11/12/2012 18:42 CEST - Orange Bowl

Il lato oscuro del tennis giovanile

TENNIS - Durante le qualificazioni dell'Orange Bowl, un padre è stato accusato di aver colpito la figlia con la racchetta, ferendola alla testa. E' solo l'ultimo caso di una lunga lista di genitori violenti. Alessandro Mastroluca

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Damir Dokic (Getty Images)
Damir Dokic (Getty Images)

Padri allenatori. Padri padroni. Padri violenti. La lunga lista di rapporti distorti nel tennis si è allungata sabato scorso. La polizia di Plantation è stata chiamata al Frank Veltri Tennis Centre per verificare se un padre avesse davvero colpito con la racchetta sulla testa la figlia, colpevole di aver perso il suo incontro di qualificazione all'Orange Bowl.

Secondo il rapporto della polizia, scrive Michelle Kauffman sul Miami Herald, “la vincitrice ha sentito l'avversaria piangere dopo la partita, e quando si è girata l'ha vista tenersi la fronte con una ferita sanguinante sopra l'occhio sinistro. Suo padre si stava allontanando dal campo tenendo in mano una racchetta”. Lui ha negato di aver colpito la figlia, che ha detto di non sapere come si fosse ferita. Dunque, nessuna accusa. L'uomo e sua figlia sono liberi di partire per un altro club, per un altro torneo, dove la scena potrebbe ripetersi.

L'Orange Bowl è uno dei più importanti tornei giovanili del mondo. Ma vincerlo non è una garanzia di successo futuro. Tra le vincitrici recenti, una delle storie di maggiore successo è quella di Jessica Kirkland, che ha conquistato il titolo under 18 nel 2004. Ha giocato sette anni da pro, arrivando al massimo al numero 151 del ranking e guadagnando meno di 200 mila dollari prima di ritirarsi.

Eppure, i genitori continuano spesso a fare pressioni davvero eccessive. “Una volta” racconta ancora la Kauffman, “ho visto il padre di un ragazzino andare via e rifiutarsi di guardare il figlio ricevere il premio per il finalista, per il secondo posto. Poi, il padre ha rimproverato il figlio di fronte a un gruppo di coetanei”.

Certo, non bisogna generalizzare. Leonardo Baldi, papà di Filippo, che è nei quarti all'Orange Bowl insieme a Gianluigi Quinzi, l'ha spiegato bene a Vincenzo Martucci della Gazzetta dello Sport. “Ho visto un papà-omone dell'Europa dell'Est attaccare al muro la figlia di 28 chili, che è forte forte, colpevole solo di aver perso tre game. È colpa dell'ignoranza e del sistema, perché se il ragazzo vince ha aiuti economici e sponsor, altrimenti come lo aiuti ad allenarsi e a giocare? Non giustifico certi comportamenti, ma non sono ipocrita, capisco che le sollecitazioni per un genitore che ci crede, ci spera, possano diventare una ragione di vita”.

Nemmeno Cosimo Napolitano, papà e allenatore di Stefano, si stupisce troppo di certe tensioni. La violenza è del tutto inaccettabile, spiega, ma le frizioni tra allenatore e atleta “sono normali, così come non bisogna fraintendere certe reazioni di un padre”.

Per lo psicologo Andrea Colombo, è una questione di modelli e di aspettative. “Lo sport ha innata una certa quantità di aggressività” dice. E nonostante i passi avanti fatti dalle donne, “ha sposato modelli prettamente maschili. Da qui la figura del genitore che ricorre spesso nella gestione del figlio atleta”. Figlio che può diventare “la proiezione del proprio ego”: il genitore “può cercare di realizzare attraverso un'altra persona quei desideri da ragazzo mai realizzati. E le aspettative non realizzate possono sfociare in violenza”. Soprattutto in discipline come il calcio o il tennis in cui il grande successo può garantire una forma di riscatto economico e sociale.

Sono numerosi i casi di padri “ingombranti”. Laura Lou Kunnen, campionessa degli anni ‘40 e ‘50, rivale di Little Mo Connelly, ha vinto un processo contro il padre, Leslie Jahn, per stupro, avvenuto quando lei aveva 13 anni.

Il rapporto complicato con papà Stefano è alla base della ribellione adolescenziale di Jennifer Capriati, che nel 1993, dopo l’eliminazione al primo turno agli Us Open, gli grida “mi stai rovinando la vita” e abbandona il tennis per 14 mesi. In questo periodo viene arrestata per furto in un grande magazzino e possesso di marijuana.

Percosse, violenze verbali e psicologiche hanno contraddistinto il rapporto tra Mirjana Lucic e il padre Marinko, ex campione di decathlon. Votato nel 2003 il peggior padre di tennista di sempre da un quotidiano britannico, nel 1998 confessò di picchiare la figlia per aiutarla a concentrarsi. “Anche se pochi sarebbero d’accordo con me, facevo quello che credevo fosse meglio per lei”. Pochi mesi dopo Mirjana, aiutata da Goran Ivanisevic, scappò negli Stati Uniti.

Si è conclusa con una riappacificazione l'odissea di Jelena Dokic e papà Damir, che dichiarava: “Gli australiani sono razzisti e fascisti: hanno ucciso gli aborigeni come fossero conigli. Dei figli di criminali e prostitute non possono dar vita a un Paese sano. La Wta e l’US Open? Un’organizzazione criminale che lavora in un posto sporco e comunista…New York? E’ un posto che puzza ma dove si può fare del buon shopping. Wimbledon e l’Inghilterra (dopo essere stato arrestato a Birmingham ubriaco cacciato da Wimbledon per lo stesso motivo)? Un Paese fascista in cui solo la Regina è per la democrazia”. E questo era solo l’inizio. Jelena per un po’ regge la pressione paterna, poi crolla. Di schianto. Non sopporta più padre, entra in depressione, non gioca più per mesi e mesi a tennis. Sprofonda oltre la posizione numero 600. Sembrava persa per il mondo della racchetta.

“Non so quante altre ragazze abbiano patito quel che ho sofferto io” ha detto Jelena ricordando l’inferno d’una infanzia travagliata, da forzata della racchetta, obbligata a vincere per consentire al padre di lasciare il camion, alla madre il forno. Vero sfruttamento minorile per… investimenti familiari. Come è accaduto, purtroppo, a tante altre enfant-prodiges. Riuscite e mancate.

Jelena non voleva finire nel dimenticatoio più assoluta, e a fine 2008 inizia la rimonta. Affrancatasi dai genitori e fidanzatasi con Tin Bikic, fratello del suo coach (nel 2006 accusato da papà Damir di aver rapito la figlia), è tornata sui suoi passi. E, sfruttando una wild card, è stata l’eroina dell’Australian Open 2009: quarti di finale e ascesa a n.74. Dopo l’impresa di Melbourne, alti e bassi e la confessione. “My father abused me”, dice Jelena, sbrigativamente tradotta da agenzie e siti italiani sprovvisti di dizionario “Mio padre ha abusato di me”. In realtà l’ex n.4 del mondo del 2002 (cioè quando aveva 19 anni, e a 18 aveva trionfato al Foro Italico) non è mai stata stuprata da Damir Dokic, camionista serbo notoriamente più spesso ubriaco che sobrio, e certo manesco se è vero che la povera Jelena rimediava botte, anche pesanti, una sconfitta sì e l’altra pure. Botte: per gli inglesi “abuse”.

La sua storia ha sempre e commuoverà per sempre il mondo, grazie a quegli occhi da cerbiatto un po’ tristi, con quel talento che avrebbe tanto potuto e per colpa di un orco rimasto lì, un po’ a dormire, ma con l’occhio vigile. Sulla vita.

L’ultimo capitolo delle Guerre dei Roses in salsa tennistica, oltre alla relazione controversa e totalizzante tra Walter e Marion Bartoli, coinvolge Aravane Rezai, che ha denunciato il padre Arsalan per violenza, estorsione e minacce di morte.

Anche il tennis maschile, però, non è esente da figure paterne fin troppo ingombranti, come Mike Agassi, che ha forzato i riflessi e la reattività del piccolo Andre con  il "Drago" e proiettato sul figlio un sogno di perfezione. Andre ha raccontato tutto nella sua autobiografia, Open. Soprattutto, Andre quel sogno l'ha realizzato. Ma per qualcuno che ce la fa, quanti figli di genitori fanatici si perdono per le troppe aspettative caricate su spalle troppo strette?

Alessandro Mastroluca

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