Non c’è pace per Matteo Berrettini. Il tennista romano ha ufficializzato il suo ritiro dal tabellone principale del Masters 1000 di Cincinnati, secondo evento della campagna estiva nordamericana sul cemento, dopo aver già rinunciato alla settimana precedente di Toronto. Nessun problema fisico comunicato, nessun infortunio muscolare a bloccarlo. La ferita, stavolta, è altrove. E lo aveva ammesso lui stesso, con una sincerità disarmante, nel post partita più doloroso della stagione: “Mi sono rotto qui”, disse toccandosi la testa, dopo la sconfitta al primo turno di Wimbledon contro il polacco Kamil Majchrzak. Parole che oggi, a distanza di quasi un mese, suonano ancora più pesanti.
Una crisi interiore, non muscolare
Berrettini non mette piede in campo da quel lunedì triste di fine giugno sull’erba di Church Road. Non ci sono fascette al polso, fasciature alla coscia, né bollettini medici da interpretare. Il problema sembra mentale, psicologico, emotivo. E non è mai semplice parlarne in un ambiente come quello del tennis professionistico, abituato a catalogare tutto secondo parametri di classifica, statistiche e punti in palio. Invece Berrettini si è esposto, si è mostrato fragile, ha ammesso di non sentirsi più sé stesso dentro al campo. Un peso che non ha nulla a che vedere con gli avversari, ma che nasce da dentro.
Un malessere silenzioso che ha spinto l’ex finalista di Wimbledon a prendersi una pausa dal tour, cercando altrove le risposte che il campo – per ora – non riesce più a dargli. E Cincinnati, come Toronto prima, non è sembrata la sede giusta per tornare a combattere. L’entry list aggiornata lo conferma: fuori anche Bublik e Brooksby (con protected ranking), dentro Hugo Dellien, Jerry Shang e Borna Coric, ma è il nome di Matteo a pesare più degli altri. E a preoccupare.
Un ritorno a New York? Ma in che condizioni?
A questo punto, salvo sorprese, l’unico torneo che resta all’orizzonte è lo US Open, almeno che non voglia giocare a Winston-Salem la settima prima dell’ultimo Slam dell’anno. Per Berrettini, semifinalista a New York nel 2019 (ricordate? Sembra passata una vita…) potrebbe significare un ritorno in campo direttamente al meglio dei cinque set, senza aver disputato un solo match ufficiale tra luglio e agosto. E qui nasce un problema oggettivo: come si arriva a uno Slam senza avere minuti nelle gambe, senza aver testato la propria tenuta mentale e fisica in partite vere?
Una sfida difficile, forse la più ardua della carriera di Matteo, che già in passato aveva affrontato rientri complicati dopo lunghi stop, ma questa volta è diverso. Perché lo strappo non è stato causato da un muscolo o da un’articolazione, ma dalla mente e perché lo scenario che lo attende a Flushing Meadows non concede margini d’errore.
Cosa lo aspetterebbe a New York
La domanda, a questo punto e qualora dovesse decidere si saltare il 250 prima di New York, non è se Berrettini sarà in campo allo US Open. È come ci arriverà. Con quali sensazioni, con quale forma, con quale voglia. Perché il tennis non è solo colpire una palla dentro le righe, ma anche saper reggere il peso delle aspettative, dei giudizi, delle battaglie quotidiane. E la testa, nel tennis di oggi, è probabilmente più importante di tutto il resto.
Lo si è visto con tanti colleghi illustri: da Naomi Osaka ad Alexander Zverev, passando per Casper Ruud. In tanti, prima o poi, si sono dovuti confrontare con il lato oscuro dello sport professionistico. Matteo ci sta passando adesso; solo il tempo dirà se questo tunnel avrà un’uscita, ma per ora, la notizia è che Cincinnati dovrà fare a meno di lui e che New York, salvo miracoli, sarà il suo primo banco di prova dopo quasi due mesi di silenzio.
Il campo, come sempre, darà l’ultima parola, ma stavolta c’è da augurarsi che sia il cuore di Matteo a ritrovare la voce prima del cemento, di una pallina, una racchetta e una rete a dividere non soltanto il campo ma lo spazio libero di una mente che merita di tornare a divertirsi, godendo del (suo) tennis.