1973: L’inizio di tutto, con Billie Jean in prima linea
Tornando al tennis, però, non possiamo non soffermarci su un minimo di storia di quella che è da considerarsi la parità salariale: questa storia comincia nel 1973, con un nome che oggi risuona come un mantra: Billie Jean King. Americana, nata a Long Beach, King era già allora una leggenda vivente. Aveva vinto gli US Open nel ’71 e nel ’72, era amata dal pubblico e rispettata dagli avversari. Ma non bastava vincere. Occorreva anche far capire che il tennis femminile meritava lo stesso rispetto, anche economico, di quello maschile. E così, quando si accorse che il montepremi degli US Open per le donne era inferiore rispetto a quello maschile, annunciò: “Non mi presenterò l’anno prossimo, se le cose non cambiano“.
Un atto di coraggio e ribellione, che avrebbe cambiato la storia del tennis. Gli organizzatori cedettero. Così lo US Open, nel 1973, divenne il primo torneo del Grande Slam a offrire lo stesso montepremi a uomini e donne. Un traguardo storico. Ma anche un’anomalia. Perché ci vollero altri 34 anni prima che tutti e quattro gli Slam si uniformassero.
King non si fermò lì. Fu tra le fondatrici della WTA, la Women’s Tennis Association, con l’intento preciso di dare alle giocatrici una piattaforma organizzativa e di rappresentanza. Fino a quel momento, il circuito femminile era frammentato, privo di un’identità chiara e spesso succube delle decisioni maschili. La creazione della WTA nel giugno del 1973 fu la pietra angolare del professionismo femminile moderno.
Dopo gli US Open, il secondo torneo ad adeguarsi fu l’Australian Open, ma solo nel 2001. Una decisione arrivata in un periodo in cui il tennis femminile viveva una nuova giovinezza, trainato da nomi come Martina Hingis, le sorelle Williams, Lindsay Davenport e Kim Clijsters. Eppure, restavano due roccaforti a resistere: Wimbledon e Roland Garros.
Entrambi si arresero alle evidenze nel 2007. Troppo il clamore, troppo il peso specifico di chi continuava a chiedere parità. E non si trattava più solo di Billie Jean King, ma di Venus e Serena Williams. Proprio Venus, nel 2006, scrisse una lettera al Times di Londra dal titolo inequivocabile: “Wimbledon mi ha mandato un messaggio: sono solo una campionessa di serie B“. Una presa di posizione forte, netta, destinata a far rumore. E infatti, solo pochi mesi dopo, l’All England Club annunciò la parità di montepremi per l’edizione 2007. Anche il Roland Garros, che fino a pochi mesi prima assegnava premi più bassi alle donne, si adeguò.
Da allora, ogni Slam offre premi identici ai due tabelloni, anche se non è tutto oro quello che luccica: il perché è spiegato qui.
La parità (reale) è un obiettivo, non un dogma
Nessuno, oggi, mette in discussione il principio della parità. Il tennis femminile ha lottato per decenni per raggiungere una dignità economica pari a quella maschile, e in buona parte ci è riuscito. Il traguardo, però, non deve diventare un dogma: deve restare un obiettivo, reale e condiviso. E per raggiungerlo davvero, serve che tutti – organizzatori, media, giocatrici, federazioni – facciano un passo verso un prodotto più competitivo, più accattivante, più sostenibile.
Perché la verità, spesso ignorata nei dibattiti ideologici, è che a pagare sono le televisioni. E le televisioni rispondono al mercato, ai dati d’ascolto, alle preferenze del pubblico. È quest’ultimo il vero sovrano del sistema, l’unico giudice che conti davvero nel mondo del business sportivo. Se un match femminile saprà generare più interesse, più emozione, più coinvolgimento, sarà il primo a finire in prima serata, ma questo richiede impegno, narrazione, identità forti.
Parità non vuol dire rendere tutto uguale, ma valorizzare ogni differenza. E soprattutto, fare in modo che quel che si offre valga davvero quel che si chiede. Solo così il tennis, femminile e maschile, potrà crescere insieme, senza forzature, ma con la forza della qualità e dell’onestà verso chi guarda, paga, ama questo sport.