Riguardo alla programmazione. Ad esempio, una delle giocatrici ha dovuto giocare i quarti, le semifinali e la finale in tre giorni consecutivi. Per questo motivo, ieri sera avete dovuto programmare prima Victoria, e Osaka e Tauson hanno giocato in uno stadio piuttosto vuoto. Mi chiedevo se c’è qualcosa che pensate si possa fare al riguardo?
VALERIE TETREAULT: Sarà sicuramente uno degli aspetti che esamineremo nel post mortem. Detto questo, nel complesso siamo abbastanza soddisfatti della programmazione. Abbiamo ritenuto di aver creato un ordine di gioco che avesse senso, considerando che avevamo la difficoltà di finire a metà settimana. Quindi volevamo assicurarci che da lunedì a giovedì scorso potessimo avere il prime time per ogni partita, soprattutto perché erano le partite più importanti.
Abbiamo iniziato un po’ prima, alle 18:00, con la speranza che più persone rimanessero per la seconda partita. Ovviamente, quando la prima partita dura tre ore, non importa se è di pomeriggio o di sera. Penso che alcune persone a quel punto ne abbiano abbastanza e siano pronte per tornare a casa o andare a festeggiare da qualche altra parte. Ma penso che le sessioni serali con inizio alle 18:00 e la seconda partita a seguire mi soddisfino abbastanza in generale.
3 x 2
Quindi che sia il tre per due la soluzione giusta? Le tre settimane per due tornei? Da un punto di vista logico si tratta di una posizione apprezzabile: i giocatori vogliono rimanere meno tempo lontano da casa, i tornei ovviamente non vogliono rinunciare agli extra guadagni del “12-96”, quindi se giochiamo gli stessi tornei in meno tempo siamo tutti contenti, no? Non è proprio così automatico, ci sono da sistemare gli accavallamenti e la programmazione, e ci vorrà un po’ di tempo. E in ogni caso i ricordi dei tornei da una settimana richiederanno parecchio tempo per essere dimenticati.
L’argomento del giorno di riposo che consente più flessibilità del programma in caso di pioggia è un argomento valido: in Canada hanno avuto tornei massacrati dalla pioggia (Montreal 2010 e 2023, Toronto 2012), è inevitabile che siano più sensibili all’argomento. E non si dica che il problema della pioggia lo si risolve con il tetto, perché non funziona così: il tetto risolve il problema della TV, dando sempre un match da mostrare, ma non si può giocare un torneo su un campo solo (e gli impianti con tetti multipli sono rarissimi e lo rimarranno per molto tempo).
Ma i problemi da risolvere per il “12-96” sono parecchi, e non è nemmeno sicuro che siano risolvibili. Perché come si spiega il fatto che i tornei tanto vituperati continuano a fare record su record mentre non sembra esserci un appassionato a cui piacciano? Si spiega probabilmente con il fatto che chi compra quei biglietti sono sempre meno i fan dello “zoccolo duro”, e sempre più spettatori casuali che si interessano al tennis ma magari non si svegliano alle tre del mattino per le sessioni serali di Indian Wells.
Il tifoso di tennis non è una professione
Il fulcro del problema sembra essere questo: se si vuole allargare la base di appassionati del tennis bisogna puntare sul pubblico mainstream che lo segue in maniera più casuale. Lo abbiamo detto tante volte: essere tifosi di tennis è quasi un lavoro. Bisogna sapersi destreggiare tra regole complicate, una governance da mal di testa, una stagione di quasi 12 mesi distribuita su una ventina di fusi orari, insomma è davvero complesso. È non è pensabile che chiunque voglia interessarsi di tennis debba rassegnarsi a questo calvario. Lo fanno tanti lettori di Ubitennis, lo facciamo noi, ma non possono farlo tutti. Per cui qualcuno è anche contento di vedere qualche partita in TV (pagando se necessario) e andare a vedere i campioni dal vivo nel torneo più vicino a casa. Non tutti possono pensare di organizzare trasferte per andare a Melbourne, a Shanghai o a New York.
Ciò fa sì che le logiche di acquisto degli appassionati casuali siano sostanzialmente diverse da quelle degli “hard core fans”. E la divergenza sempre crescente di questi due contingenti rappresenta l’equazione più difficile che il tennis deve risolvere: quanto può permettersi il tennis di alienare i tifosi dello zoccolo duro per perseguire la strada dell’appetibilità mainstream e dei grandi numeri?
Sport globale, tornei locali
Un altro tassello da mettere a posto in questo complicato mosaico è quello di come gestire le fonti di introito dei vari tornei e le loro esigenze contrastanti. Lo abbiamo visto durante la pandemia: gli unici tornei con contratti televisivi che abbiano un peso rilevante nel tenere a galla la baracca sono gli Slam. Per gli altri, solo i Masters 1000 possono ottenere cifre rispettabili, tutti gli altri devono puntare su altre fonti. E le altre fonti sono quasi tutte locali: la biglietteria, le sponsorizzazioni, il corporate entertainment.
Se la maggior parte del reddito arriva da qui, è chiaro che gli organizzatori saranno orientati a favorire le esigenze di questi ultimi. Per esempio: in Canada si è deciso di gestire le ultime quattro giornate con gli incontri finali giocando solamente in sessione serale, per favorire l’afflusso del pubblico, degli sponsor nelle suites e, in secondo luogo, per massimizzare gli ascolti televisivi in Canada in modo da dare visibilità più pregiata agli sponsor locali.
Ci sono state lamentele di ogni tipo perché in questo modo si penalizzavano gli ascolti TV in Europa, oppure perché molte partite si sono disputate contemporaneamente. Ma come detto sopra, al torneo canadese interessa fino a un certo punto lo spettatore televisivo in Europa, che seguirà il tennis dall’altra parte dell’oceano solo se è un appassionato comunque piuttosto assiduo.
E scendendo ancora maggiormente nel dettaglio: gli organizzatori di Toronto non metteranno mai la propria finale ad un orario più “scomodo” in modo da non sovrapporsi a una finale a Montreal (e il ragionamento vale anche viceversa). Si cercherà di offrire l’orario migliore ai propri spettatori per riempire le tribune. In realtà la finale di Montreal è iniziata alle 18, mentre a Toronto si è cominciato alle 19.30: si è scelto così perché l’impianto di Toronto è molto più periferico e c’è bisogno di più tempo per arrivare là in un giorno lavorativo.
In ogni modo, tornando al concetto generale, i tornei sono principalmente disegnati per essere prodotti per il pubblico locale, anche per la peculiarità stessa del prodotto. Il tennis è sostanzialmente “star-based”, sono molto di più quelli che vogliono vedere “il campione” o “il personaggio” di quelli che vogliono vedere “il gioco” o “le partite”. E sfortunatamente nei tornei di tennis non si sa mai con certezza chi gioca dove, quando, contro chi, a che ora e per quante volte in un determinato evento. Questo rende molto complicato attirare spettatori da lontano, a meno che non siano davvero molto motivati (il famoso “zoccolo duro”).
Conseguentemente, l’attenzione degli organizzatori è sul mercato locale, e offrire 12 giorni invece di 7 o 8 è una ricetta quasi sicura per ottenere profitti più alti. E se consideriamo la struttura di governance dei ‘1000’, che di fatto sono delle entità indipendenti unite da un accordo commerciale, appare abbastanza naturale che non si possa consentire a qualcuno di fare qualcosa che invece non si consente di fare ad altri. Se Indian Wells e Miami hanno un torneo di 12 giorni ormai da decenni, con quale logica si può impedire agli altri 1000 di fare lo stesso?
Certo, da un punto di vista di circuito avrebbe più senso mantenere la loro unicità, per aumentarne il fascino e non tartassare troppo i giocatori. E se si fosse tutti parte della stessa parrocchia, ovvero se tutti i tornei fossero di proprietà o comunque gestiti dall’ATP, sarebbe semplice gestirlo magari redistribuendo gli utili dei giorni extra.
Ma perché ciò accada sarebbe necessario che l’ATP potesse avere molto più potere di quello che ha, magari attraverso la gestione di introiti televisivi molto più cospicui di quelli attuali, ma al momento non sembra che l’ipotesi sia verosimile. Sono i tornei ad avere il coltello dalla parte del manico, perché la maggior parte degli investimenti sono loro.
I pezzi del mosaico
Mi rendo conto di essere stato molto prolisso e di aver presentato più problemi che soluzioni. D’altro canto il primo passo per risolvere un problema è individuarlo e riconoscerne l’esistenza. Poi bisognerà fare come si fa di solito: “trial and error” si dice in milanese moderno, provare, sbagliare e correggere fino a che non si arriva alla soluzione migliore. Ma migliore per chi?