27/08/2012 16:50 CEST - CENTRE THOUGHT

Questa kiss cam non s'ha da fare

CENTRE THOUGHT - Anche quest'anno Federer e Nadal non potranno giocare l'ultima finale Slam mancante nella loro sfida, quella di New York. Ma forse è troppo tardi: l'epoca d'oro del duopolio è probabilmente finita. Riccardo Nuziale

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Scacchiera - con autografo dei due protagonisti - usata nella terza partita del "match del secolo" tra Fischer e Spasskij, venduta nell'aprile 2011 per $76,275
Scacchiera - con autografo dei due protagonisti - usata nella terza partita del "match del secolo" tra Fischer e Spasskij, venduta nell'aprile 2011 per $76,275

25 giugno 1972. Le arance restano in frigo. “Hvenær kemur hinn dularfulli Fischer?” Quando arriverà il misterioso Fischer? I giornali islandesi temono sempre più il peggio, quello di vedersi rovinare l’onore di ospitare l’evento sportivo e mediatico più importante della loro storia: il già allora battezzato “match del secolo”, la finale mondiale di scacchi tra lo sfidante, lo statunitense Robert – detto Bobby - Fischer, e il campione uscente, il russo Boris Spasskij.

Ma non avevano fatto i conti con Fischer, “quasi certamente il ragazzaccio più maleducato, capriccioso e nevrotico mai cresciuto a Brooklin” (London Daily), colui che “ha portato gli scacchi al livello di un incontro di wrestling. Non avevamo mai conosciuto un tale grado di arroganza e snobismo” (Bild am Sonntag). Che la sera del 25 giugno cancellò all’ultimo minuto il volo per l’Islanda, dopo che la compagnia aerea aveva prenotato un’intera fila di sedili esclusivamente per lui e aveva riempito il frigo del velivolo di arance, in modo che Fischer potesse avere durante il viaggio succo d’arancia spremuto davanti a lui, come tassativamente richiesto.

Non che il genio americano fosse nuovo a questi episodi, tutt’altro. Un esempio tra mille, per rendere l’idea di chi si sta parlando: nel 1967, vinto l’Internazionale di Montecarlo, rifiutò di farsi fotografare insieme al principe Ranieri e, nella cerimonia di premiazione, nel momento in cui Grace Kelly gli consegnò il premio in denaro, tra l’imbarazzo generale aprì immediatamente la busta, ringraziando solo dopo aver certificato che la somma fosse esatta.

Lo statunitense, tra un eccesso di protagonismo all’altro, continuava a rinviare il suo arrivo nella sede della sfida, minacciando di non arrivare proprio se non fossero state soddisfatte in pieno le sue richieste. FIDE (la Federazione mondiale di scacchi), Spasskij, la Federazione russa e l’opinione pubblica erano esasperati, lo spettro del forfait era sempre più vicino. Ma cos’era l’oggetto del malcontento di Fischer? Semplice, gli accordi economici pattuiti non lo soddisfavano. Oltre alla cifra fissa per vincitore e sconfitto, ai due contendenti spettava il 30% dei diritti televisivi e cinematografici: Fischer pretendeva anche il 30% dell’incasso dei biglietti. La Federazione islandese, affatto certa di poter riempire per un match potenzialmente di ventiquattro partite un luogo da tremila posti, non voleva scendere a compromessi.

Stallo che venne risolto da un finanziere britannico appassionato di scacchi, disposto a donare 125mila dollari, raddoppiando così il prize money, pur di veder concretizzarsi il match. Non solo: Henry Kissinger, consigliere per la sicurezza nazionale (e futuro segretario di Stato) degli Stati Uniti, chiamò personalmente Fischer. “Questo è il peggior giocatore di scacchi del mondo che chiama il miglior giocatore di scacchi del mondo”. Una telefonata che stuzzicò l’orgoglio e il patriottismo di Fischer, che era perfettamente conscio del suo ruolo in un evento che andava ben aldilà dei confini sportivi: era un evento mediatico e politico senza precedenti, la Guerra Fredda su una scacchiera. Battere i russi, maestri assoluti del gioco, detentori del titolo mondiale dal 1948, sarebbe stato un colpo pesantissimo, considerando poi che nessun statunitense era mai diventato campione del mondo.

Senza dilungarsi troppo oltre in un racconto che meriterebbe pagine su pagine Fischer, perse le prime due partite (un abissale disastro negli scacchi, considerando poi che a parità di punti il campione avrebbe mantenuto il titolo), la prima per un pacchiano errore, la seconda per non essersi presentato (pretendeva che l’illuminazione fosse tolta o messa diversamente, dal momento che la infastidiva), arrivò alla terza partita con l’obbligo di vincere.

Raggiunto l’accordo di giocare la partita nel retro del palco, senza illuminazione né telecamere (Fischer, come suo solito, aveva minacciato tutto e tutti, prenotando addirittura tre voli per New York), lo statunitense diede il via ad una straordinaria rimonta, vincendo quel terzo capitolo con i neri e battendo Spasskij in cinque delle successive otto partite, concedendo la terza e ultima vittoria al russo nell’undicesima partita, quando però ormai l’inerzia della serie era completamente nelle mani di Fischer. Che difatti, dalla quattordicesima alla ventesima sfida, si limitò a pattare, chiudendosi in difesa.

Il primo settembre 1972 (fra pochi giorni ricorre quindi il quarantennale) Bobby Fischer divenne per la prima volta campione del mondo. Gli Stati Uniti sconfissero l’Unione Sovietica nel “loro” gioco: un’autentica pugnalata.

Tristemente la carriera di Fischer finì quel giorno: non avrebbe più giocato una partita ufficiale, se non una riedizione di questo storico match con Spasskij nel 1992, a Belgrado, l’equivalente di una partita del Senior Tour. Nel 1975 Fischer, stavolta non accontentato nelle sue solite richieste, si rifiutò di difendere il titolo contro un altro russo, Anatolij Karpov, che divenne campione del mondo a tavolino.

Quel primo settembre Fischer, forse il più grande talento della storia degli scacchi, di certo il giocatore più famoso e mitizzato di sempre, “morì” una volta raggiunto il suo Paradiso. Aveva dimostrato di essere il più forte. L’opzione più ovvia, per un giocatore dalla personalità così complessa e contradditoria (nel corso dei decenni le ipotesi su presunti disturbi mentali dell’americano si sono sprecate), era il dissolvimento. Lo scacchista poteva lasciare spazio all’uomo. Aveva 29 anni. La morte fisica sarebbe arrivata il 17 gennaio 2008, quando di anni ne aveva 64. Sessantaquattro, come le caselle della scacchiera.

27 agosto 2012. Cominciano gli US Open. Sensazione di deja vu. “Many people thought he was going to break down way earlier, and he has played I think four years longer than people already expected“. “Molte persone pensavano che avrebbe raggiunto il punto di rottura ben prima, mentre ha giocato penso quattro anni di più di quanto quelle persone pensassero.” È da ieri che la vostra penna sta cercando di decifrare le parole dette da Roger Federer in conferenza stampa su Rafael Nadal. Perché – si sa – le parole delle press conferences, a certi livelli, non possono essere baciate dall’esplicazione, vanno riferite con il velo di Maya del politically correct, infarcito di frasi che non devono far male. Cos’avrà voluto dire, lo svizzero? Perché ha continuato a riferirsi al suo rivale storico usando tempi passati? Ha voluto forse darlo per finito? Certo che no. Forse però, consciamente o meno, ha battezzato la fine della loro sfida.

Anche quest’anno non ci potrà essere la finale Federer-Nadal a New York. Negli ultimi due anni, Novak Djokovic ha detto quattro volte no a quella che resta l’ultima grande sfida mancante tra i due carnefici del tennis degli anni 2000, l’unico tassello mancante, l’unica finale major che i due non hanno ancora disputato.

Quasi mai, se non in sporadiche fette di partita, tecnicamente all’altezza dei due nomi (la sopravvalutatissima finale di Wimbledon 2008 non fa eccezione), la sfida Federer-Nadal è stata indubbiamente il capolavoro assoluto del tennis recente (e tra le colonne portanti della storia del tennis) quanto a iconografia, intensità, pathos agonistico dentro e fuori al campo. Ha tenuto incollati milioni di appassionati, compreso il sottoscritto, ad ogni nuovo capitolo, ogni nuova battaglia: mai è stata così forte, negli ultimi anni, la certezza di assistere ad un pezzo di storia. Ora però la situazione è cambiata: i due non sono più spalla a spalla a contendersi la vetta, non sono più padroni di un duopolio che di fatto non esiste più. In altre parole, in tempi in cui si continua a parlare di epoca d’oro del tennis, la penna dice che il periodo d’oro del duopolio Federer-Nadal è finito. Non s’intende che i due non potranno ancora dar vita a nuovi capitoli della loro sfida, ma che sono finiti i tempi in cui i grandi tornei vivevano in funzione di una finale tra loro due, in cui i turni antecedenti alla finale venivano visti quasi con fastidio.

Qualche dato: dal 2006 al 2010 i due si sono affrontati 19 volte e solo nel Master 2006 e 2007, per negligenza dello spagnolo che non vinse il proprio girone, non si sono affrontati in finale. In quei quattro anni, inoltre, hanno giocato sette finali Slam insieme. Dal 2011 a oggi, lo spagnolo e lo svizzero hanno giocato, in sei scontri, una sola finale, quella di Parigi 2011. Per il resto quattro semifinali (di cui una sola Slam) e addirittura l’affronto del round robin…loro due, i super dominatori, in un volgare girone! Delle ultime otto finali Slam, Federer ne ha giocate ben sei contro giocatori che non fossero l’acerrimo nemico, Nadal addirittura sette (quando nelle prime otto non aveva affrontato lo svizzero solo a Parigi 2005).

Questo significa una cosa: la “sacralità” del duopolio che ha scritto le pagine più memorabili del decennio non è più una realtà. Si potranno ancora affrontare, certo, ma è assai più improbabile che riusciranno e restaurare quell’aura di mito che accarezzava ogni loro sfida. Gli ultimi incontri - compreso quello più prestigioso di quest’anno, la semifinale di Melbourne - sono scivolati via senza vera tensione, vero entusiasmo, vera trepidante attesa che i due entrassero nell’arena. E a un Federer-Nadal non è concesso essere una partita qualsiasi.

Forse – chissà! – riusciranno a dare l’ultima zampata, come fecero nel 2002 Sampras e Agassi, portando a termine il loro personale Grande Slam non più da intoccabili numero 1 e 2 del mondo.

Ma forse talvolta è meglio tenersi ben stretti i gloriosi ricordi.

Riccardo Nuziale

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