaneci e Gheorghe Hagi: il gotha dello sport rumeno che ha fatto la Storia.