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16/12/2010 10:17 CEST - Rassegna Stampa del 16 dicembre 2010

Monica Seles si racconta: “La mia vita senza racchetta” (Chiari)

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Rubrica a cura di Daniele Flavi

Monica Seles si racconta: “La mia vita senza racchetta”

Elisa Chiari, famiglia cristiana del 16.12.2010

Era giovane, acerba e cattiva, agonisticamente parlando s'intende. Monica Sales, nata a Novi Sad in Serbia e cresciuta tennisticamente all'accademia californiana di Nick Bollettieri, arrivò sedicenne sul circuito del tennis internazionale con la forza di un tornado: spazzava via, menando fendenti a due mani di diritto e di rovescio, tutte le palline che arrivavano sulla sua strada, accompagnandole con un grugnito che lo sforzo le strappava a ogni colpo. Le avversarie di allora dicono che faceva paura. Difficile pensare la stessa cosa della Monica che abbiamo di fronte oggi: una donna bella, elegante e consapevole, di 37 anni. La ragazzina eternamente concentrata che prendeva a pallate il mondo appartiene a una vita fa. C'è di mezzo il percorso che fanno i bruchi per diventare farfalle e la fatica che costa diventare grandi in quella bolla trasparente e frenetica che è il circo del tennis mondiale. — Ha cominciato a giocare e a vincere presto: si è mai sentita in gabbia? «No, mi piaceva giocare. I miei genitori erano i miei primi sostenitori ma non hanno mai preteso risultati. Mio padre aveva un concetto alto della vita: non mi parlava mai di soldi, successo, fama. Mi diceva: "È importante che tu abbia una vita soddisfacente, che sia felice. Il tuo equilibrio viene prima di tutto". Ripensare a questo mi aiuta quando sono in difficoltà anche se lui non c'è più». — La sua carriera e la sua vita sono state divise in due dal coltello di un fanatico, che invase il campo e la ferì alle spalle. Si disse che la ferita più profonda fu psicologica... «Fu profonda anche nel corpo, ma è vero che l'aspetto mentale ebbe un peso in quel difficile recupero. Non era mai accaduta una cosa simile e non avevo nessuno con cui confrontarmi. Avevo 19 anni. Mi sentii sola». — Prima entrava in campo di corsa, concentrata, senza timori. Era davvero così? «Un po' sì. Parlo veloce, vado sempre di corsa, il tennis in questo mi corrispondeva: è un gioco molto dinamico. Due punti fanno la differenza e io credo di essere stata la prima donna a giocare con la stessa aggressività di diritto e di rovescio». — Quando ha preso coscienza che la vita fuori era più complicata del campo da tennis? «Da piccola vivi in una bolla, poi la vita ti costringe ad aprirti: a me è successo con quella ferita e con la morte di mio padre». — Si è raccontata in un libro autobiografico: Getting a grip. Significa: "Riprendere il controllo". L'aveva perso? «A un certo punto ho cominciato a perdere il controllo del mio peso e del mio modo di mangiare, sentivo che c'era una connessione stretta tra il cibo e il mio stato psicologico. Stavo male, mi dicevo: "Oddio che sto facendo?". Capisci che ti fai del male. Ma pensi solo all'ennesima dieta. E invece l'equilibrio torna soltanto quando trovi un modo di mangiare che non sia un regime forzato, ma uno stile di vita sano, naturale». — Perché ha deciso di raccontarlo? «Avevo partecipato a un programma Tv, una cosa tipo Ballando con le stelle, e l'attenzione della gente era tutta concentrata sul peso che avevo perso, non interessava a nessuno che sapessi o meno ballare. Lì ho capito che la mia esperienza avrebbe potuto essere utile ad altre ragazze. Oggi anche nello sport l'aspetto conta molto, non è difficile cadere nei disturbi alimentari. Siamo bombardate di modelli irraggiungibili. La cosa che mi ha fatto più piacere dopo il libro sono state le lettere di tante donne che mi ringraziavano per averle spinte ad affrontare il problema». - Oggi è quasi un lavoro, vero? «Sì, vengo spesso coinvolta in incontri pubblici su disturbi alimentari. L'altro mio lavoro sono i campi d'allenamento agonistico con i ragazzi: adoro il tennis e i bambini, non potrei trovare occupazione migliore. E poi c'è Laureus, cui mi dedico nel tempo libero a titolo gratuito. Avviamo allo sport bambini che vivono in realtà disagiate: non c'è intento agonistico, solo ragioni sociali, educative». - Gioca ancora a tennis, lezioni a parte? «Sì, per passione, ma non faccio esibizioni, niente di competitivo». - E stato difficile uscire dall'agonismo? «Smetti da un giorno all'altro, devi prendere coscienza che inizia una fase nuova della vita: nei primi mesi mi svegliavo sempre con l'ansia, con l'idea di fare e disfare valigie. Poi aprivo gli occhi e mi dicevo: "Rilassati, è finita". Sembra molto glamour da fuori ma è tutto molto frenetico. Giri il mondo ma non lo vedi: solo campi e aeroporti. Allora non c'era Internet, era una vita solitaria». - Com'è gestire tanta pressione da ragazzi? «Complicato, perché tutto ti assale all'improvviso, vinci una cosa importante, cominci a guadagnare, e di colpo ogni banalità che fai diventa notizia. All'inizio non capivo, mi dicevo: "Ho solo 16 anni che vogliono?". Mi riconoscevano ovunque, guardavano che cosa mangiavo, che cosa dicevo. Sentivo il gossip attorno. Mi spaventava. Solo verso i vent'anni ho imparato a non preoccuparmene più. Credo che maturare significhi questo». Monica Seles, come molte leggende dello sport internazionale, tra cui Edwin Moses, Nadia Comaneci, Alberto Tomba - solo per citarne alcuni - fa parte di Laureus World Sport Academy (sopra e in basso) , il programma della fondazione Laureus che diffonde lo sport tra i ragazzi nelle aree disagiate del mondo. Monica Seles sostiene con la star dei Knicks John Starks il progetto I challenge myself, pensato per i teenager a rischio che frequentano alcune scuole secondarie in quartieri difficili di New York. Si tratta di un progetto di educazione motoria e alimentare: «Molti ragazzi negli Stati Uniti», spiega Monica Seles, «sono a rischio obesità, soprattutto tra gli strati più poveri della popolazione. Aiutarli a prendere coscienza del problema significa prevenire molti rischi per la loro salute da adulti. Non solo: dallo sport si imparano cose importanti. Ti insegna che per conquistare qualcosa che vuoi devi impegnarti, che nella vita esistono alti e bassi e se vuoi vincere il talento non basta, serve sacrificio. Impari ad avere rispetto degli altri, a non arrivare in ritardo, a calcolare le ricadute che hanno sugli altri le cose che fai. Questo almeno è ciò che il tennis ha lasciato a me per la vita»
 

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Tratto da: On This Day in Tennis History di Randy Walker