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25/08/2011 16:02 CEST - Verso gli Us Open

Murray: se non ora, quando?

TENNIS - Gli Us Open potrebbero essere l'ultima occasione per Murray di vincere uno Slam, di non essere ricordato come il più grande giocatore a non aver mai vinto un major. Quest'anno ha vissuto una stagione in chiaroscuro: molto bene negli Slam, ma con troppe cadute rovinose (Young, Bogomolov, Anderson). Quale versione di Andy vedremo a Flushing Meadows? Alessandro Mastroluca

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Se non ora, quando? Se non qui, dove? A 24 anni, Andy Murray di treni ne ha visti passare parecchi, ma non è mai riuscito a salirci. Dovesse fallire ai prossimi Us Open potrebbe restare nella storia come il più grande giocatore a non aver mai vinto uno Slam. Certo, diranno in molti, non avesse avuto davanti Nadal e Federer, ne avrebbe già vinto qualcuno. Vero, ma non verissimo. Mi spiego meglio: da quando è entrato nel “Big Four”, l’8 settembre 2008, si sono giocati 11 Slam. In 10 Murray era testa di serie numero 4: agli Australian Open 2011 ha raggiunto la finale partendo da quinto favorito. Negli altri 10 ha raggiunto lo stadio coerente con l’essere testa di serie numero 4, ovvero la semifinale, nella metà dei casi.

Negli ultimi due anni, a Flushing Meadows, in quello che lui stesso ha da sempre considerato il suo Slam preferito, è uscito al quarto turno, contro Cilic, nel 2009 e al terzo contro Wawrinka l’anno scorso. Dati che raccontano bene l’imprevedibilità dello scozzese, sempre sul confine tra l’essere uno che sa giocare a tennis alla grande e il diventare un grande tennista: ed è la testa che fa la differenza.

Quest’anno Murray ha raggiunto una finale e due semifinali nelle prime tre prove dello Slam, ha vinto al Queen’s e a Cincinnati, ma allo stesso tempo, dopo gli Australian Open, ha perso da Bogomolov e Donald Young, entrambi fuori dai primi 100: non perdeva due partite di fila contro avversari fuori dai primi 100 dall’ottobre 2004 (battuto da Sherwood, n.331, al Futures di Birmingham e da Wessels, 137, al Challenger di Bolton).

Sconfitte arrivate nelle prime partite dopo la resa in finale a Djokovic a Melbourne. Passano otto mesi e, dopo la resa a Nadal in semifinale a Wimbledon (la terza persa di fila come “riuscito” solo a Henman), si squaglia di fronte a Kevin Anderson al Masters 1000 di Montreal, dove non perdeva da 10 partite. L’ha definita solo una brutta giornata, ma di queste brutte giornate tende ad averne un po’ troppe per essere il quarto miglior giocatore del mondo. A Cincinnati ha chiuso un cerchio. Non vinceva l’ultimo Masters 1000 prima degli Us Open dal 2008: anche allora sconfisse Djokovic in finale. Tre settimane dopo avrebbe eliminato Nadal in una semifinale a singhiozzi per la pioggia e perso da Federer nella prima delle tre finali Slam della sua carriera.

La sua vittoria, però, è stata in un certo senso oscurata e Djokovic, a dispetto della sconfitta, è riuscito a restare al centro dell’attenzione per un ritiro criticato più per la tempistica che per la gravità dell’infortunio. È solo l’ultimo abbandono in una stagione che dal 2 gennaio (quando Daniel Puttkamer si ritira dopo 31 minuti in un match di quali a Chennai contro Go Soeda) ha visto infortuni praticamente di ogni genere. Ci sono stati 46 ritiri per problemi alla schiena, 32 infortuni alla spalla, 30 al ginocchio, 20 malesseri. La lista di infortuni prosegue: gamba (20), anca (17), caviglia (15), stomaco (11), piede (10), braccio (10), gomito (10), polso (10), piede (10), addominali (8), costole (7), coscia (7). Si sono registrati sette casi di crampi, 12 strappi, 6 infortuni all’inguine, ma anche due casi di avvelenamento da cibo, reazione allergica, colpi di calore, tendinite patellare. Un repertorio medico praticamente completo.

Dopo il successo, Murray ha provato a demistificare, a ridurre l’entità della sfida di battere Djokovic: “Non si tratta di essere aggressivi o cose del genere. Devi fare il tuo gioco, ma il tuo gioco deve cambiare in relazione all’avversario. Non è questione solo di attaccare o di prendere la rete, ma di essere pazienti perché Djokovic è abilissimo a rimettere palle difficili e molto cariche”. Quando è in giornata, l’ha più volte dimostrato, è in grado di battere chiunque, di usare praticamente ogni variazione cambio di ritmo in attacco e in difesa, di offrire un campionario esaustivo di colpi e soluzioni. Ma, come spesso capita a chi sa di poter fare praticamente tutto in campo, è incline a un perfezionismo paralizzante. La pressione che si mette addosso da solo, e quella che gli deriva dalle aspettative che il suo talento ha nutrito e nutre, hanno finito per ottundere la brillantezza tattica degli esordi e per appiattire le sue strategie su un difensivismo che non richiede decisioni, non richiede rischi ma nemmeno porta troppi risultati.

Meglio accettare la prospettiva di commettere errori e riprendere il consiglio che il suo ex allenatore Brad Gilbert e Gil Reyes hanno dato ad Agassi, e che ha probabilmente cambiato la sua carriera: per vincere non serve essere perfetti, basta essere migliori di una persona sola in un determinato giorno. Il suo gioco va migliorato: prima di servizio e dritto sono i colpi che più facilmente perdono efficacia quando Murray si sente sotto pressione. Non serve una rivoluzione, però, semmai un ritorno alle origini. “Puoi anche dire” ha commentato lo scozzese, “che devo migliorare del 12, del 15% ma le cose non vanno così. Puoi cambiare di un 2-3% al massimo, puoi lavorare su piccole cose, e migliorare un dettaglio alla volta in un determinato periodo di tempo”.

Ma il tempo è proprio l’unica cosa che gli inizia a mancare: time is running out. I bookmakers gli danno ancora fiducia. La vittoria di Djokovic è data 5-4, un successo di Nadal, Federer o Murray pagata 5 a 1. Lo scozzese ha una montagna da scalare: gli altri tre hanno vinto 25 degli ultimi 26 titoli dello Slam.

Si fa sempre più vicino l’ingresso nel club degli underachiever (dopo tre finali Slam perse con un bilancio di 0 set a 9) con Bunny Austin, l’ultimo inglese in finale in uno Slam che scambiava con Charlie Chaplin e ha introdotto i pantaloncini; Mary Joe Fernandez, tre finali Slam perse su tre; Tim Henman o Marcelo Rios, l’unico capace di arrivare numero 1 del mondo ma non di vincere un major in carriera. La sua ultima carta, il suo ultimo prezioso tentativo di stupire è la “dieta del semaforo”. Rosso per cereali, ciambelle e yogurt; giallo per carne rossa e pasta senza glutine, verde per pesce, riso e verdure.

All’inizio del mese Darren Swain, un postino di 45 anni con la mania dei graffiti offensivi, non l’ha risparmiato nella sua personale campagna denigratoria: l’ha chiamato “useless jock”: jock, letteralmente sospensorio, viene usato, per indicare, soprattutto nello sport spregiativamente i “palloni gonfiati”, quelli che si credono i migliori di tutti nella propria disciplina ma che non ottengono risultati; in Gran Bretagna, poi, è usato per offendere gli scozzesi. Swain è stato condannato a pagare 3,000 sterline perché, nella forma, i suoi commenti sono offensivi e razzisti. Sta a Murray dimostrare che siano sbagliati anche nella sostanza. L’ultimo treno sta per passare.

Alessandro Mastroluca

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