Tennis e mental coaching, una storia iniziata tanto tempo fa

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Tennis e mental coaching, una storia iniziata tanto tempo fa

Questo mese parliamo del mental coaching nel tennis: dalle origini, più di quarant’anni fa, che sono alla base del coaching moderno, ad oggi, con tutti i campioni più famosi che hanno lavorato sull’aspetto mentale. E c’è anche la prima “pillola” per i lettori di Ubitennis

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Nell’articolo del mese scorso avevamo raccontato cos’è il mental coaching e cosa fa un mental (o personal) coach, entrando un po’ più nello specifico nell’ambito dello sport coaching. In questa seconda parte del viaggio introduttivo nel mondo del mental coaching, parleremo ovviamente del mental coaching nel tennis, sport in cui è molto diffuso a livello professionistico.

Anzi possiamo dire che, in un certo senso, è grazie al tennis che nasce il coaching moderno. Uno dei “testi sacri” del coaching è infatti “The Inner Game of Tennis” di Tim Gallwey. Quando fu pubblicato per la prima volta, nel 1972, il libro ebbe un notevole successo dato che si trattava del primo libro in ambito sportivo che non parlava di tecnica o di preparazione fisica bensì della parte interiore del gioco, l’Inner Game appunto, degli ostacoli che ogni tennista incontra nella sua mente e di come superarli. Riferendosi al gioco del tennis, Gallewey affermava che “L’avversario nella nostra mente è molto più forte di quello dall’altra parte della rete”, definendo quindi due livelli di gioco: quello esterno, dove esiste l’avversario che si trova al di là della rete, e quello interno, dove c’è un altro avversario, spesso molto più difficile da affrontare, che si nasconde nella nostra mente. Gallwey applicò poi il metodo e gli strumenti dell’Inner Game in altri sport e successivamente anche in ambito aziendale. Nulla di sorprendente, se si pensa che le dinamiche interiori e personali che si trova ad affrontare un atleta o un allenatore sono di fatto simili a quelle di un manager o un imprenditore che gestisce un team di persone, che ha obiettivi di performance ben precisi e che ha scadenze fisse da rispettare. Molti dei concetti espressi a suo tempo da Gallway sono ancora oggi alla base del coaching sportivo (e non solo, come abbiamo appena visto).

Come detto all’inizio, il mental coaching ha ampia diffusione nel tennis professionistico. A tutti i livelli: sono molti i campioni che hanno chiesto il supporto di un mental coach. Con uno dei più famosi coach al mondo, l’americano Anthony Robbins, lavorarono Andre Agassi e Serena Williams. Ed oggi il coach della pluricampionessa Slam è Patrick Mouratoglou, soprannominato “Il mentalista” per l’attenzione alla psiche dei propri atleti, che prima di essere al fianco di Serena – che con lui in meno di 5 anni ha vinto 10 Slam, mentre ne aveva vinti 13 nei 13 anni precedenti – aveva portato Marcos Baghdatis al n. 8 del ranking ATP e Aravane Rezai nella top 20 WTA.
A proposito di Mouratoglou: alcuni lettori il mese scorso avevano chiesto alcuni titoli di libri sul coaching. Ovviamente “The Inner Game of Tennis” è un must, ma anche “Impara a vincere” del coach francese è un libro che ha dei passaggi interessanti.

Parlando dei grandi nomi del tennis maschile odierno, anche i Fab Four conoscono bene l’importanza del mental coaching. Andando in ordine di Major in bacheca, il diciotto volte campione Slam Roger Federer all’età di 17 anni ha lavorato con un mental coach sul suo carattere ribelle, che rischiava di fargli sprecare il suo enorme talento. Basti pensare che a Basilea, al suo primo tennis club, lo facevano spesso allenare sul campo più distante dai locali del club per non sentire le sue imprecazioni o lo allontanavano dal campo per insubordinazione. Rafa Nadal, citato spesso come esempio per l’atteggiamento mentale in campo, ha avuto in questo il supporto del suo storico coach, lo zio Toni, che sin da quando il nipote era junior ha lavorato con lui sull’aspetto mentale, affinché sviluppasse anche in questo ambito tutte le capacità necessarie per diventare un tennista di vertice. Di Novak Djokovic si sa quanto sia attento ad ogni aspetto legato alla correlazione tra corpo e mente. Ufficialmente non è stato mai confermato, ma rumors di spogliatoio sostengono che sia stato seguito da una delle maggior mental coach serbe, esperta di PNL, la dott.ssa Vesna Danilovac (che ha lavorato anche con il connazionale Viktor Troicki e con il tennista bosniaco Damir Dzumhur). Per quanto riguarda l’attuale n. 1 del mondo Andy Murray, una delle prime cose che Ivan Lendl fece nel 2012 quando divenne per la prima volta il suo allenatore, fu quella di rivolgersi ad uno specialista per migliorare la preparazione mentale del campione scozzese.

Come tutti noi sappiamo, il tennis è uno sport in cui l’aspetto mentale assume molta rilevanza, anche in considerazione delle modalità di svolgimento di una partita, con le interruzioni tra un punto ed un altro, le pause al cambio campo. Nel 2013 fu misurato agli US Open il tempo effettivo di gioco del match di secondo primo turno tra Andy Murray e Leonardo Mayer, facendo scattare il cronometro quando la pallina lasciava la mano del giocatore per il servizio e bloccandolo quando la pallina finiva in rete, faceva il secondo rimbalzo o finiva in out: i due rimasero in campo per 2 ore e 41 minuti, ma il tempo effettivo di gioco fu di 26 minuti e mezzo, il 16,4% del tempo totale. Non si tratta di un caso particolare, dato che nella stessa occasione fu misurato anche il tempo effettivo di gioco del match di doppio femminile tra Hantuchova-Hingis e le azzurre Errani-Vinci: il match durò un’ora e 26 minuti, con un tempo effettivo di 16 minuti e 50 secondi (19,6%). Insomma, a stare larghi in una partita di tennis si gioca il 20% del tempo totale, il resto sono pause. Ma se il dato è indubbiamente positivo se lo si vede dal punto di vista dello sforzo fisico, attenzione: tutto queste pause sono intervalli di tempo in cui l’atleta può pensare. Aggiungiamoci che il tennis è uno sport in cui la durata del match non è predefinita: a tutti i livelli, una partita può durare un’ora, ma anche due o tre. A livello professionistico, nei tornei del Grande Slam al meglio dei cinque set, si arriva tranquillamente a quattro o cinque ore. Senza scomodare i casi estremi tipo Isner-Mahut a Wimbledon 2010, durato 11 ore e 5 minuti. Ecco che se non si è allenati adeguatamente dal punto di vista mentale nel gestire i propri pensieri, in tutti quegli spazi “vuoti” tra un punto e l’altro nella mente del giocatore potranno fare capolino pensieri di tutti i tipi. E i pensieri genereranno emozioni. E le emozioni genereranno comportamenti. Se non si è allenati mentalmente, ecco che un situazione tattica di difficoltà, una fase del match in cui si è indietro nel punteggio, possono portare ad affollare la mente di pensieri negativi. Che a loro volta generano emozioni negative, come la rabbia, la paura, l’ansia, la rassegnazione. Ed ecco che i comportamenti seguenti – le scelte tattiche che si adotteranno, i colpi che si eseguiranno – saranno influenzati negativamente da questi pensieri e da queste emozioni.

Prendiamo il classico esempio, quello che tutti noi che giochiamo o abbiamo giocato a tennis ben conosciamo: il pensiero che si insinua nella nostra testa mentre ci stiamo accingendo a giocare un punto molto importante. Innanzitutto c’è da dire – ecco la prima “pillola” di coaching della rubrica – che corre una differenza enorme tra il dirsi “Metti la prima” piuttosto che “Non fare doppio fallo” se si è al servizio e tra “Mettila in campo” e “Non sbagliare” se invece si è alla risposta. Semplificando, la differenza è data dal fatto che la mente non riconosce a livello inconscio i comandi dati in forma negativa. Cosa significa? Che se diciamo a noi stessi di non fare una determinata cosa la mente non codifica il NON e quindi sta creando un’immagine di ciò che stiamo cercando di evitare. Un esempio? Immaginate un campo da tennis. Un campo all’aperto, in mezzo al verde, con tanti alberi attorno che in estate fanno ombra e permettono di giocarci anche nelle ore più calde. Un campo in terra rossa, ben curato, che a vederlo vien voglia di andare a prendere il borsone e fare subito un’oretta. Però NON pensate assolutamente alle panchine bianche dove di solito si appoggia il borsone. Per quanto vi siate sforzati di farlo, avete pensato almeno per un momento alle panchine, non è così? Questo perché è praticamente impossibile non farlo. Non si tratta solo di “pensare positivo”, ma di usare un linguaggio il più funzionale possibile per la nostra mente: tra il “Metti la prima” e il “Non fare doppio fallo”, anche se la sostanza del messaggio che volevamo dare a noi stessi è la stessa, la forma ne modifica l’effetto. Ed in uno sport in cui ad alto livello il 70% dei punti non supera i 4 colpi (Australian Open 2015, dati IBM) e quindi ogni giocatore effettua due colpi, e a livello più basso le percentuali non cambiano di molto, approcciare nel modo migliore dal punto di vista mentale il 50 % dei colpi che si giocheranno nel 70% dei punti capite che può fare un’enorme differenza in termini di risultato. E se quel colpo ci accingiamo a farlo in uno stato emotivo di sconforto o di paura, ecco che è quasi una conseguenza dire “Mi raccomando non sbagliare”. Il che rende lo sbaglio più probabile. E lo sconforto aumenta.

Insomma, senza un adeguato allenamento l’avversario interno di cui parlava Gallwey diventa veramente ostico da superare in certe situazioni. Ed è qui che il mental coach viene in aiuto. Nei prossimi articoli, parleremo di volta in volta degli argomenti principali su cui si lavora in una sessione di coaching in ambito sportivo: la definizione degli obiettivi, la gestione degli stati d’animo, l’utilizzo delle proprie risorse. Cominceremo dagli obiettivi: dalle caratteristiche che devono avere, da come devono venire correttamente definiti e formulati.

Nel frattempo, l’invito è quello di esercitarsi, sin dalla prossima partita di allenamento, a pensare di mettere in campo la prima di servizio e la risposta. E vedere cosa cambia… Perché qualcosa cambierà. Come dice il padre della PNL Richard Bandler, “Quando cambi come pensi, cambia come ti senti… e di conseguenza cambia quello che puoi fare”.

Ilvio Vidovich è collaboratore dal 2014 di Ubitennis, per cui ha seguito da inviato tornei ATP e Coppa Davis. Personal coach certificato, ha conseguito un Master in Coaching, una specializzazione in Sport Coaching e tre livelli di specializzazione internazionale in NLP (Programmazione Neuro Linguistica): NLP Practitioner, NLP Master Practitione ed NLP Coach. È anche istruttore FIT e PTR. 

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