Era pensata come una riforma per dare maggior prestigio, continuità e centralità al circuito ATP. Un modo per livellare l’importanza dei Masters 1000, estendendone la durata e uniformandone il format, rendendoli più appetibili per pubblico, sponsor e, sulla carta, anche per i giocatori, ma a un anno e mezzo dall’entrata in vigore della nuova architettura dei 1000, qualche scricchiolio inizia a sentirsi forte e chiaro. E l’epicentro, quest’estate, sembra essere Toronto.
Sede da sempre di uno dei due appuntamenti canadesi a rotazione (l’altro è Montreal, che ospita il torneo femminile quest’anno), la città dell’Ontario si trova improvvisamente ad affrontare un vuoto d’aria piuttosto rumoroso: Jannik Sinner, Carlos Alcaraz, Novak Djokovic e Jack Draper, ovvero quattro tra i primi sei del ranking mondiale, hanno già dato forfait (anche se quello dello spagnolo non è ancora ufficiale nel momento in cui scriviamo).
Il calendario si stringe: da Wimbledon al cemento in venti giorni
Il motivo? Più che tecnico, è di respiro. Nel cuore dell’estate, con il caldo a martellare le superfici e la transizione immediata dall’erba di Wimbledon al cemento americano, l’idea che un top player possa affrontare fino a 12 match in 20 giorni tra Toronto e Cincinnati (senza contare lo US Open subito dopo) ha il sapore di un’impresa importante, soprattutto se si arriva da una stagione europea carica di chilometri, partite, pressione e – per molti – anche infortuni o fatiche accumulate.
L’ATP ha allungato la durata dei Masters 1000 come Roma, Madrid e Shanghai, portandoli a (quasi) due settimane, con l’intento di renderli più “slams-like”. Ma quando questa logica si applica a blocchi ravvicinati, il calendario diventa un terreno minato. Toronto ne è la prova evidente: piazzato appena due settimane dopo la finale di Wimbledon, è il primo test sul cemento per chi ambisce allo US Open; ma in quanti hanno davvero voglia (e condizione) di sottoporsi a questa rincorsa ad handicap?
Toronto rischia il destino del Paris Open?
La sensazione, nemmeno troppo velata, è che Toronto stia diventando il nuovo Paris Open. Con l’eccezione che Parigi-(ex)Bercy arriva a stagione conclusa, ultimo sforzo prima delle Finals e in un contesto dove molti scelgono di rifiatare per rimettere insieme i pezzi dopo mesi di fuoco. Toronto invece è l’esatto opposto: il primo dei tre scalini che portano a Flushing Meadows, dove l’obiettivo non è tirare il fiato, ma iniziare a carburare.
Eppure il risultato, a livello di partecipazione, è stranamente simile: grandi assenti, tabelloni mutilati, aspettative ridimensionate. Perché? Forse perché i giocatori cominciano a ragionare in modo più strategico, anche mentale, privilegiando la linearità e la logica del percorso rispetto al semplice prestigio del torneo.
Cincinnati e New York: il blocco ideale
Chi punta forte allo US Open, ad esempio, quest’anno preferisce concentrarsi sul binomio Cincinnati–New York, due tornei che si giocano in condizioni molto simili, con tempi di adattamento minimi e, soprattutto, con la sensazione di avere un unico, grande obiettivo in vista. Cincinnati, per intenderci, diventa una specie di prologo naturale allo Slam statunitense.
Toronto, al contrario, appare un’appendice scomoda: superficie veloce ma con clima diverso, collocazione temporale incastrata, e con l’aggravante della necessità di fare tutto subito, senza nemmeno il tempo di rifiatare dopo Londra. E se poi si incappa in due settimane piene, con match duri e intensi sin dai primi turni, il rischio è arrivare a New York già spremuti.
La visione lunga dei giocatori
Tennisti come Sinner o Djokovic, per motivi diversi, non mettono la classifica in cima alle loro priorità. Il focus è tutto sulla gestione delle energie e sulla possibilità di massimizzare la resa nei grandi eventi. In quest’ottica, ogni match non necessario diventa un peso, ogni torneo di troppo un rischio. Sinner avrebbe potuto sfruttare Toronto per guadagnare punti in classifica su Alcaraz, è vero. Ma a che prezzo? Nel 2025, gli stessi protagonisti preferiscono evitare la trappola, pianificare in modo chirurgico la preparazione allo Slam e – se necessario – saltare anche un 1000.
Servirebbe un ripensamento che non arriverà
Il punto è proprio questo: la riforma dei Masters 1000 doveva garantire stabilità e attrattiva. Invece sta creando nuove fratture. Forse sarebbe il caso di ripensare l’incastro estivo, magari differenziando le durate o evitando di sovrapporre logiche “slammistiche” a tornei che hanno una funzione diversa nel calendario. Perché non tutti i Masters sono uguali, e soprattutto, non tutti possono permettersi di perdere i big senza pagarne il prezzo; ma è probabile che questa riflessione, per quanto logica nella sua naturale evoluzione, non avverrà.
Toronto è un torneo storico, con un pubblico appassionato e una tradizione solida, ma senza i primi quattro del mondo, il rischio è quello di diventare un “quasi 500”, e non per colpa sua. Il centro della questione non è solo legato all’edizione odierna, ma al fatto che possa diventare un’abitudine, voluto o meno, ma pur sempre concreta. Serve una riflessione, e serve presto. Prima che un’intera fascia di tornei, quello canadese nello specifico, peraltro fondamentali per la transizione di superficie, diventi l’anello debole della catena.