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Felici e conten…nis: quando la testa non regge lo stress

Dalle "Fogninate" al racquet abuse: storie di tennisti squalificati per intemperanze

Last updated: 29/09/2017 9:48
By Redazione Published 28/09/2017
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5 Min Read

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Nel tennis, come nella vita, il talento a volte non basta per raggiungere i propri traguardi. Uno degli ingredienti fondamentali è probabilmente la mentalità vincente, la professionalità, la capacità di gestire i momenti difficili. Ne sanno qualcosa i tanti tennisti fermatisi a un passo dalla storia, o che hanno rovinato un talento cristallino per troppe squalifiche, warning e colpi di testa. Se di recente il nostro miglior giocatore, Fabio Fognini, si è macchiato di insulti sessisti al giudice di sedia agli US Open, rimediando una squalifica e anche una multa di 24 mila dollari, oltre alla confisca dei 72 mila dollari vinti nel torneo, volgendo lo sguardo al passato notiamo che il “Fogna”, tra l’altro non certo alla prima intemperanza, è senz’altro in buona compagnia.

Per restare in casa Italia, come dimenticare l’exploit di Stefano Pescosolido, che a Sydney nel ’92, dopo un liscio sul servizio dell’avversario, preso dalla rabbia scagliò a terra la racchetta e poi la colpì di controbalzo col piede, lanciandola in faccia a una spettatrice? A nulla valse il suo accorrere e sincerarsi delle condizioni della donna, ferita all’arcata sopraccigliare. Gara persa e squalifica. Leggendaria anche quella rimediata da Paolino Cané nel ’91 a Roma, dove distrusse delle aiuole al Foro Italico, e venne fermato per 3 mesi. Ma “NeuroCané”, per citare il grande Clerici, fu squalificato anche a Vienna dove distrusse un calice di champagne dalle mani di un tifoso, reo di bere mentre il nostro “Turborovescio” di galeazziana memoria sudava in campo.

Di tali episodi nella storia del tennis se ne contano a dozzine, spesso con protagonisti personaggi di primo livello. Agassi che litiga con l’arbitro e viene squalificato a San José nel ’99, Nalbandian che distrugge il pannello pubblicitario e ferisce il giudice di linea al Queen’s, e dice addio al titolo. E poi ancora Medvedev che lancia monetine all’arbitro e rimedia 15mila dollari di multa e la squalifica a Wimbledon, Baghdatis agli Australian Open 2012 che distrugge 4 racchette. Un po’ come Ivanisevic “Cavallo pazzo”, che addirittura disse addio a un torneo perché rimasto senza più racchette dopo averle distrutte tutte. Ma in questa singolare graduatoria dei rompi-racchette, nessuno può intaccare il record di Safin di 1055 racchette devastate. Un numero impressionante che lo stesso tennista russo in una recente intervista ha detto di ritenere eccessivo e “dispendioso”.

Eppure, uno dei metodi per superare questi scatti di ira, questa incapacità di gestione dello stress, è in realtà, secondo gli psicologi sportivi, proprio il racquet abuse. Distruggere infatti una racchetta, fermo restando che non dà automaticamente un warning o un 15 all’avversario, è per Alexis Castorri il modo migliore di gestire lo stress durante il match. Infatti, secondo lo psicologo di Andy Murray, canalizzando la rabbia su un oggetto, si ritorna a focalizzare l’attenzione sulla partita. Scaricando la rabbia e vedendo l’oggetto distrutto come una spugna che assorbe la negatività, si riesce di nuovo a giocare con la mente libera.

Altri nomi illustri sono andati incontro a squalifiche per comportamento antisportivo, come l’indimenticabile John McEnroe. Agli Australian Open 1990 lanciò la racchetta, insultò la moglie dell’arbitro, e venne squalificato. Ma le sue intemperanze hanno probabilmente contribuito a renderlo il personaggio tanto amato ancora oggi dagli appassionati del tennis e non solo. Di certo, però, i gesti antisportivi, le racchette distrutte, gli insulti, andranno sempre puniti e multati. Anche perché i campioni sono spesso visti dai giovani tennisti come esempi, e il loro comportamento viene emulato; e sarebbe bello poter vedere i giovani che provano dei colpi visti in tv, o nei tornei, e non che litigano, protestano, e non crescono nel rispetto dell’avversario, dell’arbitro, e in fondo anche di se stessi.

Antonio Petrucci


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